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La casetta era stata costruita dal nonno di mio nonno, esattamente nel 1900, su un pezzetto di terra sabbiosa comprato per due soldi. Avrebbe voluto farci un orto, ma capì ben presto che il vento denso di salsedine non avrebbe permesso alle verdure di venir su bene.
All’epoca, però, cominciavano ad andare di moda i bagni di mare, e girava la voce di quanto bene facesse alla pelle l’acqua salina, e quanto giovasse ai polmoni quello stesso vento che uccide i pomodori: molto meglio, allora, utilizzare quel fazzoletto di terra come punto d’appoggio per la spiaggia, e fare come i veri signori, che nei giorni di festa scendevano da Asola, il vecchio paese in collina, fino alla costa ancora disabitata. Così chiamò un muratore, e insieme tirarono su quattro muri; fece il caminetto, come usava nei casotti che si costruivano in mezzo alle campagne, e mise una porta di legno verso la ferrovia che correva parallela alla spiaggia; volle anche una grande finestra nella parete opposta, verso il mare: una meravigliosa apertura sulla spiaggia scogliosa, sulle onde, sul cielo e nient’altro.
Nella sua casa di Roma, in un cofanetto intarsiato, Zia Mira, la sorella di mia madre, custodiva foto in bianco e nero di signori baffuti e signore con elaborati vestiti da spiaggia, in posa proprio sugli stessi scogli tra i quali, decenni dopo, io mi sarei sdraiata scomodamente per abbronzarmi.
Adesso quelle foto le custodisco io.
Riconosco, tra quelle signore sorridenti sotto gli ombrellini, zia Teresina, la sorella di mio nonno, spigolosa e con il cipiglio attento e ironico già a sedici o diciassette anni. Non c’è da meravigliarsi che non si sia sposata, e non fu certamente – come amava dire malignamente mia nonna, la cognata bellissima – per via del nasone e dei capelli crespi.
Mio nonno non compare mai in quelle foto: era ragazzetto, a quel tempo, e sarà stato a correre dietro a qualche gonnella; cosa che non avrebbe mai smesso di fare, neppure da sposato, neppure da vecchio.
I miei primi ricordi della casetta sul mare risalgono alla metà degli anni Cinquanta, quando l’aggiunta di un serbatoio per l’acqua piovana e di un piccolo gabinetto (migliorie pretese da zia Teresina e da nonna, che per una volta avevano deciso insieme senza prendersi a capelli), l’avevano resa accogliente, al punto che si poteva passar sopra alla mancanza di elettricità; tanto d’estate la luce naturale dura fino all’ora di cena.
A me, che ero bimba, sembrava la casetta di Hansel e Gretel, ma senza la strega cattiva e con in più il mare.
Sul camino, che mai nessuno accendeva, nonna aveva appeso due maschere colorate: le aveva portate come souvenir dall’Africa un amico di famiglia che era stato ingegnere laggiù, e nessuno le aveva volute tenere in casa. Quegli orrori! Dicevano mamma e zia Mira, col loro gusto da statuette di Capodimonte e stampe del Piranesi. Così erano finite alla casetta.
Nel mezzo secolo intanto trascorso, grazie anche alla costruzione della litoranea carrozzabile, la parte costiera della regione si era popolata, e ciascuno dei paesi medievali arroccati sui monti aveva generato il proprio omologo balneare; anche Asola, l’antico paese in collina, si era replicato in Porto d’Asola, dapprima frazione con quattro case di pescatori, e infine moderna località di villeggiatura, con la piazza della stazione, le pensioncine, le gelaterie, il mercato del sabato; tutto alla distanza di una passeggiata dalla nostra casetta.
C’era ancora, su ad Asola, la casa di famiglia, quella in cui erano nati nonno e zia Teresina, e prima ancora il loro padre, e il padre del loro padre: era un palazzetto tutto scale in un vicolo del centro, e ci era rimasta ad abitare zia Teresina, che da giovane lavorava come infermiera in paese e non aveva mai voluto trasferirsi a Roma. Tutti noi arrivavamo a giugno, per goderci la magica casetta sulla spiaggia.
Zia Mira si piazzava con i figli nella casa del paese in alto, e si faceva servire e riverire da zia Teresina, che non aspettava altro che viziare la nipote preferita e i suoi due figli maschi. Scendevano a Porto d’Asola di prima mattina, con la corriera o approfittando del passaggio di qualche paesano.
Noi, più discreti, affittavamo una stanza a Porto d’Asola. Ci stavamo io e mamma tutta la settimana, e il sabato sera ci raggiungeva papà, con il treno.
Nonno e nonna, con spirito da campeggiatori, dormivano alla casetta. L’acqua c’è, dicevano, il gabinetto c’è, e per vederci quando apriamo le brande accendiamo una candela.
Quindici anni di vacanze sempre uguali: giornate intere dentro l’acqua; le chiacchiere, sempre le stesse; le solite litigate furibonde tra mamma e zia Mira, le sorelle, o tra nonna e zia Teresina, le cognate. Nonno sempre in giro: saliva ad Asola per tentare la riconquista di qualche vecchia fiamma del paese, oppure si allontanava lungo la spiaggia, finché, verso la zona dei bagni attrezzati, incontrava qualche villeggiante sola a cui offrire un aperitivo.

Poi arrivò l’estate dei miei quindici anni – dunque era il Sessantasette –, l’estate senza uomini.
Papà aveva appena avuto una promozione, e le accresciute responsabilità non gli permettevano di raggiungerci neppure il sabato.
Nonno aveva raccontato che la macchina aveva un guasto, e il meccanico aveva difficoltà a reperire i ricambi. Vi raggiungerò appena ho risolto, aveva detto. E aveva spedito nonna insieme a noi, col treno. Probabilmente a Roma aveva in corso una delle sue storielle, ma il sospetto non intaccava minimamente la solita allegria di nonna.
Zia Mira, lei, non era mai andata d’accordo con il marito, sposato quando era appena una ragazzina, e d’estate era sempre venuta da sola con i due figli. Quell’anno, però, i miei cugini erano diventati grandi, avevano le fidanzatine a Roma (il tira-tira, diceva nonna), e avevano preferito restare con il padre.
Cinque donne sole – quattro donne e una ragazzina, in verità – tutto il giorno a ridere e litigare, a parlare e sparlare, a prendere il sole, a fumare (loro), a bere caffè (anche io, un poco).
Era un’estate caldissima, i prendisole di cotone si incollavano alla pelle; una volta fuori dall’acqua era fastidioso persino il costume, il mio primo bikini, che se ci fosse stato papà non avrei potuto indossare: rosso ciliegia sulla mia abbronzatura da marocchina. Così prendemmo l’abitudine, nelle ore del gran caldo, di chiuderci nella casetta, tutte e cinque, di toglierci tutti i vestiti, anche i costumi, e avvolgerci con vecchi lenzuoli bagnati. Perfino zia Teresina, che era vecchia, lo faceva, ma lei si spogliava solo dopo essersi avvolta nel lenzuolo.
Io, che avevo i capelli ricci e lunghissimi, per rinfrescarmi ancora di più li inzuppavo a forza di secchiate d’acqua. Mamma e zia Mira facevano a gara per spazzolarmeli; e quando la spazzola incontrava un nodo i capelli tiravano, e io gridavo: basta! Invece mamma e zia Mira pareva lo facessero a posta a smuovermi i riccioli: i capelli schizzavano acqua da tutte le parti, sulle loro braccia, sulle facce, sul collo, e loro facevano versetti di piacere. Per ore restavamo semisdraiate sulle brande, a spiluccare acini d’uva e fettine di melone. Loro, le adulte, fumavano una sigaretta dietro l’altra, e a turno facevamo il caffè sul fornelletto a spirito.
Uno dei primi e più caldi giorni di agosto, forse stordita dal caldo, forse eccitata dai troppi caffè, nonna se ne uscì con una specie di confessione: «Lo sapete?» disse indicando mamma «Quando mi sono sposata ero già incinta di lei».
«Il segreto di Pulcinella!» saltò su zia Teresina «Lo sappiamo tutte che eri incinta!»
«Ma la bimba non lo sapeva» e mi guardò.
Lo sapevo, invece, ma per non farla rimanere male feci la faccia stupita.
«Bell’esempio per la bimba!» zia Teresina staccò una delle maschere africane e la porse a nonna.
«Copriti la faccia, va! Vergognati! Hai fatto la puttana, con quelle mossette tutte gne-gne, e hai incastrato quel mio povero fratello!».
Mamma e zia Mira si tenevano la pancia dalle risate. «Madonna! Sono passati quarant’anni e ancora pensi alle mossette gne-gne!».
«È solo invidia, perché lei non l’ha voluta nessuno, con quel nasone…» reagì nonna. La voce si incrinò alla parola nasone, e gli occhi le diventarono lucidi. Però finse di stare allo scherzo, strappò la maschera di mano alla cognata e si coprì davvero.
«Invidia io? Sappi, bella mia, che il dottore dell’ambulatorio era innamorato cotto di me! Avrebbe pure lasciato la moglie! Sono stata io a convincerlo a non fare uno scandalo, e così ci siamo amati in segreto. Lui mi diceva sempre che non c’era una donna meglio di me, e sì che ne aveva avute! Che come con me… Ma fammi stare zitta, va, che mi fate dire cose che non sta bene dire…». Staccò l’altra maschera e si coprì il volto pure lei.
Zia Mira si bloccò con la tazzina di caffè a mezz’aria. «Questo, di segreto, sì che è rimasto ben custodito!».
In effetti eravamo tutte meravigliate. Dunque zia Teresina era stata qualcosa di diverso, qualcosa di più della granitica zitella che conoscevamo, tutta dedita alla professione di infermiera e alla cura dei nipoti.
Zia Mira prese un sorso di caffè e proseguì: «Merita una confidenza di pari valore. Chi se la sente?». Noi tutte zitte. «Allora parlo io; passatemi la maschera».
E nascosta dalla maschera disse: «Vi confesso che ho peccato. Giordano, il mio piccolo, non è figlio di mio marito».
«Basta!» irruppe mamma. «Hai veramente esagerato. Questi discorsi davanti alla bimba!».
Zia Mira abbassò la maschera, ci guardò negli occhi per assicurarsi l’attenzione di ognuna di noi e continuò: «La sentite, la sorella maggiore?
Quella perbene, quella che ha fatto il buon matrimonio? Sta sempre a giudicare me, l’ipocrita!»
Mamma scattò su come una molla. «Ipocrita? Io?»
«Ipocrita, sì. O non ti ricordi che la settimana prima di sposarti con Fulvio uscivi di nascosto con quell’altro? E io dovevo reggerti il gioco?»
Poi, rivolta nuovamente a tutte noi: «Ma forse crede che quelle non fossero corna. Non era sposata, e dunque, secondo lei, non erano corna».
Mamma era diventata terrea sotto l’abbronzatura.
«Basta ragazze, basta. Si sta esagerando davvero» dissero nonna e zia Teresina all’unisono.
«Va bene, sono le quattro, è ora di tornare al mare» concluse zia Mira.
Mamma mi annodò il reggiseno del bikini sul collo mentre io mi tenevo su i capelli. «Sono uscita solo una volta con un corteggiatore. Per chiarirgli che non doveva più starmi dietro, che avevo scelto tuo padre…» mi disse piano.
Intanto zia Teresina stava riappendendo le maschere.
Peccato, se fosse arrivato il mio turno avrei potuto anch’io confessare quello che avevo fatto con quel ragazzo carino del paese, nascosti in mezzo agli scogli, o al largo in barca, in quei giorni di gran caldo.

Dovetti confessarlo a zia Mira, alla fine di settembre, poco prima che ricominciasse la scuola, per chiederle aiuto. Mi portò da una signora, che risolse tutto, e per un paio di giorni mi ospitò a casa sua con una scusa, perché mamma non si accorgesse del mio malessere.
Però qualcosa probabilmente le disse, perché dall’estate dopo le vacanze a Porto d’Asola si interruppero.
Non accadde mai più, non ci ritrovammo mai più tutte insieme: cinque donne di tre generazioni, con i propri segreti, in una casetta isolata, in un tempo senza tempo.
Non accadrà mai più.
Di quelle cinque donne sono rimasta solo io, e con me la linea si interrompe, perché non ho mai avuto figli; dopo quell’estate ho sempre fatto in modo di non averne.
Ho comprato dai miei cugini le quote della casetta, e ho chiesto che nel prezzo pattuito fossero comprese anche tutte le foto d’epoca di quel posto; le copie originali, piccoline e sgualcite da tante mani.
Ci ho fatto portare l’elettricità e l’acqua corrente, e l’ho arredata in stile marinaro; ho recintato il piccolo pezzo di terra intorno e ho piantato oleandri e bouganville. Ogni tanto qualche turista tedesco o olandese mi chiede se voglio venderla.
Non se ne parla.
Le maschere africane hanno un posto d’onore nella mia casa di Roma. Un antiquario di Parigi mi ha detto che in Francia l’arte africana va molto, e che quelle maschere hanno un certo valore. Inutile spiegargli quanto valore abbiano per me.
Sogno di andare a vivere alla casetta, quando andrò in pensione. Invecchierò e morirò lì, sulla riva del mare, sentendo le chiacchiere di cinque donne.
Certo riporterò le maschere africane, per appenderle di nuovo al loro posto: sul camino.

Autore

Roberta Silvagni
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Roberta Silvagni è nata e vive a Roma. Scrive: di solito in prosa, ogni tanto in poesia. È stata una ragazza avventurosa, adesso è una signora con le perle.