fuoripunto.

au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

Editoriale #10

Stanchezza/ Burnout

Foto di Ayrus Hill su Unsplash

Sarà che lavori troppo
E che sorridi a tutti ma
Non ti ho mai vista così stanca e così logora

Il principe in bicicletta, I tre allegri ragazzi morti

Questo numero parla di stanchezza/burnout. Amore per quello che si fa, ma del dolore, anche fisico, di non riuscire a finire tutto. Tutto quello che si pensa che si dovrebbe portare a termine. Il senso di colpa delle procedure, lo sguardo stanco della disillusione. La produttività scelta e subita. Ma anche messa da parte: tutti vivono momenti complicati, come mai ci si sente inadeguati? Purtroppo capita ed è importante chiedere aiuto. Parlarne con il proprio medico, con la propria famiglia, con dei professionisti. Perché è necessario non rimanere soli. Nella stanchezza, nell’aridità dei sentimenti, chiedete aiuto.

“Il soggetto di prestazione si realizza fin nella morte. Autorealizzazione e autodistruzione, qui, coincidono.”

Byung-Chul Han, La società della stanchezza – Nuova Edizione – nottetempo

Perché se siamo nella società del potere fare rischiamo di consumarci per azione. Non più per conflitto o mancanza, ma per épuisement.
Sarà anche per tutte queste riflessioni che con la redazione abbiamo deciso di prenderci un momento di pausa estiva: ci saranno ancora due newsletter legate alla stanchezza/burnout ma poi ci sarà una sorta di revival dei vecchi numeri. 
Ma non c’è da preoccuparsi: torneremo con nuove poesie, racconti e articoli a fine Ottobre e il tema sarà il rumore.
Grazie ancora per averci letto. A questo numero hanno partecipato:

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Orizzonte

Foto di Amy Humphries su Unsplash

Orizzonte

La mia insegnante di lettere del liceo era considerata una zitella un po’ inacidita ma ancora irrimediabilmente romantica. Era vicina alla pensione e alla ricerca dell’amore nonostante ogni evidenza della sua vita le dicesse che era ora di arrendersi. Questo almeno era quello che vedevamo noi, sciocchi adolescenti che della vita non avevano ancora sperimentato granché e sicuramente capito niente. La vita di quella donna traboccava d’amore. Quanto ad arrendersi, non ne aveva la minima intenzione. Affrontava ogni giorno con un coraggio che a ripensarci oggi mi abbaglia.

Scoprimmo la sua storia una mattina che in classe entrò un supplente. Lei aveva accompagnato il nipote in ospedale la notte precedente, non voleva lasciarlo e aveva chiesto un permesso. Venimmo a sapere allora che si occupava da sola del figlio tetraplegico della sorella, che era mancata, vivendo insieme ai genitori anziani di cui pure si prendeva cura con una dedizione che ai nostri occhi rasentava il martirio. Ripenso spesso a lei oggi che il lavoro di cura di una persona amata consuma buona parte del mio tempo.

Da maggio 2019 l’OMS ha inserito il burnout nell’International Classification of Disease (ICD)1 definendolo una sindrome da stress cronico associato al contesto lavorativo, con particolare riferimento alle professioni di cura ma esteso a ogni contesto professionale. Del lavoro di cura privato che avviene nelle case, non meno logorante, nessuno mi aveva mai fatto cenno. La comunicazione pubblica italiana non affronta la questione in maniera efficace. Esistono associazioni sul territorio che se ne occupano ma bisogna cercarle da sé. La sensazione iniziale è di essere soli.

La definizione di burnout prevede quattro fasi.2
La prima è un senso di potenza derivato dal desiderio di fare e dall’impegno profuso.
Subentra la stagnazione quando ci si scontra con le difficoltà della situazione.
È seguita dalla frustrazione e da una profonda sensazione di impotenza
La quarta fase è il distacco, che si porta dietro sentimenti di intolleranza e indifferenza, sensi di colpa, cinismo e sensazione di fallimento.

Sul limite della terza ho chiesto aiuto. Il reparto oncologico che ha in cura mio padre offre un servizio di supporto psicologico gratuito sia ai pazienti che ai familiari. Sulle prime non pensavo di averne bisogno, ero convinta di poter attingere alle mie sole risorse, e poi dove potevo mai trovare il tempo per occuparmi di me con tutto quello che mi gravava sulle spalle? Mi sbagliavo, pure sul tempo. Si trova per tutto, anche per l’impensabile. Soprattutto non c’è aiuto che si possa dare ad alcuno se non si è in grado di aiutare se stessi, e lasciarsi aiutare.

Come faceva la mia insegnante a sopportare tanto ed essere comunque sorridente in classe? Io spesso mi sono sentita mancare: la terra sotto i piedi, il coraggio, la determinazione, la voglia, me stessa. Ho ripescato una foto di classe. Sorrideva pure lì. Mi sembra curva sotto un peso che non si vede ma si intuisce. Forse lo scorgo perché adesso lo riconosco. Non ho più saputo cosa ne sia stato di lei né del nipote. Non posso più chiederle niente. Le risposte arrivano nella nostra vita sempre disallineate : quando potevo avere una risposta non avevo ancora formulato la domanda.

L’ospedale ha definito mio padre “malato terminale”. Quando mi sento schiacciata da questa sentenza inappellabile mi risuona nella testa La cura di Battiato:

E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te3

So di non poter fare questa promessa e sto provando a farci pace. Ho ripensato di recente alla mia insegnante guardando un film di Bong Joon-ho, regista del più noto Parasite del 2019. Si intitola Madre4, è del 2009 ma in Italia è arrivato nel 2021. Racconta la storia di una madre che lotta con ferocia per salvare il figlio. Nella scena di apertura c’è solo lei, che non ha nome ed è chiamata solo madre. La interpreta Kim Hye-ja che avanza a fatica tra l’erba alta in uno spazio immenso, sola e smarrita sotto un cielo plumbeo, circondata da montagne. Poi comincia a danzare. Lo spazio è vasto e aperto solo in apparenza, a me è sembrato una prigione.

Ho iniziato a guardare il film senza saperne nulla e ho scoperto presto che la sua prigione è il figlio. Ha un disturbo mentale e quando viene arrestato lei fa della sua sopravvivenza ragione di vita, missione e condanna insieme. La sua danza è uno straziante lamento. Non dice una parola, spesso non guarda neanche in camera. Ma so come si sente. Sperduta e sola in un vasto campo riarso, si arrende a danzare una musica che non può cambiare. C’è un tamburo che batte e impone il suo ritmo. A un certo punto sembra che si lasci andare alla musica, nasconde lo sguardo, accenna persino un sorriso. Poi scopre gli occhi, li riapre sulla realtà, il sorriso sparisce. Ora è la bocca che nasconde con la mano. Infine si volta, continua a danzare dandoci le spalle, rinuncia all’orizzonte.

Quanto il mondo si contrae dentro una stanza e si riduce a una persona su un letto, l’orizzonte si fa stretto e il resto diventa opaco. In alcuni momenti ho avvertito un abisso tra il dentro e il fuori. Ma anche tra le mie risorse che si assottigliavano e quello che la situazione richiedeva: presenza, attenzione, perenne allerta. La cura può essere logorante ma non sono io a portare il peso più grande.

Nona Fernández nel memoir Voyager5 racconta una visita neurologica a cui accompagna la madre: “Usciamo dallo studio del neurologo e guardo mia madre con altri occhi. Ora so che sulle spalle porta il peso del cosmo intero. Le racconto cosa ho visto sul monitor assieme al dottore. Le parlo della somiglianza del suo cervello col firmamento. Dell’attività elettrica dei suoi neuroni, della luce del suo ricordo, della costellazione che si è accesa mentre lei lo rievocava, del riflesso luminoso del suo passato. Le domando qual è la scena felice che ho visto luccicare sul monitor, lei sorride e risponde di aver ricordato il momento della mia nascita.

Da quando ha scoperto di avere un tumore al quarto stadio mio padre pensa continuamente a quando eravamo piccoli. Lui e io. Mi racconta pezzi della sua infanzia e li mescola a frammenti della mia, dimentica di avermi già raccontato un episodio che lo riguarda e la volta dopo ne divento io la protagonista. Non sono sicura che tutto quello che racconta sia ricordo autentico o solo una narrazione che costruisce per colmare i vuoti di memoria che gli stanno svuotando il cuore. È così che mi ha detto di sentirsi, col cuore vuoto. Il mio è colmo di paura.

In certi momenti, al buio, quando ho più paura, cerco di convincermi che sto vegliando il delirio di una sconosciuta” scrive Julián Herbert in Ballata per mia madre.6 Chi è sua madre, si chiede l’autore mentre siede accanto al letto e si interroga sul suo rapporto con lei, pieno di rabbia ma anche di dolcezza, contraddittorio com’è ogni cuore, com’è la vita stessa. Chi è mio padre, mi domando anch’io mentre lo guardo dormire e mi sembra già morto. Una volta mi sono sorpresa a desiderare che fosse già accaduto, poi ho pianto per ore. Volevo che fosse oltre il dolore, trarre fuori anche me stessa dal pantano della sofferenza, ma non sapevo perdonarmi un desiderio tanto atroce. Un momento dopo già speravo di avere più tempo da passare con lui. I desideri si contraddicono quando ci si prende cura di qualcuno sulla soglia tra l’ora e il mai più.

Ci siamo detti abbastanza? Ho mai capito chi fosse, oltre a essere mio padre? Aggiungo lo sforzo di comprensione alla fatica della cura quotidiana. Non ero pronta a fargli da genitore, lo sto imparando mio malgrado. Sono sua figlia e mi è difficile accettare che sia debole, spezzato, che non sia lui a proteggere me da paura e dolore.

Non c’è altro da fare se non provare quel che c’è da provare” scrive Marco Peano in L’invenzione della madre.7 Mattia, il protagonista del romanzo, sa che non potrà salvare sua madre dalla malattia e decide di non sprecare un solo istante. Ridisegna la sua vita, le dà la forma di lei. I suoi giorni diventano attesa ma anche memoria, un viaggio da fermo, un esercizio d’addio.

Si può imparare a dire addio? Anche a volerci provare non se ne ha il tempo, risucchiato dalle incombenze pratiche: punture, colloqui con l’oncologa, rimedi per gli effetti collaterali della chemioterapia, cosa gli do da mangiare, che mi invento oggi per distrarlo, cosa farmi raccontare perché pensi di avere ancora un posto a questo mondo, nella mia vita, nella sua? E poi la domanda che se ne sta acquattata in fondo alle altre: sto facendo abbastanza? Qualche mese fa la mia risposta sarebbe stata no. Ero in un gorgo da cui non vedevo uscita se non la fine. Adesso è sì. La sola uscita possibile è ancora quella di prima, ma io ho attuato un cambio di prospettiva radicale. Mi ha aiutato a crederci la psicologa che ci segue e pure uscire da quella stanza e tornare nel mondo, a viverlo.

Quando morirà sprofonderò nella colpa che mi vado costruendo giorno per giorno. Sarà pronta per il suo funerale.” È Donatella Di Pietrantonio in Mia madre è un fiume.8 Pure io indosso ancora quella colpa quando mi sento troppo stanca per offrirgli un sorriso oppure ho modi spicci perché non vedo l’ora di fare ciò che devo e scappare via per qualche ora. Per concedermi aria e spazio, ricaricarmi, coltivare la vita fuori da quella stanza. Non posso metterla in attesa, tanto meno spegnerla. Ora lo so. È giusto così. Quando rientro ho qualcosa di nuovo da dirgli. Gli piace ascoltarmi mentre gli racconto per quanti chilometri ho corso la domenica, se è stato pubblicato un mio pezzo che gli avevo letto, un’avventura con le sue nipoti, quell’escursione che volevamo fare insieme.

La preoccupazione è ancora lì, bene incistata. È paura che accada qualcosa mentre non ci sono e terrore che accada invece davanti a me. È timore di non reagire abbastanza in fretta nell’emergenza. È non sapere come sarà dopo che lui avrà oltrepassato quella soglia. Ma ho cominciato a credere che il coraggio bisogna fabbricarselo, non esiste già da qualche parte, da tirare fuori. Il mio lo sto costruendo un giorno per volta, uno spavento dietro l’altro. È impastato con la fatica della cura ma pure con la vita, quella che c’è stata, che c’è ancora e che anche dopo, in qualche modo, continuerà.

Questo articolo è il racconto di un’esperienza personale. Se hai dubbi sull’argomento, consulta un professionista per informazioni, una diagnosi o un percorso terapeutico.

1 Per l’inserimento del burnout nell’ICD dell’OMS https://www.who.int/news/item/28-05-2019-burn-out-an-occupational-phenomenon-international-classification-of-diseases
2 https://www.centromoses.it/benessere-sul-lavoro/articoli/burn-out-lavorativo
3 Franco Battiato, La cura, in L’imboscata, PolyGram, 1996
4 Bong Joon-ho, Madre (Madeo), Corea del Sud, 2009
5 Nona Fernandez, Voyager, traduzione Carlo Alberto Montalto, gran vía, 2021, p. 18
6 Julián Herbert, Ballata per mia madre, traduzione Maria Cristina Secci, gran vía, 2014
7 Marco Peano, L’invenzione della madre, Minimum Fax, 2015, p. 188
8 Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, Einaudi, 2022, p. 68

 6.42

Foto di Max Shturma su Unsplash
Cella
la vita
imparata coi palmi

un’ellisse  
di ripetizioni di minuzie 

tralasciando
le foreste di angoli in fiamme 
lì fuori.

La luce 
che entra comunque 
ha portato il baratto 
della libertà dei secondini
per gli occhi degli ergastolani 

garze lente 
sulle dita del giorno 

esercizi complessi 
contro l’indulgenza.

S’impara piano
la compressione del torace. 

Ordine

Dato
tutto il dolore 
dato 
verrà comprato un quartino 
e le pareti divisorie sfondate.

Un muratore romeno
e la bottiglia di plastica 
bianca per metà
aspetteranno la paga. 

Nelle nostre tasche 
le costole di corvo 
non saranno diventate
ancora sonanti.

Ridai a noi 
come ai nostri debiti d’ossigeno 
una parte di pace 
ordinata da lontano. 

Paroxetina 20 mg
per dare un nome al citofono.
Vale come agnus dei a voi, 
Oh corrieri, vi prego suonate
tutte le campane delle vostre strade.

Trema

Foto di José Ignacio García Zajaczkowski su Unsplash
Trema
in volo la falena.
È l’esito del tempo,
ma l’ansito dura poco.
Non vado avanti, mi umilia
lo strappo, la ripetizione
patologica del mio cinismo.
Per amore tuo, non smetto
di parlare. Poi dico, parla tu.
C’è qualcosa, viso nel tuo viso
che ricorda la falena
lontana dai tremori,
ma non passo, non passo
la collina sonnambulo
mentre lavoro per voi.

La scomparsa di Livio

Foto di Debby Hudson su Unsplash

Da molti anni ho l’abitudine – dormo davvero poco la notte – di arrivare in ufficio all’alba. Ho le chiavi di una porticina sul retro del palazzo dell’università. L’ufficio è all’ultimo piano, alla stessa altezza della chioma di un pino che mi blocca la visione del resto del cortile, lasciandomi solo il cielo; e non ci perdo nel cambio. Faccio colazione con un tè caldo e due biscotti, guardando le nuvole rosa, finché – nel silenzio del sesto piano – non sento, dal corridoio, i passettini spediti del mio inquilino. 
Livio è un omino compatto e insospettabilmente robusto. La sua faccia, che quando ha iniziato a farmi compagnia era pallida e tirata, sta lentamente riprendendo colore. Rimane sulla soglia della porta finché non lo saluto; poi mi scosto dalla scrivania scorrendo sulla sedia girevole, gli indico la sua alcova e lui ci s’infila con un libro in mano – se leggo bene, una monografia sul periodo ‘Ubaid. Mi avvicino di nuovo alla scrivania, sistemo le gambe in modo che non gli diano fastidio, e accendo il computer per iniziare la mia mattina di lavoro. La scrivania è chiusa sul lato che dà verso la porta, quindi per chi si affaccia alla mia porta o entra in studio, notare Livio sotto il mio tavolo è praticamente impossibile.
Mi metto a guardare un papiro particolarmente rognoso. L’immagine è ad alta risoluzione e le lettere le leggo bene, ma al rigo 15 non mi torna la grammatica della frase. Però sono riluttante a correggere il testo solo perché non lo capisco. Emergo da una prima fase di concentrazione rabbiosa verso le dieci e mezza del mattino, preso dal senso di colpa – del tutto inutile – per aver ignorato Livio che nel frattempo ha letto in silenzio.
– Stai comodo, Livio?
– Comodissimo, Giorgio, risponde lui senza alzare il naso dal libro.
– Vuoi un altro cuscino?
– Grazie, ne ho già tre.
– Vuoi che a pranzo ti vada a prendere uno di quei panini con la cotoletta che fanno dal pakistano?
– Per carità, io il fritto non lo devo nemmeno vedere. Ma tu pranzi alle dieci e mezza?
– No, dicevo dopo.
– Ah! Comunque no, grazie.
Sento gridare una voce dal corridoio:
– Con chi sei, Giorgio?
– Da solo, Elvira, rispondo.
Ma Elvira non si arrende facilmente. Eccola sulla soglia della mia porta, mentre si rimette a posto i capelli col fermaglio.
– Non c’è Bernacchi con te…?
– Non vedo Livio da settimane.
– Cazzo. Al telefono non risponde e l’ho cercato per tutto il palazzo.
– Vuoi lasciarmi detto, così se lo vedo…
– E che ti dico? C’è tutto, c’è, si sbraccia Elvira irritata. – Siamo col cappio al collo. Manca la sua parte di moduli per il PRIN che dobbiamo presentare a novembre. Ci doveva scrivere la sezione ‘Excellence’ per una MSCA di sezione che scade a settembre. Va bene, è stato male, ma ormai gli dovrebbe essere passato. Se si degna di comparire, digli che risponda al telefono e che è un coglione.
– Ma certo, Elvira.
Elvira si allontana e Livio mormora:
– Se la strega si occupasse di studiare e pubblicare tanto quanto si occupa di queste stronzate di raccolta fondi, forse almeno associato ci diventava.
– Zitto, che arriva gente.
Compunto, il bidello del sesto piano:
– Ci sono studenti che la cercano.
– Prego.
Due studenti, incerti.
– In realtà, professore, noi cercavamo il professor Bernacchi.
– Non lo vedo da settimane.
– Il professore ha terminato il corso un mese fa. Non risponde alle mail.
– Non vedo Bernacchi da settimane. Non ho informazioni da darvi per conto suo.
– Aveva messo un appello oggi, interviene il secondo studente.
– Voi sapete che non è stato bene.
– Sì, ma l’appello…
– Vi ha detto di dare l’esame con me?
Mi guardano turbati:
– No.
– Perché stiamo avendo questa conversazione?
– Magari lei sa dov’è il professore, ribatte seccato il primo.
– Non lo vedo da settimane. E tre.
– Ci scusi.
Escono. Sento Livio sibilare:
– Cazzo di bambini dell’asilo. Non sanno quanti sei piedi hanno tre anatre.
– Dio, sì. Ancora col moccio al naso.
– Odio la didattica.
– Anch’io, Livio.

Riusciamo a starcene tranquilli fino all’ora di pranzo. Evitiamo di chiacchierare, anche perché Livio quando studia non ama che lo interrompano, e io con quel papiro davvero non so dove andare a sbattere, non mi dà senso il testo. Frugo con angoscia su dizionari e repertori per cercare paralleli in letteratura. Mi concedo un’oretta per il pranzo, ritorno alla scrivania – Livio non si è mosso e non saluta. Sento appena il crepitio della matita sulle pagine che più lo interessano. Lascia brevi appunti nei margini. Verso le tre bussano alla porta aperta. Cinzia, a differenza di Elvira, non fa irruzione.
– Ciao Cinzia.
– Giorgio, disturbo?
– Assolutamente no. Un tè?
E indico il bollitore sul tavolino accanto, con cui a breve avrei fatto il tè per Livio.
– No, ti ringrazio. Mi posso accomodare?
– Ma certo.
Siede davanti alla mia scrivania. Se si fosse messa accanto a me, si sarebbe accorta di Livio. Così è impossibile che lo veda, ma può sentirlo se fa rumore. Con la coda dell’occhio vedo che Livio si è irrigidito.
– Dobbiamo parlare.
– Ti ascolto.
– Bernacchi.
– Uh.
– Tu sai che io sono la referente di sezione. Per assiriologia.
– Hai voglia se lo so.
– Mi rendo conto che non è affar tuo e mi dà fastidio darti noia. Ma so che tu e Bernacchi siete buoni amici. Non riusciamo a contattarlo da settimane.
– Nemmeno io.
– Siamo stati a casa sua. Le finestre sono chiuse e al campanello non risponde.
– Ci ho provato anch’io. Temo non sia proprio in casa.
– Sei preoccupato?
– Onestamente, no. 
– Senza voler farmi i fatti suoi, ho saputo che è stato male.
– Un piccolo esaurimento, niente di che. Secondo me questa sparizione è il suo modo di farvi fronte. Avrà fatto fagotto e sarà partito per qualche buco nelle Alpi liguri. Adora i paesini.
– Però non si parte così, senza lasciar detto niente. C’è una marea d’impegni che ha preso e non sta mantenendo. Tu capisci che io rischio di dover emettere un richiamo ufficiale.
– Lo capisco, e non ho modo d’impedirtelo.
Cinzia si rigira le mani, piene di anelli.
– Tu sei sicuro di non sapere dove sia.
– Sicurissimo.
– E non siete in contatto.
– Non mi risponde da settimane.
– Ma non sei preoccupato.
– No. Si starà semplicemente rilassando da qualche parte dove nessuno lo cercherebbe. Tu molla la presa e vedrai che prima o poi te lo ritrovi in dipartimento come se niente fosse.
– Se succede, gli faccio un cazziatone che non ne esce vivo. Lo sai, questo.
– Lo immagino. E glielo dirò, se lo sento.
– Questo mi basta. Scusa il disturbo, Giorgio.
– Quando vuoi, Cinzia.

Cinzia si alza ed esce dalla porta. Livio continua a non respirare ancora per un minuto, poi molla il fiato e scioglie la tensione. Mi aspetto che commenti quanto ha appena sentito; ma tace. Io mi rimetto sul papiro di cui sopra, ché la settimana prossima cominciano i miei corsi, e sai tu quando avrò tempo per studiare ancora – forse a luglio. Il pomeriggio scolora nella sera e nelle prime tenebre della notte. Quando ormai il dipartimento è deserto, mi alzo e mi preparo per tornare a casa; Livio fa altrettanto, sbucando fuori da sotto la mia scrivania. Passiamo attraverso la porticina sul retro,da dove entriamo io la mattina e lui di nascosto; all’uscita ci separiamo, io verso casa mia e lui alla sua, dove entrerà di soppiatto e dormirà a finestre serrate, senza fare rumore.
– Comunque ci potresti andare davvero, in qualche paesino, sai? Invece di venire ogni giorno a nasconderti qui.
– Per carità. Mi verrebbe il doppio dell’ansia. E poi questo è un luogo che amo.
– Il luogo dove hai sbroccato, Livio?
– Ma mica per colpa sua. Per colpa vostra! Voialtri vampiri, tutti a volere un pezzo di me. Fai questo, aiutami a compilare quest’altro, scrivi quel progetto, vieni in commissione…
– Livio mio, se tu dicessi di no, ogni tanto…
– E come faccio? Quelli insistono. E io coglione a cercare di accontentare tutti. A forza di non fare né ricerca né insegnamento, mi è esploso il cervello.
Faccio un passo per allontanarmi, poi mi volto:
– Quando deciderai di tornare fra noi, posso aiutarti.
– A fare che?
– A compilare moduli. O a dire di no più spesso.
– Macché. Sono cose che devo saper fare io. E un giorno le farò, non ti credere.
– Ah sì?
– Sì. Un giorno sarò un quarantenne responsabile ed equilibrato, che sa dire di no quando deve, che s’impegna a fare solo quello che può far bene, che non tira pacchi e sa gestire il suo tempo e i suoi doveri istituzionali senza che gli venga una crisi di nervi.
– Un giorno.
– Esatto.
– Ma non è questo il giorno.
– Precisamente. Buona serata, Giorgio. Grazie sempre e a domani.
– Buonanotte, Livio.

D’istanti.

Fotogrammi di stanchezza.

Foto di Lacie Slezak su Unsplash

1.# Un libro

“Siamo l’ambulanza del povero, e triste a dirsi, siamo anche il suo prete, visto che il taxi si trasforma nel confessionale in cui vengono spiattellati i timori ed i pregiudizi più reconditi”

Last Taxi Driver di Lee Durkee – Black Coffee Edizioni 2021
traduzione di Leonardo Taiuti

Lou Bishoff  tassista di notte, ha un passato da scrittore ma dopo un esordio dirompente cade nell’oblio. Appassionato di ufo, ha una compagna lisergica e un sogno infranto.
I viaggi a bordo della sua vecchia Lincoln sono spesso riservati a gente ai margini della società: spacciatori, prostitute, malati terminali, alcolizzati. Un caleidoscopio umano sapientemente raccontato con ironia ed irriverenza.

2. # Un film

“Non esistono in qualsiasi lingua del Mondo due parole più pericolose di bel lavoro”

Whiplash di Damien Chazelle – 2 16” Warner Bros 2014 –

L’allievo ambizioso, l’insegnante severo. Andrew sogna di diventare un grande batterista jazz – il migliore – e si affida a Terence Fletcher insegnante inflessibile e rigoroso.
L’ambizione cresce e si deforma assumendo i tratti della follia.  Una sfida estrema che travalica ogni limite fisico possibile, dove la passione rischia di tramutarsi in incubo.

Trailer

3. # Una canzone

“I’m tired of Facebook
Tired of my failing health
I’m tired of everyone
And that includes myself”

PARIAH DI STEVEN WILSON – 2017 (CANZONE TRATTA DALL’ALBUM TO THE BONE)

Una ballata romantica dalle sonorità morbide e sofisticate.  Echi di stanchezza che annientano pensieri e parole. La solitudine è un rifugio necessario affinché le frustrazioni si dissolvano.

Canzone

Imagerie

Stanchezza/Burnout

Foto di Alex Boyd su Unsplash

Uno degli aggettivi che userei per descrivermi – purtroppo o per fortuna – è produttiva. Sono sempre stata una persona che cercava di dare sempre il massimo, a volte anche più del necessario.

Ricordo il mio primo lavoro, ai tempi dell’università, fisicamente e mentalmente impegnativo, ma non me la sono mai sentita di rallentare perché temevo di deludere gli altri o me stessa: percepivo l’idea di fermarmi come un fallimento. Non so chi mi ha inculcato questa retorica del fallimento, che negli anni ho capito essere non solo sbagliata, ma proprio nociva.   Man mano che crescevo, sentivo l’obbligo di dover fare di più, come se il mio impegno fosse direttamente proporzionale alla mia bravura. 

Di recente, ho capito che la mia sanità mentale doveva venire prima di tutto e quindi ho deciso di fare un passo per me impossibile: lasciar andare. Ricordo di aver impiegato mesi prima di dire basta perché mi guardavo intorno, mi paragonavo agli altri, credevo che tutte le persone che avevo intorno mi avrebbero giudicata come scansafatiche o come persona che non si rendeva conto che il lavoro era un privilegio e che dovevo tenermelo stretto. Avevo paura che dire basta potesse essere l’errore più grande della mia vita. Quando, alla fine, sono riuscita a chiudere – conscia della possibilità di poterlo fare, che purtroppo non è scontata – ho ripreso a respirare. Non mi sentivo più soffocare come quando ero dentro quella realtà. L’immagine che ho scelto come copertina di Imagerie per l’editoriale burnout/stanchezza, infatti, rappresenta per me proprio il limite che stavo toccando.

Le scelte, invece, per gli autori che hanno collaborato a questo editoriale sono:

Editoriale #9

Assenza

Foto di UsamaNeal su Unsplash

Mirar a un bebé mientras duerme es contemplar la fragilidad del ser humano. […]
«Nada te sucederá mientras yo esté contigo», le prometo, aun sabiendo que miento, pues en el fondo soy tan impotente y vulnerable como él.

La hija única, Guadalupe Nettel, Anagrama, 2020

L’impotenza di fronte all’assenza, la fragilità del non avere più punti fermi. O di avere punti, voragini troppo profonde in cui guardare. Il vuoto e la vertigine. Se l’assenza potrebbe definirsi come una negazione dell’essere, come una mancanza, tanto più viva si insinua nei gesti quotidiani. Se mi guardo allo specchio vedo gli occhi di mio padre, il sorriso dei miei fratelli lontani. Basta il gorgoglio della moka a farmi ricordare quando, da bambina, aspettavo trepidante le prime gocce del caffè e per sbatterle con lo zucchero, per una tazzina come al bar, ma a casa di mia zia. Lo zucchero bianco che ora non compro più, perché troppo raffinato, ma che montava a bianco l’uovo. I libri col testo a fronte per trovare una traduzione e una sfumatura nelle parole in lingua straniera che speravo di imparare. E il pianto inconsolabile delle mie nipoti quando dovevo fare da babysitter e volevano solo i genitori. E l’odore della corsa dell’ultimo bus, quando ero pendolare e studiare alla panchina a Termini, immersa nel vuoto di quei testi ma circondata dall’immenso di gente, odori e rumori. 
L’assenza di quando senti il mondo tremare e aspetti sotto l’architrave, o ti precipiti fuori perché tutto è in sommossa. E lo sguardo al lampadario e l’abbaiare dei cani. I due bicchieri di troppo che rimpiangi guardando le maioliche del bagno e sì, speri davvero di non vedere quella macchia gialla nel water, sarebbe meglio che quella fosse assente.
I giorni in cui sarebbe meglio restare a casa e invece ti trascini nel mondo per ripetere la routine della tua vita mangiare, lavorare, essere. Non essere forse. Conta davvero davanti all’Universo, alle stelle lontane? Ai buchi neri che forse possono essere anche bianchi e alla materia che si decompone e le onde, le onde che si infrangono di continuo uno fracasso di rumore, vento e erosione?
Assenza, ognuno ha la sua da incolpare. O forse da ringraziare.   

“Nonna” dissi “mi dispiace dirtelo ma è morto Dio”. “Ma Dio chi?” rispose mia nonna. La sua domanda tradiva una scarsa fiducia nel monoteismo in cui eravamo cresciuti ma illuminava al contempo, e con sole tre parole, una singolarità di Dio che mi aveva sempre incuriosito: Dio non aveva un cognome.
Poco mossi gli altri mari, Alessandro della Santunione, marcos y marcos 

Assenza.

Hanno partecipato a questo numero:

Il prossimo numero uscirà a fine Giugno e il tema sarà: stanchezza/burnout. Grazie per leggerci.

A presto
Pamela

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 in tre movimenti (Apeiron)

Foto di Ihor Malytskyi su Unsplash

dice che tutti un giorno si va dice che siamo portati
in Brasile in grandi camere vuote dove nessuno
parla italiano anzi proprio non parlano affatto
con finestre da cui vedi solo la notte la luce
e non senti più il tempo e non senti neppure il dolore 
per cui se vi sembra che siamo ormai persi di testa
è per questo mi dice è che già ci troviamo in Brasile
in stanze rivolte a occidente perché da infinito
veniamo mi dice veniamo e a infinito torniamo

Ah, se non fossi astemia!, dopo il terzo
bicchiere ricorderei tutti gli accenti
masoretici, gli aoristi, la forma di alif maqsurah,
il frammento B1 di Anassimandro,
la playlist con la quale i trovatori
importarono l’amore in occidente. 

Ma anche a tè e gazose so che ci sei
pure se non so dove, Tebaldi, e ti parlo
come ora che invano provo a tradurre
Bereshit 1:2, dove è deserto e tenebra
e il suo respiro aleggia sulle acque. 

E anche da astemi tutto si confonde:
lettere che disegno e non so leggere,
verso Ostellato i campi d’immanenza,
vecchi giri in palude e le tue foto;
e maqqep si confonde con midbar,
la camera oscura con la notte.

Tu non credere mai nell’assenza
ti dico ora e ti dirò anche poi
con foto federe tazze con i tessuti
delle voci nei colori ma intanto 
finché son qui con la mia voce come
in certe poesie piene di verbi
al modo imperativo ora ti dico ascolta
nell’assenza non credere mai

Ciò che guarda modifica

Foto di Geetanjal Khanna su Unsplash

Ciò che guarda modifica
così la fisica quantistica
ma quanto 
anche lo sguardo che manca
muta la forma
mutila
scolpisce con l’assenza

Ti allontani
e qualcosa si allenta
muta mi guardo mutare
non il cuore battente 
o i polmoni
ma le piccole squame
sul corpo
ho creduto per poco
all’idea 
di nuotare di nuovo
sottacquea
ora ho chiaro i dettagli
quei tagli non erano 
branchie davvero

Avere anima anfibia
nel fango secco arida
anni minuti giorni
in assenza di sentire
in insensata attesa
di parole e di pioggia

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