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In una stanza che la regista chiama pomposamente camerino, con due specchi sbrecciati, cinque sedie in fòrmica, un porta abiti con un piede zoppo e un sacco di gente che va e che viene, la mia mano trema appena.
La sua schiena nuda, attraversata da un reggiseno bianco sulla pelle scura, si tuffa nel tubino nero, riempiendo l’apertura della zip fino all’altezza dei reni.
– Aiutami – mi ha detto in inglese.
Chissà perché lo ha chiesto proprio a me. Lei che fino a pochi istanti fa andava avanti e indietro e parlava in amarico, nervosa. Mi ha posato la mano sul braccio, si è voltata e ha sollevato i capelli.
– Per favore.
Avvicino i lembi di stoffa con la sinistra, mentre con la destra faccio salire la zip lungo la schiena. Scosto un ricciolo nero e stretto che è sfuggito alla sua presa. Mi guarda da sopra la spalla e increspa appena le labbra in un sorriso che non svanisce. Ha gli zigomi alti, la mandibola scivola dolce verso il mento. Seguo la linea del collo e immagino il vestito, nero e aderente, che abbraccia la curva del suo seno.
Abbottono il gancetto alla fine della zip.
– Ok?
Lei si volta, pianta dentro lo specchio le iridi color nocciola e io mi accorgo che non so il suo nome. Ieratica, in attesa di adorazione, scruta l’immagine riflessa fino a che questa si piega ai suoi desideri.
Poi fa una smorfia buffa, da bambina, e ridiamo insieme.
Con mosse elettriche e vivaci, si avvolge intorno al collo una sciarpa rossa, la stessa che hanno anche le altre attrici, tutte in nero. Lancia un’ultima occhiata allo specchio.
– Perfetto!
Se ne va lasciando un bacio e una traccia di rossetto sulla mia guancia.

Saba, la collega dell’ambasciata che mi ha trascinato qui stasera, è la costumista e conosce misure e segreti di tutte le attrici. Dev’essersi presa compassione di me, ad Addis Abeba da un mese e senza amici, e mi ha invitato a venire ad assistere alle prove: ora mi chiede se mi sono piaciute mentre mi passa abiti da sistemare. Annuisco, mentre ripenso ancora una volta alle raccomandazioni di sicurezza e mi dico che mettere in scena I monologhi della vagina, qui, mi pare una scelta azzardata.

L’attrice di prima, ora in jeans e felpa, si avvicina a noi con un sorriso. Scambia qualche parola in amarico con Saba, poi mi prende per mano. Io sussulto: a contatto con la sua pelle, maschero appena la mia sorpresa. Per lei è un gesto così naturale: lo ripete anche con Saba, che la lascia fare. Mentre ci muoviamo verso l’uscita, si volta verso di me.
– Andiamo a bere qualcosa con gli altri.
Me lo dice in un inglese senza accento. E senza punto di domanda.

Nell’abitacolo di una Lada Niva, uguale a quella di mio padre quando ero alle superiori, la voce di Phil Collins gorgheggia Against All Odds dalla radio, uno di quei modelli con la lineetta rossa per marcare la sintonia e la feritoia per le cassette. Ho di nuovo quindici anni, ho accettato un passaggio da una sconosciuta e sento un fremito nello stomaco mentre la guardo: lei fissa la strada, evita auto, buche, rari pedoni e non la smette di chiacchierare.
Si chiama Zewdi, come quell’attrice, quella che aveva turbato i miei sogni di adolescente dopo averla vista recitare in una commedia discinta che non avrei dovuto guardare.

La regista, un’americana bionda e solida, alza il bicchiere pieno di tej brindando all’impegno di tutta la compagnia. Io sorseggio la bevanda con cautela, il miele nasconde solo in parte la forza dell’alcol; sposto lo sguardo dagli altri ferengi, i sei o sette stranieri dalla pelle chiara, agli habesha, gli etiopi. Sono una compagnia amatoriale, ma discutono dello spettacolo con fervore da professionisti.
– Dimmi cosa fai ad Addis.
Zewdi mi si è seduta a fianco mentre seguivo lo sproloquio dell’americana.
Non date confidenza agli estranei. Non rivelate informazioni personali a sconosciuti. Zittisco nella mente la voce dell’addetto alla sicurezza dell’ambasciata: lei aspetta la mia risposta, concentrata e curiosa. Le racconto del mio lavoro. Zewdi stringe gli occhi, come a mettere a fuoco un punto esatto della mia vita.
– Raccontami perché l’Etiopia.
Trattengo il respiro prima di rispondere. Perché è questo paese che mi ha scelto, non il contrario. Volevo solo partire, andarmene dall’Italia, da un lavoro noioso, dalla brutta fine che ha fatto la mia ultima storia d’amore. Andare abbastanza lontano da non rischiare di incontrarla nemmeno per caso. Così quando mi hanno chiesto “dove?”, ho risposto “fate voi”.
Nel raccontare, tralascio l’amore irrancidito, per pudore, e parlo del destino. Lei sorride, ascolta, mi dice di lei senza che io glielo chieda. Poi, leggera, intreccia il mignolo al mio.
– Vieni con me.
Questa mania di non mettere il punto interrogativo, come a dare per scontato che la seguirei in capo al mondo. Mi guarda e ride del mio disappunto. Mentre attraverso la sala, ho l’impressione che tutti mi osservino: non come per strada, dove non so nascondermi perché sono ferengi, ma perché la mia pelle intrecciata alla sua urla “portami dove vuoi tu”.

Zewdi si infila nel bagno, trascinandomi dentro e chiudendo la porta a chiave.
È di fronte a me, lo spazio è stretto, ci sfioriamo. Lei sposta una ciocca di capelli dalla mia guancia e lì deposita un bacio. Le labbra poi scendono sulla mia bocca: sa di alcol, e miele, e paradiso.
– Non avevi capito?
Sento il suo seno contro il mio. Il sangue che mi pulsa nelle tempie è per il terrore che qualcuno ci scopra o per il bisogno di averla ancora addosso?
– Non dovremmo.
– Se rispetti tutte le regole, perdi tutto il divertimento.
Non so se mi ha rivelato una verità fondamentale o se ha ripetuto una banalità letta su un foglietto dei biscotti della fortuna. La bacio a mia volta.

Paura e fame. Per giorni si alternano e si intrecciano. E io non riesco a estinguere nessuna delle due.

Raggiungo Zewdi a teatro per le prove generali: sono più emozionata di lei e, prima che salga sul palco, le rubo un bacio dietro una tenda spessa e impolverata, dove nessuno ci vede. Poi mi siedo in platea di fianco a Saba, sprofondando in una poltroncina di legno con il sedile ribaltabile.
Zewdi entra in scena al terzo monologo e a me manca il fiato, tanto è bella. Arriva a metà della sua parte, ormai la so anch’io a memoria, quando una quindicina di uomini irrompono nella sala parlando a voce alta.
Lei ammutolisce, la regista li guarda inorridita e urla improperi, chiede chi sono e come si permettono di interrompere in quel modo lo spettacolo. Alcuni si fermano sul fondo, un gruppo procede a passo deciso verso le prime file, certi salgono sul palco. Le labbra di Zewdi si assottigliano, quasi spariscono, mentre le pupille si fanno sempre più grandi, come se la paura potesse trovare un varco e uscire per di là. Uno di loro si installa sul proscenio e urla frasi in amarico.
Lo sento pure io, il terrore, anche se non capisco. Mi sporgo in avanti per alzarmi ma la mano di Saba mi trattiene sulla sedia.
– Poliziasibila tra i denti. – Stanno dicendo che lo spettacolo promuove l’omosessualità, è reato qui.

La regista chiede spiegazioni facendo mulinare in aria il copione. Uno dei poliziotti le si fa accanto e le afferra una manica, lei si divincola urlando che non può toccarla, che è cittadina americana. Un’attrice, una canadese dai capelli rossi, esce da dietro le quinte protestando a gran voce e perde la sua sciarpa rossa, che un uomo calpesta con le scarpe piene di polvere. Zewdi lancia uno sguardo al pezzo di stoffa.
Un poliziotto intima di consegnare una telecamera. Un altro mi si avvicina e dice qualcosa che io di nuovo non capisco. Saba traduce: vuole vedere i documenti. Alcune attrici urlano, c’è chi cerca di andarsene, ma le porte sono bloccate dagli agenti. Quello sul palco si muove verso Zewdi, la prende per un braccio e infila l’altra mano sotto la giacca. L’occhio di bue restituisce un riflesso metallico: ha una pistola, latra degli ordini in amarico e la sala si zittisce.
Lui la strattona verso l’uscita, lei scende le scale del palco con la sua mano intorno al braccio. Sento anche io la stretta, mi segna la pelle.
Provo di nuovo ad alzarmi, ma l’agente davanti a me urla – Stop! Documents!
Zewdi gira la testa e fa no. Stringo le dita d’istinto, come se potessi trattenerla, salvarla. Non c’è il suo palmo. Solo aria. E sudore, freddo.

Autore

Laura Lucchini
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Laura Lucchini per mestiere si è occupata di semplificazione del linguaggio amministrativo, contenuti digitali e correzione di testi, per passione scrive racconti e romanzi. Super Scrittrice Pigra certificata del laboratorio Fare un Romanzo, ha frequentato corsi di scrittura alla scuola Belleville e a Bruxelles.