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Vorrei chiamarti col nome delle cose,
poggiata tra un giocattolo e l’ombrello,
con una voce immaginata,
che appesa al mio volante
chiede scusa al colore delle nuvole,
senza spazio tra le labbra
sotto questa maschera aperta.

Ma il nome in cui tua madre ti ha avvolta
suona più a lungo di due sillabe
ubriaca il mio viso e mi frigge nella voce.

Il tuo nome è brandello di pagine
senza il cuore di una virgola.
Oggi da lontano 
aggiusto sulle tue labbra
il suono del mio.

Cerniere

Mi sorridono e questo lenzuolo di bianco silenzio
loro lo chiamano normale paura 
e mi chiedono un dito puntato sui miei anni di te.

Sono arrivata qui per la tua strada 
mi hai trovata bambina
imparavo a stare in posa per una cornice
e il loro star male
me lo curavano in jingle annacquati
che io ricalcavo in un disegno di me adulta.
La bambola con la treccia me l’aveva regalata papà:
«ti piace tanto giocare a fare la mamma»
e io la tenevo custodita nella mia borsetta di bimba
chiusa con la cerniera.

Di papà avevi le mani 
grandi e forti e la tua voce
cadeva e accompagnava il loro battere: era la cura
da quel cieco giardino di ovatta colorato 
dal pastello leggero di ogni giorno.

Me lo imprimesti nella pelle a mani, a voce
quel canto senza specchi, senza terra per i piedi
e se cadevo per annusare il profumo dell’erba
tu mi rialzavi:
«ti piace troppo giocare a fare la bambina».
Vogliono questo dito puntato contro di te
per restituirmi il tuo nome
con la ceralacca del malvagio.

Le cerniere rosse di pelle ricucita a filo,
che toccando il lenzuolo silenzioso
ancora bruciano sulla schiena, sul viso
custodiscono
quello che tu mi hai lasciato, amore.

Non posso chiamare papà
non posso bruciare anche in lui.

Autore

Emanuele Mapelli
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Emanuele Mapelli è nato e vive in provincia di Bergamo. Insegna spagnolo al liceo. Gli piace suonare la chitarra, coltivare l’orto e scrivere, in particolare versi. Segue corsi di scrittura presso la Bottega di Narrazione.