Balzi Rossi, Ventimiglia – foto di Elisa Veronesi

«La casa è il respiro incessante dell’uomo»1

Viaggio nel caldo del treno, mentre fuori il mistral sbalza sulle rocce appuntite dei monti a sud ovest, e arriva mitigato sulla costa mediterranea. I gabbiani restano immobili per aria e sfruttano le correnti per poi cadere in picchiata nel grande blu. Riemergono dopo alcuni istanti, pesci azzurri nel becco, e tornano a giocare col vento.

Rientro a casa. È questo quello che dico ogni volta che devo partire, e che presuppone che io entri nuovamente in uno spazio che, per qualche ragione, chiamo casa. A prima vista rientro in un territorio, l’Italia, dove ho abitato per più tempo rispetto a quello dove abito ora, la Francia. Casa sarebbe dunque, in questo senso, una questione temporale, è il luogo nel quale ho vissuto più a lungo. Rientro poi in terre che conosco bene, nelle quali non ho continuamente bisogno di un GPS per spostarmi, per sapere quale strada imboccare. Casa come spazio riconosciuto. E rientro, infine, in una regione nella quale ancora abitano la mia famiglia, gli amici, molti conoscenti. Sarebbe dunque anche una questione di affetti familiari, la casa, quel posto nel quale vivono le persone care, o meno care, con le quali hai trascorso del tempo, hai condiviso fatti, avvenimenti. Tempo, spazio, affetti: potrebbero sembrare a prima vista ottimi indicatori che odorano di casa. E tuttavia, questi pensieri ordinari sono spesso disattesi quando in Francia mi si chiede di parlare di chez moi, perché ogni volta ne posso dire poco o niente, ogni volta spiazzata dalla domanda, mi barcameno in risposte vaghe dal sapore pubblicitario.

Il treno procede lento e oltrepassa l’assedio cittadino di Nizza. Ovunque case e palazzi risalgono la costa ben oltre Cimiez. Su questa costa rimangono tracce di antichi abitati della storia profonda, capanne e ripari che, secondo alcune ipotesi, potrebbero risalire a oltre trecentomila anni fa, quando abitare significava perlopiù ripararsi. Ma quelle tracce lasciano il dubbio di qualcosa di più antico, di preistorico. Qualcosa che, in ogni caso, modella la nostra concezione di luogo e di paesaggio in un’evoluzione che risale indietro nel tempo di oltre due milioni di anni, quando cacciatori-raccoglitori vivevano in simbiosi obbligata con i luoghi attraversati. Dall’attraversamento al riparo, dal riparo alla casa, questa geografia della diminuzione dello spazio stride, per forza di cose, con spinte evolutive differenti e che contrastano, oggi più che mai, con gli alveari cittadini nei quali buona parte dell’umanità si è rinchiusa.

Dopo una buona mezz’ora il treno oltrepassa la frontiera, riparo oggi di migliaia di persone che vi sostano sperando di raggiungere, dall’altra parte, gli affetti familiari. Fuggiti da territori che in molti casi non potevano più abitare, le loro case non ci sono più, e questa fuga verso Nord non è che l’inizio di esodi climatici che stiamo già vivendo.

Poco oltre il treno viene inghiottito dalle rocce ferrose dei Balzi Rossi, nei quali si trovano altri residui di un abitare antico. I Sapiens dell’era paleolitica, infatti, si erano installati tra queste cavità che, all’epoca, dominavano una steppa gelata attraversata da cervi e cavalli, con il mare lontano, all’orizzonte. L’uomo di Cro-Magnon vi fabbricava oggetti con conchiglie e denti di cervo, seppelliva i morti, cacciava, incideva le pareti della roccia.

«Quando la gran parte degli uomini viveva della terra, con poca mobilità, era naturale sentirsi a casa in certi luoghi. Si restava a casa, si usciva di casa, si tornava a casa – ma la casa non era un mero edificio. (…) Casa era il luogo a cui si apparteneva, e quel luogo era “parte di sé”: delimitava un sé ecologico, ricco di relazioni interne a ciò che ora chiamiamo ambiente. Oggi, però, l’umanità soffre di un processo di corrosione dei luoghi».2

Questa corrosione dei luoghi di cui scrive il filosofo norvegese Arne Næss, fondatore dell’«ecologia profonda», impedisce oggi di sapere davvero dove abitiamo, confusi da spostamenti costanti, accompagnati da tecnologie che ci permettono di essere sempre altrove, attorniati da oggetti e cibi prodotti a migliaia di chilometri di distanza.

Nel 1938 Næss costruì una piccola baita ai piedi del Monte Hallingskarvet, nel sud della Norvegia, un luogo che divenne la sua casa, estate e inverno, e che diventerà per lui un «Luogo-Persona». Il filosofo sceglie questo luogo, lo studia, lo descrive, lo percorre palmo a palmo, vi si insinua cercando di non corroderne il paesaggio, ma di abitarlo delicatamente, senza troppe scorie, riducendo al minimo i rifiuti. La sua testimonianza è preziosa perché ci dà un’idea pratica del fatto che è possibile ricostruire casa, anche altrove, anche se la nostra è andata perduta. È possibile grazie alla cura e all’attenzione che dobbiamo avere verso ciò che fino ad oggi abbiamo considerato solo come “ambiente”, mentre è molto di più, è la Terra che ci permette di camminare, sono le piante che ci permettono di respirare, gli animali nei quali possiamo riconoscerci.

Oltre a Arne Næss esistono altre testimonianze di chi ha cercato e scelto un luogo nel quale abitare in maniera ecologica, leggera, una sorta di «disabitare»3 che spesso inizia dal lasciare la città per trovare luoghi più vicini a forme di sostenibilità in grado di rispettare un equilibrio tra umano e non umano. Da Henry David Thoreau che passa due anni a Walden Pond (Walden, ovvero vita nei boschi) ai territori vasti di John Muir (Andare in montagna è tornare a casa. Saggi sulla natura selvaggia), che vanno dall’Alaska alla Yosemite Valley, dal conservazionista Aldo Leopold (Pensare come una montagna. A Sand county Almanac) con la sua capanna nel Wisconsin fino alla più recente esperienza di Mark Boyle, il quale nel 2013 trova quella che diventerà la sua nuova casa nell’ovest dell’Irlanda. Oltre ad un abitare ecologico Boyle deciderà di sperimentare una vita completamente senza tecnologia e racconterà la sua storia nel libro Tornare a casa. Cronache da una vita senza tecnologie.

Fuori dalla wilderness americana, nella quale spesso si privilegiano esperienze di singoli individui che migrano altrove, in spazi aperti e immensi nei quali è ancora visibile una natura selvaggia, ci sono esperienze comunitarie che è possibile osservare ad altre latitudini, per esempio in Asia, dalla Thailandia al Vietnam e delle quali racconta l’antropologo Andrea Staid in un bellissimo libro che si intitola La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire. Quello che interessa Staid sono proprio le esperienze comunitarie di costruzione delle case, che spesso sono esperienze autogestite e acquisiscono un valore simbolico importante: il più delle volte, infatti, è un paese intero, o comunque i vicini, a impegnarsi nella costruzione della casa di una famiglia. Al netto di pubblicità immobiliari che poco ci aiutano in questo senso, in quanto riducono la casa a semplice bene di consumo o di grattacieli green che sono una soluzione solo per i pochissimi che possono permetterseli, l’antropologo si sofferma invece su un altro valore che si dà oggi alla propria casa, per rintracciare le connessioni che questa assume con il fuori e con le abitazioni vicine.

La casa mononucleare, idolo di un capitalismo che ha assunto l’individualismo a sola regola da seguire, è ormai un abitare pesante in termini di materiali e di non-rapporti che si instaurano con ciò che ci circonda. È, insomma, una casa troppo pesante per una Terra resa ormai fragile dalle attività dell’umano.

Queste esperienze comunitarie purtroppo in Occidente sono complicate dalle norme burocratiche degli Stati che impongono regole ai singoli e rendono molto difficile la progettazione e l’adesione comunitaria dal basso, con le conseguenze che questo comporta per esempio nella gestione delle ricostruzioni dopo i terremoti o le alluvioni, ricostruzioni interminabili che obbligano le persone o ad andarsene o a vivere per decenni dentro a orrendi prefabbricati. Staid ribalta la prospettiva occidentale dell’abitare facendo l’esempio della sicurezza, un tema spesso molto sentito nelle città e nelle periferie:

«in una società in cui il soggetto si riconosce nella sua comunità (pur con tutti i problemi relativi al controllo che ciò comporta), l’apertura della porta di casa è qualcosa che fa sentire sicuri. Se si sta male, qualcuno può entrare ad aiutare, se si ha bisogno di qualcosa si può accedere a chiedere. Il nostro concetto di sicurezza, così come quello di casa, sono relativi ed esprimono una precisa organizzazione biopolitica dell’esistente»4.

Ripensare la casa, insomma, alla luce della società è un’urgenza assoluta di questa nostra epoca. Tanto più che, come dice Greta Thunberg, la nostra casa, quella di tutti, è in fiamme:

«quando la vostra casa è in fiamme, non vi sedete a parlare di come potrete ricostruirla per bene quando avrete domato l’incendio. Se la vostra casa è in fiamme, correte fuori e vi assicurate che siano tutti in salvo mentre chiamate i vigili del fuoco. Per farlo ci vuole un certo grado di panico».5

Per ripensare come abitare occorre sapere prima dove abitiamo, occorre tornare a guardare e a camminare, occorre aprire la porta di casa e uscire. Assottigliare queste mura che ci circondano per farle assomigliare a una spessa tenda di lana che trattiene la pioggia e ripara dal sole. Passare del tempo in altitudine in rifugi dove l’abitare si fa essenziale, senza sprechi.

E mentre ripenso al mio tornare a casa, il treno continua la sua corsa lenta risalendo gli Appennini verso Nord, e mi accorgo che questo movimento che mi porta verso casa vale anche in senso inverso, al ritorno, quando prendo il treno per, ancora una volta, tornare a casa. «L’insegnamento che proviene dalla geografia è che abitare non significa risiedere sempre nello stesso luogo, ma fare propri i luoghi nel movimento; solo così è possibile arricchire insieme sé stessi e i territori che si attraversano»6.

Anche al ritorno, dunque, entro nuovamente in uno spazio che, per qualche ragione, chiamo chez moi, in Francia. È un aller-retour da casa a casa, tra due spazi aperti comunicanti tra loro e in mezzo ai quali attraverso territori che, come le radici degli alberi, sono rizomi complessi e stratificati di storie e memorie da abitare.

1Hajo Eickoff, Casa, in C. Wulf – A. Borsari (a cura di), Le idee dell’antropologia, vol.I, Milano, Mondadori, 2022, pp.217-227.

2Arne Næss, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, Piano B, 2021, p.29.

3 A proposito del concetto e della pratica del «disabitare» si veda il saggio di Matteo Meschiari, Disabitare. Antropologie dello spazio domestico, Meltemi, Milano, 2018.

4 Andrea Staid, La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire, add editore, Torino, 2021, p.10.

5Greta Thunberg, La nostra casa è in fiamme, Mondadori, Milano, 2020, p. 284.

6 Telmo Pievani, Mauro Varotto, Il giro del mondo nell’Antropocene. Una mappa dell’umanità del futuro, Raffaello Cortina, Milano, 2022, pp.38-39.

Autore

Elisa Veronesi
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Elisa Veronesi è laureata in Italianistica. Vive e lavora in Francia, dove è lettrice di Italiano all’Université Côte d’Azur e formatrice alla Società Dante Alighieri Comité de Nice. Fa parte della redazione di Ibridamenti e collabora con il blog La Grande Estinzione. Interessata a contribuire al dialogo e allo scambio culturale tra italiani all’estero, ha collaborato con la rivista on-line Simposio Italiano-revue culturelle e scrive per il sito Altritaliani