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Nella mia classe del liceo, all’inizio del quarto anno, arrivò una ragazza nuova, G.. Veniva dalla classe che ci precedeva, una classe piccolissima, erano in 10 o 11 al massimo, tutte donne. Molto diverse da noi, che eravamo tanti, compositi, casinari. Quelle della quinta, stipate per via del numero insolito nell’auletta più striminzita dell’intero edificio, non si sentivano mai. Niente confusione, niente clamori di alcun genere, nessun episodio che facesse parlare di loro, chiuse lì dentro spesso anche a ricreazione. G. era così anche lei, come le sue compagne. Ma l’avevano bocciata, unica di quelle poche, e finì con noi.
Non legò praticamente con nessuno, in un’età feroce nella quale ci si annusa per riconoscersi, lei aveva un altro odore. Al nostro naso, in realtà, G. non sembrava sapere di niente. Veniva da un paese di montagna di quelli che per le scuole, l’ospedale, il lavoro confluiscono verso la mia città, uno dei borghi più distanti: tre quarti d’ora di corriera e la strada ghiacciata d’inverno. Mi ricordo che la prendevamo un po’ in giro perché da lei, lassù, la tv non prendeva il segnale di Italia Uno: adesso non saprei nemmeno dire se fosse vero o no, può darsi, o può essere che fosse solo un modo stupido di atteggiarci a cittadini davanti a lei che veniva da un paesello.
Arrivava in silenzio tra i primi, appena scesa dal pullman, rimaneva in silenzio nel suo banco, a fare cosa non me lo ricordo. Perché nemmeno io, che pure mi davo arie da leader, ero rappresentante d’istituto, mi impegnavo nell’associazionismo studentesco, e mi sforzavo di esserci, per tutti, sempre, a lei, non facevo caso quasi mai.
L’anno dopo, in quinta, era già primavera inoltrata, la maturità alle porte, arrivammo alla sesta ora e una professoressa, forse quella d’inglese, volendo interrogare, chiamò lei. Ma lei non c’era, il suo banchetto singolo (li avevamo tutti così) in fondo all’aula era vuoto, la sedia spostata, sul piano un libro chiuso, niente zaino, nient’altro. La professoressa ci chiese dove fosse finita la nostra compagna, nessuno seppe dirlo. Mandò qualcuno a cercarla in bagno, niente. Poi, dopo qualche minuto, una ragazza di quelle sedute in fondo anche lei, ebbe il coraggio di dire a voce alta: «Professore’, secondo me G. oggi non è venuta proprio». Rimanemmo muti per qualche secondo.
Aveva ragione. G., in classe, quel giorno, non c’era mai stata, il libro era rimasto lì dal giorno prima. Il docente della prima ora l’appello non l’aveva fatto, si era limitato a un «Tutti presenti?» al quale, evidentemente, avevamo risposto di sì. Sul registro, quindi, l’assenza non era stata segnata. E in testa non l’avevamo segnata nemmeno noi.
G. era a casa sua, raffreddata. Al rientro, forse, nessuno le raccontò di quello che era successo. All’esame di stato fu bocciata, l’anno dopo non si iscrisse, la maturità non la prese più, credo. Di lei non seppi più nulla.
Oggi non so dove sia, cosa faccia. Sono passati venticinque anni da quella mattina. A distanza di tanto tempo, mi sembra ancora, e in modo distinto, una delle cose più sottilmente violente di cui sia stato complice. Quel non accorgercene, quel non sentire, quel non vedere: di come cancellammo G. per un giorno, in realtà per molto più tempo, sento ancora il rimorso.
G. mi è tornata a pesare sul cuore, l’estate scorsa. Un paio di anni fa, più o meno di questi tempi, abbiamo cominciato il progetto di allargare la nostra casa, un appartamento grande, ma non più sufficiente per starci comodi tutti, mia moglie, io e i nostri tre figli. Siamo riusciti ad acquistare l’interno sopra il nostro, lo abbiamo fatto ristrutturare, e poi a giugno scorso è cominciato il ricongiungimento. Finita la scuola abbiamo sfollato i figli a casa dei nonni in Puglia, abbiamo liberato l’appartamento vecchio, e mentre tutto era ancora un cantiere, io e mia moglie ci siamo accampati nel paio di stanze già finite al piano nuovo. È stata un’esperienza di fatica rara, straniante. La polvere, la stanchezza, il viavai settimanale verso i figli distanti trecento chilometri, il pensiero dei soldi (tanti) che stavamo spendendo, gli imprevisti prevedibilissimi di ogni ristrutturazione.

Fino al buco.

A luglio, quando ormai la prostrazione era oltre i livelli di guardia, gli operai hanno iniziato a demolire il pavimento, a pochi metri dalla stanza dove dormivamo. Hanno rimosso il massetto, hanno segato il travetto e hanno aperto il foro dal quale sarebbe poi passata la scala interna per collegare i due piani. Era il momento decisivo: due anni di ansie, di sacrifici, stavano per finire: le case stavano per diventare casa, una.
E invece, davanti a quello squarcio, ho perso il sonno.
La prima notte sono rimasto in piedi sul ciglio di quel temporaneo burrone domestico, ho guardato giù, nel vuoto del cantiere sottostante, coi calcinacci ancora a terra, e dentro ci ho visto un vuoto più profondo, più pauroso. La stanchezza, l’inadeguatezza. Soprattutto, la coscienza improvvisa che la terra possa aprirsi all’improvviso sotto i tuoi piedi, senza avvisaglie, senza permesso, senza lasciarti il tempo di dire o fare niente. E farti sparire, senza lasciare segni.
Quella notte, improvvisamente, ho ripensato a G., e a come la resi assente esattamente come stavo temendo di diventare assente io in quel buio, in quel buco.

«Chi ti cerca è il sole, non ha pietà della tua assenza
il sole, ti trova anche nei luoghi casuali dove sei passata,
nei posti che hai lasciato
e in quelli dove sei inavvertitamente andata
brucia
ed equipara al nulla
tutta quanta la tua fervida giornata».

Sono i primi versi1 di una delle ultime poesie di Mario Luzi, dalla raccolta pubblicata poco prima che morisse, novantenne. Un’assenza bruciata dal sole. Mangiata dall’oblio. Digerita dal nulla.
Il pensiero del vuoto mi ha perseguitato per i dieci giorni successivi.
Poi è arrivata la scala.
L’hanno portata smontata. Due lunghe travi di metallo, sagomate a scalini, più la struttura portante, e le ringhiere, e le pedate di legno bianco da avvitare. I fabbri ci hanno messo meno di un’ora a mettere tutto insieme. Il buco si è riempito sotto i miei occhi: non c’era più. Mia moglie ha salito la scala davanti a me, ho pianto un poco. Mi sono passato il dorso della mano sul viso, poi abbiamo iniziato a pulire tutto, a rimettere tutto a posto.
Ho iniziato a salire e a scendere quella scala, una volta, tante volte, col passo incerto dell’inizio – perché è venuta un poco ripida – poi con quello più scontato dell’abitudine. Sono passate le settimane, i mesi, la quotidianità ha ripreso il sopravvento. Continuavo a pensare, ogni tanto, al vuoto di quella notte. Finché una sera, all’improvviso, in un silenzio innaturale per casa mia che è un sabba permanente di grida di bambini, in un silenzio pieno come quello di quella notte di luglio, ho sceso un gradino e un pensiero mi ci ha fermato sopra.
Mi è tornata in mente una pagina dell’Antico Testamento che da ragazzino mi aveva segnato nel profondo, una vecchia vicenda minore della Genesi. C’è Giacobbe che, per quel piatto di lenticchie diventato poi paradigmatico, compra da Esaù la primogenitura, la benedizione di loro padre Isacco. Il fratello gliela giura, e per sfuggire alla vendetta Giacobbe fugge, spinto dalla madre a cercare moglie presso parenti lontani. Sarà una lunga storia, ma prima che cominci accade un fatto: Giacobbe si addormenta e sogna una scala lunghissima, che dalle nubi scendeva fino a terra, con gli angeli di Dio che salgono e scendono. Quando si sveglia, il sognatore fuggiasco esclama: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo»2.
Non lo sapevo nemmeno io, ora, forse, lo sto comprendendo un po’ meglio. G. non l’avevo cancellata, perché G. c’era, c’era molto oltre la sua invisibilità ai nostri occhi distratti di adolescenti cinici. C’era per chi la vedeva, per chi l’amava, per chi camminava con lei. Non era assente lei: me l’ero persa io.

Come m’ero perso me stesso, fissando il buco nel pavimento senza capire che quel taglio, quel diaframma rimosso, non era un vuoto ma uno spazio liberato senza il quale non potrebbe mai trovare posto il futuro.

Uno strappo da suturare per tenere insieme quello che siamo e quello che siamo chiamati ad essere, la nostra miseria e la bellezza di cui siamo capaci. Perché l’assenza, domani, diventi “più acuta presenza”, come scrisse quasi un secolo fa Attilio Bertolucci3. Perché si possa dire, come nell’ultimo verso della poesia di Luzi, di quella “fervida giornata”: «Eppure è stata / è stata / nessuna ora sua è vanificata».

1 Mario Luzi, “Non andartene”, in Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, 2004
2 Genesi 28,11-19
3 Attilio Bertolucci, “Assenza” (da Sirio, raccolta del 1929), in Le poesie, Garzanti, 1998

Autore

Simone Esposito

Simone Esposito è un giornalista e un comunicatore pubblico. Dopo essersi occupato di comunicazione istituzionale in vari enti, dal 2018 è l'addetto stampa del Centro nazionale trapianti, l'autorità competente del Servizio sanitario nazionale per la donazione e trapianto di organi, tessuti e cellule umane. Si è formato nell'Azione cattolica, associazione della quale è stato responsabile nazionale. È nato nel 1982, è sposato e ha tre figli.