Gelato e passeggiata sul lungomare. La proposta arriva, come sempre, mentre Leo si alza da tavola per raccogliere tovaglioli accartocciati e piatti vuoti. Enrico scatta in piedi e corre nella sua stanza. Va verso la valigia aperta, si china e agguanta la maglietta di Batman un po’ spiegazzata. Nonostante lo zio gli abbia messo a disposizione un armadio intero, non si è mai deciso a sistemare le sue cose per bene. Del resto, ormai è troppo tardi. È l’ultimo giorno di vacanza, trascorso nella casa al mare dei nonni. Anche se loro non ci sono più, lo zio Leo ci torna ogni anno per staccare la spina dal lavoro di insegnante e per assaporare il gusto sapido dei pomodori di giù.
L’idea di dover tornare a casa, lo fa indugiare di fronte allo specchio della vecchia camera per gli ospiti. Si chiede se al ritorno da scuola, a settembre, cercherà ancora lo sguardo verde oliva di Tilde. Se ogni mattina, dopo essersi stropicciato gli occhi, farà ancora il suo nome con la voce impastata. E ancora: se il tepore del suo pelo biondo lo sfiorerà durante il sonno, piombandolo nella disperazione al risveglio.
«Enrico, ci sei? Dai che si fa tardi e domani si parte».
La voce dello zio gli arriva come una scossa. Passa il palmo sulla t-shirt e si riavvia il ciuffo con le dita. «Eccomi!»
Uscire dalla stanza gli costa un grande sforzo. Le sneakers restano attaccate al parquet come per effetto di una magia potente.
Non solo dovrà tornare in una casa senza più lettiera puzzolente, croccantini che si frantumano sotto i piedi e peli sul cuscino. Questa sarà anche l’ultima sera in cui la vedrà. Ammesso che ci sia, è chiaro. La speranza di poterle finalmente parlare si sta affievolendo. È come fosse già con un piede su al Nord. Solo, senza Tilde, con gli amici ancora in vacanza e l’immagine di lei sempre più distante. Come un vecchio cartone animato visto su Youtube.
La voce dello zio gli arriva come una scoppola sul collo.
«Dai, muoviti. Non vorrai mangiarlo a mezzanotte, il gelato!»
«Arrivooo!!!»
Enrico stringe i pugni, si dà una mossa e raggiunge Leo nell’entrata. In casa persiste l’odore dolceamaro delle melanzane fritte.
Escono nella notte calda. Una brezza lieve arriva dal mare. Il cielo sgombro dalle nubi è pieno di stelle. «Sono nei della notte», gli aveva detto la madre quando era più piccolo.
«Non sei contento che ci siamo quasi?»
Leo gli sorride tenendo una sigaretta spenta in bocca. Sta cercando di smettere.
Enrico si stringe nelle spalle e alza gli occhi al cielo, incantato. Da qualche parte dell’universo, forse, esiste un mondo parallelo. In quel mondo Tilde è ancora viva e la ragazzina misteriosa gli offre un po’ del suo gelato.
«Ehi, ti sei imbambolato?»
Leo ride e lo scuote per schernirlo. La testa calva riluce nella sera stellata.
«Scusa, zio. Tutto ok. Sì, sono contento». Il tono di voce lo tradisce.
«Sei sicuro, Enrico? Non sembra proprio, guardandoti»
«Hai ragione. È che la mamma è diventata insopportabile, ultimamente».
«Lo sarebbe chiunque nelle sue condizioni, dovresti avere pazienza».
Enrico sospira e ripensa all’eccitazione che ha riempito casa sua negli ultimi mesi. Alla madre che si gonfiava come una mongolfiera, che rideva e piangeva nel giro di un minuto.
In realtà anche lui non vede l’ora, ma prova una punta di rancore per la sua famiglia. Nessuno lo ha capito, o consolato davvero, dopo la morte improvvisa di Tilde.
Al mattino, la madre non faceva che correre in bagno per la nausea. O usciva presto con il padre per andare dal medico. Quando doveva andare a scuola, Enrico non aveva il tempo per pensarci. Beveva in fretta il latte di avena e, con un gesto rapido, spalmava le fette con la marmellata di arance. Tornando a casa, però, fissava il tappetino vuoto senza le ciotole sopra. Ripensava a tutte le volte in cui Tilde rompeva con i denti i croccantini, a quel rumore ritmico e rassicurante. Ricordava come lo accogliesse ogni volta che lui varcava la porta di casa. Il corpo che le si allungava. Le fusa che riempivano il silenzio. Lui la seguiva nella stanza dei genitori e la guardava arrampicarsi sulla pancia della madre, per poi impastarla come un pizzaiolo.
Non si rassegna al fatto che un giorno Tilde abbia smesso di muoversi. Che in clinica, mentre il padre era impegnato a messaggiare, sia stato lui a guardare il suo corpo afflosciarsi per sempre. Certo, la madre non poteva sottoporsi a un’emozione così forte. Enrico lo sa, eppure la morte di Tilde è una cosa ancora troppo grande per lui.
Intanto, sul lungomare, il chiacchiericcio dei turisti s’infittisce. Si mescola alle risate e al rumore delle onde. Ci sono persone di tutte le età. Stanno sedute sui muretti che dividono la spiaggia dalle strade del paese. Stringono bicchieri di plastica vuoti, reggono coni semi-sciolti o passeggiano tranquilli. L’odore del doposole si mescola a quello salmastro del mare.
Giunti di fronte alla solita gelateria illuminata, mentre Leo si sporge sulle vaschette, Enrico la vede. Sotto un lampione accanto al muretto: frangetta chiara, spalle piccole e occhi tondi. Ha in mano un gelato intatto. La crema bianca è fluorescente sotto la luce del lampione.
La ragazzina lo fissa. Sembra sorrida, in modo quasi serio. Malinconico.
Enrico vorrebbe l’attenzione dello zio, gli sfiora un braccio e alla fine rinuncia. Lo ha già fatto altre volte. Non appena Leo alzava lo sguardo, lei scompariva nel nulla. Come non fosse mai apparsa.
Mentre lo zio riflette a voce alta sui gusti da scegliere, Enrico sostiene lo sguardo della ragazzina, finché lei non si volta e prosegue verso la spiaggia.
Ora o mai più.
Approfitta dell’indecisione di Leo per sgattaiolare e seguirla.
Scavalca il muretto e la segue. La sabbia è umida e compatta sotto le suole. Il mare è un’ampia distesa oscura e sciabordante. Più nero di un cielo senza stelle.
La ragazzina si ferma sul bagnasciuga. Enrico si blocca qualche passo indietro.
Lei si volta. Il gelato è scomparso. Lo avrà gettato? Gli occhi le rilucono sinistri nella notte. C’è qualcosa di strano, in loro, e al tempo stesso di familiare.
La ragazzina si siede sulla sabbia e con un gesto lo invita a fare altrettanto. Enrico si lascia scivolare accanto a lei. Guarda il cielo stellato che all’orizzonte tocca il mare nerissimo.
Vorrebbe parlare, ma ha un nodo in gola, come se il pelo di Tilde gli fosse rimasto in bocca. Prova un grande senso di nostalgia. E anche di felicità. Lì, accanto alla ragazzina silenziosa, si sente minuscolo eppure in pace.
A un tratto, una virgola di luce attraversa il cielo. Senza pensarci due volte, Enrico esprime un desiderio confuso. In realtà sono due, i desideri. Uno più assurdo dell’altro. Scuote la testa, afferra una manciata di sabbia e la scaglia contro il mare. A settembre farà la seconda media ed è alto quasi un metro e cinquantacinque. Non dovrebbe più credere alle favole.
«Non devi essere arrabbiato».
Le labbra di Enrico si spalancano per lo stupore. Si volta a guardarla. È la prima volta che ascolta la sua voce. Gli pare di riconoscerne il timbro, sebbene non ricordi dove l’abbia già sentito.
«Ciò a cui teniamo trova sempre il modo di ritornare».
Incredulo, Enrico chiude gli occhi per trattenere quella scena che gli sembra un sogno. Quando li riapre, la spiaggia è scomparsa. Le voci urlanti dei bambini hanno scalzato via il rumore dolce del mare. La luce della gelateria gli arriva come uno schiaffo sul viso. Leo gli sta porgendo un cono. Lunghe gocce di cioccolato strabordano e scivolano sulla cialda.
«Dai, che si scioglie!»
Enrico afferra il cono e non sa che farsene. Ne assaggia un po’ e lascia che il resto gli imbratti le dita.
Non stanno fuori a lungo. La mattina dopo andranno all’aeroporto per tornare a casa. Manca poco, ormai. Sua madre dovrebbe partorire a breve.
***
Si sveglia di soprassalto, sudato e con il cuore in gola. Ha sognato gli occhi di Tilde che si chiudevano per sempre.
C’è silenzio in casa. Enrico si alza e va con cautela nella stanza in cui dorme la sorella. Cammina sulle punte, a piedi nudi. La notte è tiepida.
Si sporge oltre il bordo della culla. La sorella è stesa su un fianco. I pugnetti chiusi e la boccuccia umida.
D’un tratto lei spalanca gli occhi o lo fissa. Enrico trasalisce. Nello sguardo della neonata c’è un riflesso strano, sinistro. Un luccichio che non gli sembra umano. Gli si rizzano i peli sulle braccia. Il sudore gli gela la schiena. Ricorda gli occhi di Tilde sveglia ogni notte alla solita ora. Gli stessi occhi della ragazzina sul lungomare.
Gli torna in mente la stella cadente e sorride al pensiero dei desideri che ha espresso.
Non appena la sorella abbassa le palpebre e si riaddormenta, senza un lamento né un mugolio, Enrico lascia la stanza e torna in camera sua. Stanotte non avrà gli incubi.
Ciò a cui teniamo trova sempre il modo di ritornare.
Autore
Laura Scaramozzino
Laura Scaramozzino (1976, Torino) svolge attività di editing, autrice di testi per podcast e
coaching letterario. Ha tenuto corsi di scrittura nelle biblioteche e per conto di enti
pubblici e privati. Ha partecipato ad antologie e pubblicato romanzi. Dastan verso il mare,
Edizioni Piuma, è stato selezionato al Premio Internazionale di Como.
Di recente pubblicazione è la novella J-Card, una distopia alimentare pubblicata dalla
casa editrice di sola narrativa breve, 256 Edizioni.
Suoi racconti appaiono, fra gli altri, su: Quaerere, Sulla Quarta Corda, Clean Rivista, In fuga
dalla bocciofila, Suite Italiana, Malgrado le mosche, Grande Kalma, Enne2, Narrandom, Pane e
Scorpioni, Spore Rivista, Alkalina, Nabustorie, GELO rivista, Waste, Rivista Kairos.
Collabora con il blog Sdiario, fondato da Barbara Garlaschelli e diretto da Katia Colica.
Ha ideato, per GELO rivista, la rubrica Vertigo, dedicata al perturbante.
Sta lavorando a una raccolta di novelle e a un nuovo romanzo per ragazzi.