«Fidati.»
Lisa guardò la sua coinquilina Kate ferma sulla soglia di casa, rispose solo con cenno della testa e un mezzo sorriso, poi uscì. Consegnò il suo zaino a Daniel e salì sul furgone.
Il portellone del Mitsubishi si richiuse di botto, Daniel riprese posto al volante e partirono.
Attraversarono il centro di Melbourne con sorprendente velocità. Le strade, che di solito erano ingorgate di traffico, sembravano quasi deserte. D’altra parte, solo due giorni prima era stato Natale, c’era ancora aria di vacanza in città. E poi era ancora presto, forse più tardi la città si sarebbe animata con il brulicare tipico del sabato, con il dentro e fuori dai negozi di Bourke Street di chi compra, ritorna, cambia, ancora preso dalla frenesia degli acquisti natalizi.
Lasciarono le strade cittadine e presero l’autostrada che separava la muraglia di grattacieli da un lato e la distesa dei capannoni del grande porto della città dall’altro.
Lisa allungò il collo per seguire meglio con lo sguardo le facciate dei palazzi: tutte quelle finestre, strato dopo strato, fin su, trenta, quaranta, perfino novanta piani della Torre Eureka, tutta quella gente, non era abituata.
Non aveva mai vissuto in una grande metropoli, lei era una ragazza di paese. Solo un mese prima aveva intrapreso la sua più grande avventura imbarcandosi all’aeroporto di Milano, aveva scovato il gate giusto allo scalo di Kuala Lumpur e, dopo quasi trenta ore di viaggio, finalmente, aveva raggiunto Melbourne.
Eppure, sin dal suo primo arrivo in quella città così moderna e verticale, non aveva percepito tutte quelle presenze, quelle finestre illuminate, quegli occhi che guardavano dall’alto al basso, come opprimenti. Li sentiva, stranamente, rassicuranti. Tutta quella gente, quei volti che mescolavano etnie e continenti, l’avevano aiutata a sentirsi meno sola. Ammirò affascinata la skyline di Melbourne per tutto il tempo che ci volle per percorrere il West Gate Bridge, poi la città rimase alle sue spalle.
Man mano che procedevano i palazzi si abbassavano, la strada seguiva i perimetri delle staccionate dei nuovi quartieri residenziali, poi pure quelle, all’improvviso, sparirono e l’autostrada tagliò a metà il giallo dei pascoli secchi fino in fondo, fin sulla linea dell’orizzonte.
Tutto quello spazio aperto era abitato solo da qualche mucca scura, e da qualche albero che, solitario, liberava i rami in alto reclamando più cielo possibile.
Due ore e mezza per arrivare alle cascate. Il tempo era l’unità di misura per le distanze, in Australia.
Il traffico si diradò finché non ci fu solo il loro fuoristrada ad arrampicarsi su e giù per le basse colline delle campagne del Victoria. Tutto quello che le era rimasto della presenza umana, era l’asfalto di quella strada e i fili metallici tirati fra i paletti a dividere i pascoli. Lisa distolse lo sguardo dal finestrino e si girò verso il lato guidatore.
E Daniel: le era rimasto solo Daniel.
Imboccarono una strada sterrata, ad ogni curva la foresta diventava sempre più alta e densa. Lisa capì che erano arrivati solo quando, sul ciglio, spuntò il cartello di legno con inciso “Stevensons Falls Camping”.
Nel folto della vegetazione a malapena si scorgevano le tende piantate. Ogni tanto qualche fuoristrada parcheggiato di traverso sul rialzo della strada indicava che quello spiazzo era già stato preso da qualcuno. Quando ormai sembrava non ci fosse più strada rimasta, Daniel riuscì a scovare uno spazio d’erba, nascosto dal folto dei cespugli e circondato da tronchi di eucalipti che puntavano in alto verso lo scuro di rami e foglie.
Appena scesi furono accolti dal caldo intenso della tarda mattinata. Daniel si mise subito a scaricare il bagagliaio. Anche Lisa prese un paio di borsoni, senza saper bene dove metterli o che cosa contenessero. Voleva essere utile, ma le sembrava che ogni sua piccola iniziativa finisse per essere più un impaccio che un aiuto.
Daniel, invece, si muoveva con naturalezza, le dava istruzioni, le mostrava come fare, e in poco tempo la tenda era piantata, i materassini erano gonfiati e la legna era accatastata al centro dello spiazzo, pronta per la sera.
Solo allora Lisa si rese conto che, presa dall’urgenza di sistemare le loro cose, non si era ancora guardata intorno. Aggirò la tenda seguendo il confine fra il loro spiazzo e la vegetazione.
Niente. Nemmeno una. Nessuna di quelle piante le era familiare. Dalle foglie, sottili e lunghe, dei cespugli sbucavano dei pelucchi colorati, alcuni rossi, altri gialli, a ben guardare potevano esserne i fiori. I tronchi degli alberi erano di un nocciola chiaro e liscio, qua e là pezzi di corteccia secca e più scura si staccavano come la pelle scottata al mare. I rami si arrampicavano verso l’alto, contorti, come se avessero patito la fatica e l’arsura per arrivar fin lassù. Pure le foglie sembravano gocce verdi mezze sciolte dal caldo.
Daniel bevve delle sorsate dalla bottiglia e poi la lasciò capovolta sulla faccia e sulla testa finché non fu vuota.
«Dai, vieni» le disse, «ti porto alle cascate, così ci rinfreschiamo» e si avviò su per la stradina di ghiaia, poi sparì quando imboccò il sentiero nascosto fra le piante. Lisa si fermò davanti alla freccia sul palo di legno che indicava la direzione per le cascate, ma che rivelava, di fatto, una stretta striscia di terra battuta che si snodava dentro il verde denso della foresta.
Daniel, poco più avanti nell’ombra, si girò ad aspettarla.
Lisa si decise, e lo seguì.
Fidati, le aveva detto Kate.
E lei si era fidata. Ma in fondo, anche Kate, la conosceva solo da poche settimane. Si erano incontrate al Big Mouth Cafè, Kate lavorava in cucina e Lisa era stata assunta come cameriera. Da subito si era sentita a proprio agio con quella ragazza. Quel giorno che il manager del ristorante l’aveva presa in giro davanti a tutti per la sua pronuncia in inglese, Kate non aveva esitato: gli aveva puntato il dito in faccia e gli aveva sibilato qualcosa a labbra strette. Cosa gli avesse detto, Lisa non lo sapeva, ma aveva funzionato, perché quello scemo non l’aveva più importunata. Da allora, erano diventate amiche.
Appena Kate aveva saputo che Lisa stava in un ostello non aveva esitato a farle l’offerta, che proprio in quei giorni, vedi a volte la fortuna, si era liberata una stanza nella sua casa condivisa e allora Lisa, dopo il lavoro, era passata a prendere le sue cose e, oltre che amiche, erano diventate anche coinquiline.
Kate era stata categorica: non esiste che passi il giorno di Natale da sola. Così Lisa l’aveva seguita dai suoi a Noble Park. La casa era tutta addobbata, ad accoglierli c’era un Babbo Natale gonfiabile vicino al cancelletto d’entrata e l’albero lampeggiante circondato da pacchetti in mezzo al salotto. C’erano tutti gli ingredienti giusti perché fosse Natale, ma per quanto si sforzasse, a Lisa non sembrava la stessa festa. Troppo sole e troppo caldo per tutta quella neve finta e quei berretti rossi col pelo.
La casa era affollata da nonni, genitori, fratelli, zii e cugini. Più di trenta persone che, birra in una mano e piatto sull’altra, chiacchieravano sparpagliati sul portico e in giardino, affrontando i trentacinque gradi di calura di quel giorno. Lisa aveva imitato Kate, e anche lei si era messa sul piatto un po’ di tutto: l’arrosto con le patate, l’insalata con i gamberetti e pure un pezzo di pannocchia bollita.
«Non ho mai visto nessuno mangiare il mais con le posate» le aveva detto Daniel e come a dimostrazione aveva preso in mano il suo pezzo di pannocchia e l’aveva addentato, un po’ di sugo gli era sceso fin sul mento. Lisa era diventata tutta rossa, aveva abbandonato la sua forchetta sul piatto e si era messa anche lei a sgranocchiare il mais dolce.
Quando Kate aveva scoperto che Lisa non aveva ancora lasciato Melbourne dal giorno in cui era arrivata in Australia, aveva organizzato tutto: ci pensa il mio cuginone Daniel, le aveva detto dandogli una manata sulla spalla, lui va sempre in campeggio, ti ci porta lui nei posti migliori.
Adesso, Lisa lo seguiva addentrandosi nella foresta. E più proseguivano e più lei si sentiva persa, disorientata. Grandi felci con il tronco scuro di almeno due metri srotolavano enormi foglie sopra le loro teste, l’aria calda e secca cucinava la pelle e riempiva il naso di odore di eucalipto, strisce di corteccia e foglie secche scricchiolavano sotto le scarpe.
Sbucarono su uno slargo d’erba alta resa ancora più gialla dall’intensità del sole. Lisa allungò la mano e accarezzò la punta degli steli riarsi: l’erba, almeno quella, era uguale in tutto il mondo. Lasciò il sentiero e si addentrò di qualche passo per godersi quella sensazione familiare.
«Se fossi in te, uscirei da là» Daniel si era fermato a guardarla, «ai serpenti piace un sacco nascondersi nell’erba alta.»
Lisa fece uno scatto di lato per salvare le sue caviglie dalla minaccia di morsi velenosi, e si affrettò su per il sentiero.
Appena raggiunsero le cascate, Daniel si tolse le scarpe, lasciò il telefono e le chiavi del furgone sopra una roccia e si tuffò in acqua. In poche bracciate raggiunse le rocce sotto la cascata e rimase lì, sotto la potenza di quel flusso bianco.
Lisa si riposò seduta su una roccia vicino all’acqua, senza osare toccarla. Poi cedette al caldo, si tolse le scarpe e si rinfrescò i piedi. Ma non si lasciò convincere a fare una nuotata. Chissà quali minacce poteva nascondere quell’acqua scura e profonda.
Ritornarono alla tenda che era sera. Daniel accese subito il fuoco. Mise un pezzo di carne e delle verdure spezzettate dentro una pentola in ghisa, chiuse il coperchio e ricoprì tutto con le braci.
I raggi obliqui del tramonto illuminavano le cime degli alberi sulle colline intorno. Appollaiati sui rami più alti grandi pappagalli bianchi dalla cresta gialla, insistenti, riempivano la sera con i loro richiami striduli. Come se l’ultimo raggio di luce del tramonto avesse spento un interruttore, tutti gli uccelli, di colpo, si acquietarono.
Cenarono che era quasi buio, il fuoco faceva del suo meglio per tenere distante il buio della notte. Lisa si avvicinò un po’ di più con la sedia, per assicurarsi di restare dentro al misero perimetro di luce. Il vento caldo scuoteva le cime in alto degli alberi, il frusciò rotolava giù dalle colline, passava sopra le loro teste e se ne andava via veloce, senza nemmeno sfiorarli, lasciando che il fumo salisse dalle braci in un lungo filo verticale.
Il buio alle sue spalle si popolò di rumori nuovi, di foglie scomposte e terra frugata. Un rametto secco spezzato la fece sobbalzare.
«Cos’è stato?»
«Ma no, niente, sarà un wallaby, o forse un wombat» la rassicurò Daniel, «tranquilla, non fanno nulla.»
Ma Lisa non riuscì a scrollarsi quella sensazione di minaccia. Dopo un po’ si arrese, diede la buonanotte e ripiegò per il misero riparo che le offriva la tenda.
Si infilò nel suo sacco a pelo, sforzandosi di non ascoltare. Sentì lo sfrigolio dell’acqua sulle ultime braci, la bottiglia di birra vuota dentro il sacchetto dell’immondizia appeso al ramo, la cerniera della tenda che si apriva.
Fidati, si ripeté Lisa, facendo finta di dormire.
Rimase ad ascoltare finché non percepì il respiro regolare di Daniel addormentato al suo fianco, poi esausta, anche lei cedette al sonno.
Fu svegliata dal richiamo di centinaia di scimmie impazzite.
Non osò muoversi. Ancora annebbiata dal sonno, forse, se l’era inventato. Invece il frastuono si ripeté, stavolta più forte, in un rimbalzo di grida frenetiche.
Si girò a guardare. Nella luce debole dell’alba che filtrava nella tenda vide che Daniel continuava, imperterrito, a dormire.
Non potevano essere scimmie, non lì, non in Australia.
Ad ogni urlo se ne sovrapponeva un altro e un altro ancora, sempre più forti: alcuni acuti, altri gorgoglianti. Lisa si alzò a sedere.
La paura che l’aveva svegliata, si stava trasformando in panico.
«Daniel.»
Era riuscita a chiamarlo, ma solo con quel po’ di voce che le era sgusciata fuori dalla gola chiusa.
Uno dei richiami le sembrò essere proprio lì, sopra la loro tenda. Lisa afferrò il braccio di Daniel, che si ridestò e la guardò confuso.
«Cos’è Daniel? Che cosa sono queste grida? Cosa sta succedendo?»
Daniel si sollevò e si sfregò il viso. Ascoltò, come se tutto quel baccano fosse la cosa più normale.
«Cosa? Questi?» indicò verso l’alto con il dito, poi aggrottò la fronte. Lisa vide tutta la sua paura rispecchiata nella preoccupazione di Daniel.
«Tranquilla, sono solo dei kookaburra», le mise entrambe le mani sulle spalle.
Lisa scosse la testa, senza capire.
«Sono uccelli, ce ne sono un bel po’ qui, fanno sempre così all’alba» le spiegò.
Lisa rimase ferma, in ginocchio sul suo materassino, e si lasciò abbracciare. Sentì la pressione solida, ma delicata, di Daniel, avvolgerla e l’ansia le sfuggì via, con un sospiro.
Appoggiò la guancia sul suo petto e si lasciò cullare. E lì, in quell’abbraccio, si sentì a casa. Come se, da sempre, avesse abitato fra quelle braccia.
Appena il primo raggio dell’alba si arrampicò oltre la collina la tenda si riempì di luce e la foresta, pian piano, si calmò.
Autore
Loretta Martignon
Loretta Martignon è nata e cresciuta in provincia di Venezia. Dopo la laurea in Giurisprudenza è partita per Melbourne, dove adesso ancora abita. Collabora con un avvocato specializzato in immigrazione. Cerca di farsi rispondere in italiano dai suoi due figli.