foto di Pamela Frani

La dedica che Pierluigi Vito ha fatto sulla nostra copia de “I prigionieri” si rivolge a persone “che sanno ben capire quale amore ci sia tra queste pagine”. I sentimenti, le relazioni, la paura, l’inconnu che però è presagio, l’amore: tutto questo nel libro è maneggiato con cura, con la delicatezza di chi ha tra le mani una porcellana antica.

Pierluigi, ci racconti del tuo libro “I prigionieri”? Come mai hai scelto questa storia?

Avevo intenzione di cimentarmi con una vicenda situata negli Anni di Piombo mentre ancora scrivevo il mio primo romanzo, “Quelli che stanno nelle tenebre” (Robin, 2016). Lì affrontavo una storia ambientata nell’Italia degli anni ’50 e già terminando la stesura sentivo che c’era bisogno di un “secondo tempo”, della necessità di recuperare degli spunti che avevo cominciato ad affrontare. Come ad esempio la dissimulazione della propria identità, il peso esistenziale che comporta, le ragioni che la determinano. Insieme a ciò mi interessava affrontare il tema della libertà: cosa voglia dire essere liberi e, di converso, cosa accade nel momento in cui la libertà viene meno. All’inizio mi ero concentrato sulla vicenda di Aldo Moro, cercavo una via nuova per affrontare questa pagina di storia cruciale per l’Italia contemporanea, ma poi mi sono casualmente imbattuto in una vicenda molto meno nota, quella di Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse. Mi pareva inconcepibile che un evento del genere fosse quasi scomparso dalla memoria nazionale; e studiando gli avvenimenti, leggendo le sentenze, incontrando i familiari della vittima e uno dei terroristi che partecipò all’azione, mi sono convinto che fosse necessario dedicarmi a questo lavoro.

Nel tuo libro si parla del rapimento di Giuseppe Taliercio, ma il titolo è al plurale: qual è il motivo?

Come dicevo, uno dei temi che mi interessava trattare era la perdita della libertà. E se nel caso di chi si ritrova incatenato a una brandina dentro una soffitta, guardato a vista da carcerieri armati, il fenomeno è eclatante; nondimeno anche gli aguzzini devono fare i conti con gli effetti della situazione. Per motivi di lavoro e per interesse umanitario mi sono trovato ad avere a che fare con la realtà carceraria. Mi sono reso conto che una prigione fa del male non solo a chi vi è rinchiuso, ma pure a chi detiene le chiavi delle celle. Bastino i dati: nel 2022 si sono tolte la vita 84 persone detenute nelle carceri italiane; e, secondo recenti statistiche, mentre il tasso dei suicidi in Italia è dello 0.60 per mille nella popolazione, questo sale all’1 per mille tra gli agenti di Polizia e all’1.30 per mille tra gli agenti di Polizia Penitenziaria1.

Per questo volevo dare conto del dolore patito dalla vittima, ma pure del conflitto che si genera in chi si ritrova a contatto con un altro essere umano a cui impone una sofferenza prolungata. Non a caso, a un certo punto tra i miei personaggi si crea un dissidio: c’è chi comprende chiaramente che ucciderlo subito sarebbe stato meno straziante per l’ostaggio, ma soprattutto per loro, chiamati a fare i conti giorno per giorno con il crimine che stavano compiendo. E perciò anche i terroristi sono prigionieri: dell’azione scellerata che hanno messo in piedi, dell’ideologia che li ha accecati, della loro vigliaccheria nel non ribellarsi a una condotta che scorgono come inutile e controproducente per la causa della lotta armata, e contraria a ogni briciolo di umanità.

Sembra infatti che in alcuni momenti della narrazione i brigatisti siano a disagio con gli aspetti più difficili del sequestro e che emerga l’umanità, comune al prigioniero e ai carcerieri, rispetto alle ragioni che li vedono ostili. Vorresti commentare la tua rappresentazione di questo aspetto del rapporto fra i personaggi?

Quello che mi premeva prima di tutto era mettere in scena proprio questo conflitto di umanità. Che si articola su tanti livelli: quello politico, un uomo dai saldi valori democratici di fronte a dei militanti armati comunisti; quello di classe, il dirigente di una grande industria di fronte ai rappresentanti del proletariato; quello generazionale, un uomo ultracinquantenne di fronte a dei giovani che potrebbero essere suoi figli. Sono tutte contrapposizioni che giorno dopo giorno (ricordiamo che il sequestro di Taliercio durò 47 giorni, solo 8 in meno rispetto a Moro) entrano in crisi, perché l’uno e gli altri scoprono brecce nei muri che li dividono. Taliercio è cosciente della necessità di riformare lo Stato per garantire più giustizia sociale; ha conservato la consapevolezza delle proprie umili origini e conduce un’esistenza morigerata allevando 5 figli con un solo stipendio (tutt’altro che faraonico); e comprende le istanze dei giovani perché riesce a vedere in chi lo ha sequestrato le ansie dei suoi ragazzi.

Tutto ciò finisce per inquietare i brigatisti, sgretolando le loro certezze, come emerge anche dagli atti del processo. Ma, appunto, essendo prigionieri di un’ideologia perversa, compresa la militaresca obbedienza al vertice dell’organizzazione terroristica, non si ribellano alla decisione di uccidere l’uomo che aveva mostrato loro la possibilità di una diversa umanità.

Tu sai che uno dei punti del tuo romanzo che mi ha colpito di più sono le lettere di Taliercio alla moglie. Lettere immaginate, intrise di un sentimento semplice ma intenso. Come mai hai scelto questo tipo di narrazione per descrivere l’amore tra i due?

La scelta è nata mettendo insieme alcuni dati di fatto. A partire dalle numerose lettere scritte da Aldo Moro durante il suo rapimento: materiale che fu sfruttato a scopo propagandistico dalle BR. Ragion per cui mi aspettavo, accostandomi alla vicenda di Taliercio, di trovare altrettanta corrispondenza dalla sua prigionia. Al contrario! Durante i giorni del sequestro uscì dal covo brigatista solo una lettera, scritta al segretario del Sindacato Dirigenti d’Azienda. Una missiva dai toni anche formali, senza particolare pathos che potesse giovare agli obiettivi dei brigatisti. I quali, d’altronde, avevano lasciato carta e penna a Taliercio per scrivere. Pare tuttavia che questi stracciasse quello che scriveva. Ecco, questa è stata l’illuminazione. Mi sono fatto l’idea che, per sopportare quelle lunghe settimane di prigionia, Taliercio aveva bisogno di cercare sostegno in quanto aveva di più caro al mondo: da un lato c’era la sua fede cristiana e non dall’altro ma sempre dallo stesso lato c’era l’amore per la sua famiglia, in primis per Gabriella, Lella, la sua sposa. E allora l’ho immaginato giorno dopo giorno mettere su carta i suoi pensieri, la sua devozione, le sue paure e le sue speranze in un colloquio incessante con Lella. Ma per evitare che i suoi sentimenti più puri venissero anch’essi sequestrati dai terroristi, ecco che Taliercio si preoccupa di stracciare i fogli carichi di quell’amore che doveva preservare.

Quanto incide secondo te, l’Assoluto nella creazione del legame d’amore di questi sposi?

Tantissimo. Non possiamo dimenticare che Pino e Lella si erano conosciuti da ragazzi in parrocchia, nell’Azione Cattolica: erano due sposi cristiani che avevano scelto di legare le proprie esistenze indissolubilmente per tutta la vita. E non è stata una vita semplice: il loro primogenito muore appena nato, in circostanze drammatiche; hanno dovuto affrontare prove non indifferenti per la salute di Lella; e poi dal momento in cui Pino è diventato direttore del Petrolchimico sono cominciate ad arrivare a casa minacce delle Br, fino al tragico epilogo. Eppure dalle lettere che si scambiavano da fidanzati e dalle testimonianze dei figli e di chi li ha conosciuti emerge evidente la passione tenace che li univa e che si radicava in un Oltre sconfinato.

Come l’amore degli sposi Taliercio è descritto in maniera spirituale, quello fra Marcello e Nadia, i brigatisti, è intriso di fisicità: ci spieghi le analogie e differenze di queste coppie?

In realtà ci sono tante coppie in questo romanzo, anche per questo ho voluto in copertina Gli amanti di René Magritte (pittore che amo), sovrastati dalla stella a cinque punte delle Brigate Rosse: per trasmettere il concetto di relazioni amorose schiacciate dalla violenza terroristica. Ci sono Pino e Lella su tutti; poi, come giustamente notavate, Marcello e Nadia; ma pure Emilio e Martina, coppia spezzata nei sentimenti ma rimasta forzatamente unita dalla militanza armata; c’è Andrea, che alla sua Roberta non ha detto di essere entrato nelle Br, e deve tenerla lontana dal loro covo; c’è Sara che si ritrova a capo dell’Esecutivo brigatista dopo che Maurizio, il suo uomo, era stato arrestato. Sono tutte coppie separate nei giorni del rapimento, tranne Marcello e Nadia. Ed è proprio la loro fisicità, insieme a quel barlume di appagamento e di comunione di intenti – pur nella diversità di caratteri – che renderanno alla fine impossibile per Emilio lasciarsi trascinare dalla loro parte e magari salvare la vita al prigioniero. A questo proposito credo giusto sottolineare che il mio Taliercio, pur privilegiando il legame spirituale con Lella, nelle sue lettere manifesta anche pensieri legati al corpo di lei. In una arriva a chiedersi “Quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore?”. Perché quello che gli manca, quello di cui ha bisogno è di sua moglie nella piena interezza. Ciò vale pure per Emilio, che si ritrova l’anima infestata dal pensiero di Martina: in questo senso anch’egli è prigioniero, nei giorni del sequestro, di una smania che non trova pace.

Tutti i personaggi di questa storia vivono di grandi passioni e quella amorosa è tra le principali; pur se può sembrare strano in un romanzo dalle forti tinte politiche. Ma in fondo, come scrive Robert McLiam Wilson in Eureka Street, “ogni storia è una storia d’amore”.

Oh Lella cara, comincia a perdonarmi di tutto e quando ci ritroveremo faremo i conti con questa storia e ce la lasceremo alle spalle.[…]pensa al vuoto accanto a te come all’attesa di una felicità più grande, quando dentro al prossimo abbraccio troveremo il porto sicuro dopo la tempesta. Buonanotte amore mio, vivi e spera!

Pierluigi Vito, I prigionieri, Augh!, 2021 pag.27

1Il dato viene dall’Osservatorio Suicidi in Divisa (OSD) aggiornato per il 2022 ai primi di agosto: https://www.poliziapenitenziaria.it/suicidi-tra-le-forze-dellordine-e-una-strage-quasi-sessanta-dallinizio-dellanno-2022/

Autore

Pierluigi Vito

Pierluigi Vito è giornalista professionista, lavora dal 2003 in forza al Tg e alle rubriche culturali di Tv2000, per cui ha realizzato vari documentari. Autore dei romanzi Quelli che stanno nelle tenebre (Robin, 2016) e I prigionieri (Augh!, 2021), il suo ultimo libro è Il beneficio del dubbio (Augh!, 2021), scritto insieme a Rudy Guede.

Pamela Frani

Pamela Frani ha partecipato a vari corsi di scrittura e editing tra cui quelli di  minimumlab, di  Bottega di narrazione e i workshop di  Interno Poesia. È l'ideatrice di fuoripunto.

Elisabetta Carbone

Elisabetta Carbone è nata, vive e lavora a Bologna come docente liceale di Italiano e Latino. Ama leggere e pensarci su. Ha frequentato il laboratorio annuale della Bottega di narrazione e altri corsi di scrittura. È stata finalista di Oltre il velo del reale e semifinalista a Visioni divergenti e corpi indisciplinati, organizzati dal Premio Italo Calvino. Ha partecipato a L'olmo e i suoi racconti, un progetto sul paesaggio guidato da Marino Magliani e Dario Voltolini, e pubblicato su riviste letterarie.