Spesso mi capita di restare incantata a osservare un paesaggio, come rapita da forze indefinibili originate da un qualche tipo di sortilegio. In questi momenti, mi ritrovo a pensare che ciò che si apre davanti a me – può essere uno scenario naturale o urbano, non importa – possieda un’emotività propria, viva e consapevole. Non si tratta solo di una banale proiezione del mio stato d’animo sull’ambiente circostante (quello che nelle ore di lettere a scuola ci hanno insegnato a identificare come paesaggio-specchio); piuttosto, mi pare di essere coinvolta in uno scambio di sguardi tra me e il paesaggio, come se questo si appropriasse del mio modo di vedere le cose e lo trasformasse. A quel punto, la pienezza di un luogo si manifesta alla stregua di un’apparizione, riuscendo a penetrare la mia sensibilità in una maniera talmente intensa da risultare, in alcuni casi, persino dolorosa.
Questo genere di esperienza, così personale e insieme piuttosto comune, configura quello che in psicoanalisi è stato definito come mindscape1: un’idea di paesaggio-psiche per cui i luoghi non sono solo articolazioni spaziali e percettive, ma disegnano una dimensione del pensiero che richiede un ordine simbolico, fatto di tempo, memoria e oblio.
Non è raro che tale forma di compenetrazione venga innescata dall’osservazione di un paesaggio in disfacimento, da un luogo abbandonato o che è sul punto di diventarlo. Al paesaggio in rovina fa spesso eco un dissesto interiore, tanto più profondo quanto più è forte il senso di appartenenza che ci tiene legati a quel luogo specifico.
Lo straniamento che ne deriva, genera in me una doppia urgenza: da un lato decodificare quelle sensazioni così inafferrabili, cercandone il riverbero nella poesia e nella letteratura; dall’altro, avviare una riflessione sul come (e sul se) sia possibile riempire di nuovi significati i luoghi in rovina, e ricostruire, di conseguenza, anche l’interiorità di chi li abita o li attraversa.
Il terremoto disegna la geografia del dolore
Le catastrofi hanno da sempre tracciato una mappa ben estesa di territori devastati e di città morte, configurando una sorta di geografia del dolore per cui, al senso di precarietà e malinconia sperimentato delle comunità coinvolte, si aggiunge un presagio di fine, imminente e sempre possibile.
La violenza di un terremoto, ad esempio, genera detriti e polvere, ma può anche allargare crepe interiori preesistenti fino ad aprire delle voragini insanabili.
La letteratura delle macerie diventa a quel punto uno strumento indispensabile per addentrarsi in quegli interstizi – anche temporali – in cui il disfacimento fisico diventa rottura di coscienza. Ma esplorare le zone d’ombra e tentare una ricomposizione del sé, passa per lo stabilire un legame di tensione continua tra le impressioni che popolano la mente.
Difatti, uno dei corollari naturali dell’idea di mindscape è che un paesaggio non è solo un luogo geografico, ma è espressione di una complessità sinestetica. Colline, colori, case, odori, acque, oggetti, fratture, rumori: la totalità della percezione si fa proiezione mentale. Potrebbe dunque non essere un caso che il paesaggio del terremoto venga spesso descritto con la semantica del suono, anticipatrice dell’oscillazione, preludio al crollo.
È quanto accade in Rombo di Esther Kinsky2, dove il racconto del terremoto che colpì il Friuli nel 1976 si dipana attraverso una narrativa frantumata, che posa lo sguardo su ciascun momento del fenomeno sismico al ritmo e all’intensità dei suoi movimenti sussultori. Il racconto si dilata e si comprime, anche stilisticamente, esattamente come accade alla terra sollecitata dalle scosse. Le descrizioni del paesaggio carsico, tagliente e azzurro, si propagano come onde e si intervallano a richiami mitologici, alla memoria storica e ai racconti di frontiera. I personaggi vengono colti come testimoni sopraffatti da una foto istantanea, che però resta scolpita nel tempo, come un’incisione sulle rocce preistoriche. Essi vengono dislocati tra le pagine quasi come se fossero brandelli di loro stessi, sollecitati da premonizioni o da reminiscenze sfumate. Il rumore che anticipa il terremoto accompagna il lettore per tutta la lunghezza del racconto, viene descritto comeun accumulo di suoni in crescendo, come la conclusione sorda e smorzata di un movimento cominciato molto lontano3 con cui tutto è iniziato e che tutto ha cambiato:
«In seguito, tutti parleranno del rumore. Del rombo. […] Sibilo, ronzio, brontolio, sussurro, tuono, strepito, fruscio, stridore, borbottio, fischio, rimbombo, boato. E così via. Ma sempre cupo. Nessuno l’ha avvertito come stridulo, squillante, limpido.»4.
Il boato del terremoto, occulto e indifferente, si fa poi voce tra le voci nel romanzo di Remo Rapino Cronache dalle terre di Scarciafratta5.
Tra gli abitanti delle terre di Scarciafratta – luoghi dell’anima corrispondenti alle colline erbose e ferite dell’Abruzzo – una voce da trombone sfiatato prende la parola, e presentandosi come la “Cosa Brutta” descrive in prima persona l’atrocità, ineluttabile, di cui è capace:
«Dal sottosuolo ho fatto salire un rantolare sordo come un grosso lupo mannaro, per inquietare corpi e anime. In ultimo ho tirato l’esplosione di grido, un urlo rabbioso, una ferita lancinante. Facevo urlare la terra tutta, che sembrava farsi come una polenta, acqua e fango sotto le scarpe, le pareti gemevano di un dolore quasi umano, i tetti s’aprivano con furia, solo qualche architrave reggeva a malapena, tutto sbriciolava come biscotti acqua e farina, intanto che mille voci gridavano ad un cielo indifferente Il terremoto, il terremoto! […] » 6
Il dolore è qui talmente pervasivo da occupare tutto il paesaggio: si inserisce nelle pieghe dell’umano, invade la memoria. Un attimo dopo, le immagini della distruzione si fanno già ricordo e uno squarcio si apre su quello che rimane: la vita salvata dalle macerie e che popolerà le rovine.
Tra le cose che restano c’è la lingua, quella parlata e quella della poesia, territorio intangibile dove si origina il senso di appartenenza e si cura l’anima. La lingua diventa intima e preziosa, perché chiama ciò che si è perduto.
Spopolamento e desolazione emotiva: partire o restare?
Tragedie come quelle provocate dai terremoti accelerano i processi di spopolamento delle aree colpite dalle catastrofi e incentivano i flussi migratori.
I movimenti umani di massa trasfigurano il paesaggio al pari di una sciagura naturale, lacerando ulteriormente territori già tramortiti. È quanto accade, nei paesi doppi che si originano quando un centro abitato si sposta verso un luogo non distante da quello colpito dalla calamità.
In situazioni come queste, all’esodo delle comunità, si affianca una desolazione emotiva: i vuoti si manifestano e acquistano consistenza, i paesi abbandonati diventano cumuli di pietre, e vengono talvolta idealizzati in una nuova retorica dei borghi fantasma che non fa altro che accentuare il senso di spaesamento già provato da chi sente ancora di appartenere a quei luoghi ma è costretto ad abitare altrove.
Restare o partire infatti non è una scelta che si compie in maniera indolore, spesso non è nemmeno una scelta. E se, da un lato, si è abituati alle dinamiche dell’andare via (una necessità che, seppure dolorosa, contiene in fondo una promessa), meno esplorate sono invece le implicazioni del restare.
In questo senso, il saggio La Restanza7 di Vito Teti può considerarsi un valido punto di riferimento per mettere a fuoco il restare in contrapposizione al partire. Un corpus concettuale che riguarda anche le città, le metropoli, le periferie.
Partendo da una lettura critica del territorio in continuo cambiamento, Teti immagina e descrive nuove pratiche dell’abitare. La prospettiva è molteplice: all’indagine dell’antropologo-letterato, si affianca l’insofferenza tutta umana di chi sa di appartenere a un paesaggio in rovina secolare – quello nostro, peninsulare – e che ancora fatica a trovare una dimensione propria nella contemporaneità.
La restanza non è infatti una forma di nostalgia o una vocazione malinconica, spesso apatica nei confronti del posto in cui si è nati, tutt’altro: ha a che fare con la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi, attraverso processi creativi e conflittuali, che possono risultare rigenerativi tanto per il territorio in sé, quanto per i suoi abitanti. Restare, in fondo, non è che un ulteriore modo di affermare la presenza e riempire i vuoti.
Il Terzo Paesaggio come fondamento per una topologia comune
Ri-abitare i luoghi significa principalmente impegnarsi a costruire comunità senza cadere nella retorica dell’esasperazione identitaria8. Vuol dire anche uscire da visioni ristrette, e soprattutto, superare quella ripartizione rigida a cui sembra assoggettato il paesaggio contemporaneo, che vede da un lato il prorompere di luoghi imbalsamati e turistificati (come i borghi prettified o i centri storici ormai gentrificati) e dall’altro, l’addensarsi di spazi ai margini e in stato di abbandono, dove povertà, migrazioni e guerre sociali si sedimentano come rifiuti in una discarica.
Per ridare significato al paesaggio in rovina si rivela allora fondamentale costruire una topologia comune: elaborare cioè, delle coordinate condivise di lettura del paesaggio con l’obiettivo di costruire un pensiero critico, che possa fare da motore per un cambiamento rigenerativo.
Proprio da questa esigenza sembrerebbe partire il paesaggista e filosofo Gilles Clément nel suo Manifesto del Terzo Paesaggio9, un pamphlet tecnico che spiana la strada alla riflessione sul paesaggio in abbandono.
Clément identifica il Terzo Paesaggio come l’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo, che appaiono per sottrazione ai territori antropizzati10. Recita il manifesto:
«Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre […] una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. […] Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata.»11
Appare chiaro dunque che la diversità, intesa nel senso più largo come convivenza nelle differenze, diventa la lente attraverso cui avviare una nuova lettura degli spazi di indecisione, di quei frammenti condivisi di una coscienza collettiva12 che contraddistinguono il paesaggio in rovina. Rieducare lo sguardo all’osservazione del paesaggio, abituandolo a cogliere l’invisibile nascosto nel visibile, potrebbe allora non essere un affare puramente personale, legato all’unicità emotiva di ciascuno. Al contrario, potrebbe invece rivelarsi fondamentale per maturare, a livello collettivo, quella consapevolezza da cui muove la possibilità di cambiamento. Una presa di coscienza che, a ben vedere, trova fondamento nel senso di meraviglia, inteso non tanto come stupore di fronte a una bellezza codificata, ma come un ritorno alla capacità di sorprendersi di fronte al possibile.
1 Vittorio Lingiardi, Mindscapes, Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina 2017
2 Esther Kinsky, Rombo, Iperborea, 2023
3 ivi, p. 46
4 ivi, p.46
5 Remo Rapino, Cronache dalle terre di Scarciafratta, minimum fax, 2021
6 ivi, pp.149-150
7 Vito Teti, La Restanza, Einaudi, 2022
8 ivi, p. 49
9 Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, 2005
10 ivi, p. 13
11 ivi, p. 16
12 ivi, p. 30
Autore
Carmela Fabbricatore
Carmela Fabbricatoresi occupa di letteratura e progettazione culturale. Ha frequentato il percorso di editoria di minimumlab e collabora come lettrice con il Premio Calvino. Scribacchia delle sue letture su @quilldriver.ink.