Il numero di Radici ci accompagna nella nostra rentrée litteraire. Il tema di questo numero è stato scelto pensando alla forza che le radici hanno per ognuno di noi. Base da cui partire o nuovi orizzonti a cui aggrapparsi, le radici sono legate alla terra. Parlando con alcuni amici che si sono trasferiti altrove che la loro città natale, la sensazione di creare una nuova appartenenza con il luogo che li aveva accolti nella seconda fase della loro vita, arrivava grazie a nascite, matrimoni ed eventi lieti: tutto ciò che permette di creare un ricordo profondo. Un ritorno alla terra più forte quando purtroppo, perdevano qualcuno lì e lo accompagnavano nell’ultimo viaggio per la sepoltura. Legame con le origini e con l’aldilà. Una appartenenza eterna, un ritorno alla terra, che non è fredda o isolata, ma ricca di legami e ricordi, in un movimento in crescendo.
Penso a mia madre e alle sue vicine, che si scambiano piantine che rinascono e fanno radici in un’altra casa; e se la chiave di lettura delle radici, sia vecchie che nuove, fosse l’accoglienza?
Le case si aprivano ai tribolati, accogliendoli nella miseria che era in esse, come se finalmente ci fossimo tutti risolti a rivelarci. Sì, veramente fu un’epoca che rese migliori anche coloro che non avevano l’ambizione di divenire eroi e che pure sentivano l’obbligo di tener fede a se stessi.
Questo numero sull’odore uscirà nella sua totalità a fine agosto, ma la sua preparazione risale anche a prima di questi mesi d’estate. Perché d’estate un po’ bisogna riposarsi. E se non si può, almeno ci sono la luce e il sole che ci aiutano ad avere l’energia per continuare e tenere duro per gli obiettivi che un po’ ci siamo prefissati e un po’ ci capitano tra capo e collo. Avrei voluto mettere citazioni, fare paralleli letterari, ma è vero che questi mesi sono stati un po’ anarchici: ho letto tanto e quel che mi pareva, ma nel frattempo ho lasciato un po’ la vita accadere. Ho messo in cantiere nuovi progetti (a breve la newsletter), ma ho anche tirato il freno su altro. Però l’odore mi ha accompagnato in questi giorni, grazie soprattutto agli autori che hanno scritto per il blog, e poi alla vita. Ecco, il numero sull’odore è sulla vita e quotidianità. Vi lascio allora la mia lista di odori per questa estate. Io la riprenderò sicuramente quando è troppo buio o vorrò aggrapparmi a un ricordo.
Borse chiuse, ferro delle zip, plastica degli infradito, crema solare, alcool denaturato, citronella, abete di Vancouver, scroscio di pioggia, disinfettante, rotolone di carta del lettino della guardia medica, acqua di colonia, erba secca, bruciato, birra acida, colla degli sticker, basilico, fiori recisi, stucco fresco, incenso, mentuccia, rosmarino, piante di pomodoro, fettine panate fritte, ciambelle al vino, zucchine alla griglia, vino e aceto, acqua di mare, bagni pubblici, sabbia bagnata, pozzanghera, gelato, panni stesi al sole.
Introdurre questo numero non è stato semplice: riflettere sulla luce mi ha posto molti interrogativi e mi ha aggrovigliato i pensieri. Ho fatto molte letture e alcune mi hanno segnato.
“V13” di Carrère innanzitutto. Il testo è la descrizione del processo degli attentati del Venerdì 13 Novembre 2015. L’autore lo ha seguito quotidianamente in tribunale e riporta anche le testimonianze delle vittime. Ad un certo punto una giovane donna (Clarisse) presenta la sua testimonianza: “Quelqu’un a allumé les projecteurs de la salle, tout se passe maintenant dans une lumière blanche, aveuglante, pire que le noir.” L’idea di questa luce accecante che mostra e fa parte del massacro del Bataclan continua a essere presente nei miei pensieri e nella mia coscienza. Io che pensavo alla luce come elemento di speranza, santità e risoluzione dei problemi, mi sono trovata spiazzata dal dolore . Nei giorni seguenti la lettura, la luce per me restava legata al buio e alla paura. Non come protettrice ma come rivelatrice: essere nudi di fronte all’evidenza del dolore.
Ho trovato il ruolo della luce come fondamentale anche nella “Vita di chi resta” di Matteo B.Bianchi: la ricerca dell’interruttore come scoperta della tragedia. Una tragedia espressa in una sintassi corta e piena di spazi. Rappresentativa del dolore più pieno.
E la stessa scrittura dolorosa era presente in “Le cose che non si raccontano” di Antonella Lattanzi. La scrittrice racconta la sua esperienza con la fecondazione assistita e l’aborto, senza tralasciare nessun dettaglio di questo percorso. Quando descrive delle sue ecografie io immagino, vedo, quelle linee chiare, lucenti immerse nel nero. Dove speri sentire un battito e dove poi niente più. E sangue e non voler guardare, voler che tutto ciò sia oscurato, quando invece è mostrato.
Nessuna rassicurazione. Nessuno sconto.
Sentivo sfuggire il mistero della chiarezza: questa idea di luce avrei voluto rifarla mia, riportarla a un momento in cui la sua connotazione semantica legata al dolore o alla gioia non dipendeva né da me né dalle esperienze altrui.
Come dice Ada D’Adamo in “Come d’aria” (suo romanzo di esordio e candidato al Premio Strega 2023): “Nel dialetto del paese dove sono nata c’è un modo che le madri usano per spiegare la nostalgia che le assale di fronte alla crescita dei figli, il desiderio non avverabile di riaverli piccoli. Me l’armittéss dentr ’a la panz.”
Volevo riappropriarmene.
Ho cercato nella scienza, nella fisica, un conforto che veniva da parole, scoperte e numeri più forti di me. Può sembrare strano ma il sentimento che provavo era stato ben descritto da Carlo Rovelli nel suo libro “Buchi Bianchi”: “Ma nulla è eterno. Alla fine l’idrogeno si consuma, si trasforma tutto in elio e in altre ceneri che non bruciano più: la stella resta come un’auto senza benzina. La temperatura scende, il peso comincia a prevalere. La stella si schiaccia sotto l’effetto della gravità. La forza di gravità in una grande stella è immane, neanche la roccia più dura resiste alla sua pressione. Non c’è più nulla che riesca a impedire alla stella di sprofondare su se stessa. Così la stella sprofonda fin dentro il suo orizzonte. Si è formato un buco nero.” Avevo la sensazione che mentre stavo leggendo una spiegazione sul funzionamento del cosmo, in realtà sentivo parlare di me stessa, della mia quotidianità. Le stelle che noi ammiriamo, la cui luce ci arriva e ci dice quanto queste distano da noi, possono diventare buchi neri. Io non volevo però rimanere ferma al buco nero, al dolore. Cosa c’era dopo? Si può uscire da lì? Secondo Rovelli e le sue ricerche sì. “Comunque si sia formato, la materia sprofonda e raggiunge rapidamente il centro. Qui la struttura quantistica dello spazio e del tempo le impedisce di schiacciarsi ulteriormente. È diventata una stella di Planck, che rimbalza e inizia a esplodere. Attorno ad essa, dentro il buco nero, anche lo spazio compie il salto quantico e la sua geometria si riarrangia, come Gandalf, da nero a bianco. […] Nel buco bianco, tutto ciò che cadeva vola poi verso l’alto. Alla fine, tutto ciò che è entrato esce interamente dall’orizzonte bianco, e torna a rivedere il sole e l’altre stelle.”
Se anche le stelle, potenti e immense, attraversano un buco nero per uscire dall’orizzonte, allora chi sono io per fermarmi al buco nero? Allora niente, si va avanti.
Seguire in autostrada il perimetro del guardrail, finché la linea piano piano sale e si fa verde e si fa roccia. Accompagnare la vista con l’odore dei camini e della neve.
Trovare un percorso tra i marciapiedi bianchi, la passerella di cemento e la sabbia bollente fino all’acqua del mare.
Sentire le corde dello zaino tirare e lasciare un segno rosso sulle spalle e continuare a seguire il sentiero.
Guardare a terra per schivare le gomme da masticare squagliate dal sole e pronte a incollarsi alle scarpe.
Cercare riparo sotto un balcone o una grondaia quando la pioggia coglie d’un tratto.
Dalla vertigine improvvisa, cercare rapidi con lo sguardo il lampadario o le tazzine da caffè, per capire se il latrare dei cani sta anticipando la scossa: che oscilla o che sussulta e che può distruggere.
Sfiorare ogni mattina, mettendo la crema, la cicatrice sotto il mento: colpa della bici, dell’andare senza mani e dei pomeriggi a far nulla d’estate.
Ogni dettaglio è paesaggio: urbano e naturale che trova una corrispondenza nei sensi e nei ricordi. Il terzo numero di fuoripunto. parla proprio del paesaggio, vissuto e percorso.
Nel corridoio dell’ospedale. Nel fondo di una chiesa. Nell’ufficio di un avvocato. O alla fermata del bus. Su una panchina al parco. Nel vagone di un treno in corsa.
La persona che eri prima non esiste più. Non esisterà più. La fase del dolore si acutizzerà fino a sentire uno strappo. Fino ad andare giù.
Come andare avanti se si tocca il fondo? Come trovare la forza? Puoi provare ad attingere a quei momenti che ci hanno scolpiti e fatto crescere come esseri umani.
Al ricordo dei libri letti ai nipoti da piccoli (con stornelli e dialoghi impressi a memoria). All’odore dei sedili in pelle rossa della corriera quando raggiungevi l’università per vedere la laurea della tua migliore amica. Al soffiare sulla bua del bambino al quale facevi da babysitter. Al posto del bus lasciato alla vecchietta che poi inveisce contro i giovani. A un collegamento su “Zoom” per festeggiare il compleanno di tua cugina. Alla mano stretta della persona che ami (o amavi) quando passeggi dopo aver fatto la spesa. Alla lettera di scuse per il topolino, quando tuo figlio ingoia il suo primo dente. E puoi infine attingere anche al vuoto che senti quando puoi contare soltanto su te stesso; quando ti scontri col tuo Dio.
Perché in tutto ciò che accade ci può essere un prima e un dopo, ma di continuo c’è un sempre, una forza che ci distingue e persiste nel tempo, dura anche oltre noi: l’amore.
E proprio l’amore è il tema di questa uscita. Visto in una realtà pluridimensionale lo declineremo in poesia, racconto e articolo.
E siccome non è mai abbastanza, avremo anche degli appunti, degli spunti da cui far partire la nostra riflessione.
E poi ci prepariamo: ad Aprile saremo di nuovo qui a parlare di paesaggio.
Cammino per il parco e sento scricchiolare il terreno sotto i piedi. Oggi è ghiacciato. Il cielo è grigio qui, spesso. Il sole lo prendiamo in vitamine e la luce non è la stessa. Ti accorgi di quanto manchi il sole solo quando, con l’aereo, rompi il muro delle nuvole.
Intorno a me una brina avvolge tutto come una coperta. L’aria pizzica. Respiro con tutta me stessa. La gola brucia e gli occhi lacrimano. Sorrido. È come a casa. È come quando spalancavo la finestra e vedevo il Monte Velino. Respiravo forte e riempivo i polmoni di freddo e odore dei camini. Odore di casa. Di legno bruciato, di castagne arrosto.
Casa. Lontana. Vicina. Presente solo nel ricordo dei cari. Antica nel cuore e nel tempo.
Il primo numero di fuoripunto. è sulla casa. Come la ricordiamo, come la percepiamo, come la viviamo dal di dentro, dal di fuori.
La declineremo in poesia, in racconto, in articolo.
E nel frattempo ci prepariamo: a febbraio saremo di nuovo qui, con il tema dell’amore a farci compagnia.
Pamela
Al primo numero hanno collaborato, insieme a Pamela Frani: