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Mastico il mare, lo biascico dalle persiane che lasciano sgattaiolare porzionato il sole. Chi se ne fotte del sole. Ora di pranzo, puzzo di pesce spogliato del refrescume, pesce imborghesito da intingolo e fritto spesso. Non sbavo, sazia come sono di salsedine, salsedine e cracker mi nutrono ormai da giorni. Sputo il sale che mi cresce in bocca.

Le prime a sparire sono state le bouganville. Dal mio senso, dalle narici. Ho carezzato i fiori rosa, rosa cui hai affidato la cura di me, accuditela che è sola hai detto, e loro ubbidienti. Non recrimino, mon petit, le bouganville si danno affanno per me, me esiliata e me isolata ma ho te, lo so che io ho te, mon petit, non recrimino e le bouganville mi accudiscono ma non quel giorno, la mattina in cui hanno voltato i petali per non vedermi, chissà se offese da una mancanza che stupida non ho colto, le bouganville mi hanno espulso dal loro odore, e sputo il sale che troppo si addensa tra le labbra arse.

Poi il basilico, foglie piccine a cui dare recatto, a dirla come gli indigeni, il basilico odoroso che incontra i pinoli per far la muta in pesto, pesto pestato da un pestello nel marmo, anche se il nostro è da un frullatore ma non spifferiamolo ai vicini. Ti piace il pesto, il pesto leggero col basilico tritato fino fino, senza un pinolo o un pezzetto d’aglio intonso, che fa un profumo verde chiaro quasi fosse una crema, la crema che mi cospargo in volto la sera quando mi dici che so di buono, so di mamma anche se non abbiamo figli, noi due, e guai se il pesto ti mostra un granello grossolano, guai se dimentico di dare la crema che mi hai regalato, quella che sa di tua madre, se no sono piatti che schiantano e vasetti che rotolano come bocce.

Il secondo gran colpo, all’olfatto mio ignaro, è arrivato la sera dopo, quando sono stata al giapponese: né sushi, né salse e neppure i tempura dell’all-you-can-eat hanno ridestato le mie narici, la lingua gioiva e il palato a smistare e gradire, non come quando a Natale il virus si è fottuto i ravioli di tua madre contraccambiando con ageusia e anosmia.

Eppure. Nessun salmone, non tonno né l’amido del riso ha dato senso al mio naso, tutto bloccato quasi avessi il suggello invisibile che mi concentro a creare se mi tuffo sott’acqua. Ma io stavolta non lo volevo, il suggello!

Stai bene? avresti detto, se fossi stato con me, e io sì sì mon petit, mangio lenta per meglio assaporare, ma tu non c’eri e ogni boccone diceva anosmia.

La notte ho smanettato su internet, da allora so dare un nome al mio malessere. Ageusia è di chi non sente i sapori, e non ce l’ho posso stare tranquilla. Anosmia è invece ‘sta cosa che mi riguarda, ho cercato sul cellulare a luci spente mentre taceva la casa, questa casa dove mi hai portato senza che io volessi ma ti ho perdonato, ti perdono se ho mollato il lavoro tanto la salsedine ora mi appaga, mastico salsedine che corrode il cervello e a volte mi abituo. Ho cercato mentre la casa, sei tu questa casa che stringe blocca e controlla, mentre la casa giaceva, e ho scoperto che non sono le sole rifiutate dagli odori, queste narici asimmetriche ereditate da un padre che mi annusava dove non doveva. Ti stupiresti della sacca della spesa piena di paste al tartufo, acciughe cipolle e aceto, sapori densi che mi attraversano ormai solo la gola. Anosmia, si diceva, e graduale: ho fatto esami che ho dettato da internet al dottore, non ho insufficienza renale né epatica, non ipotiroidismo, non adenoidi ipertrofiche né tantomeno tumori. Mi ha aiutato Freud, quella notte: disturbo di conversione, dunque io somatizzo il mio conflitto tra ucciderti e amarti, la distanza dagli odori è la stessa che vorrei prendere da te.

Ma non lo faccio apposta, mon petit, se potessi fiuterei ancora il dolciastro dell’ozono nel vento che preannuncia la pioggia, respirerei i bromofenoli, i dictioptereni e il solfuro dimetile che danno afrore alla salsedine, annuserei la saliva che tu mi sputi in faccia e il sangue acre quando mi prendi a pugni.

Nulla di nulla, io sento.

Ricordi quando ci siamo incontrati, mon petit?, eri così innamorato che mi volevi mangiare, pur di tenermi con te. Io che ridevo e mi sentivo regina, benché di un regno, allora ignoravo, che dimora agli inferi.

Ti ho perdonato, mon petit mon coeur, ho perdonato tua madre che mi spoglia per capire se i miei fianchi sono buoni da figli, tua zia che mi fa quasi stuprare da un uomo per testare la mia fedeltà.

E perdono te, che non mi hai mai difeso e a cui ho creduto quando mi davi le colpe.

Ero brava al laboratorio, ricordi, la mia equipe studiava la turbinmicina, ti ho fatto una testa così quando ci siamo conosciuti, sugli effetti antifungini del microbioma marino contro la Candida auris, e tu ascoltavi, ti avvicinavi e ripetevi: migliorerai il mondo.

Ho migliorato il tuo mondo, sì, sono diventata il giocattolo su cui infierire, la tua “cosa”, come mi chiami, che nessun altro vuole.

Non mi pesa, mon petit, non mi pesa asservirmi a un re feroce quanto nessuno immagina. Ma ora c’è l’anosmia con me, non sento nulla più che col raffreddore. Non mi lavo da giorni, voglio un odore così mordace da trivellare il suggello al naso, non faccio che annusare e presagirmi il corpo, fiuto le ascelle e fra le dita dei piedi e perfino là sotto, infilo un dito sperando che qualcosa puzzi.

Poi annuso te, mon petit mon coeur, ti sniffo in ogni piega della pelle, tra gli occhi vitrei e il naso che si va sformando, discendo agli arti e raggiungo quelle zone che a volte ti eccitano, e talora tacciono.

Un’ora fa masticavo cracker e salsedine, e ti fissavo come fissavi me un tempo, e ho sobbalzato al trillo del citofono per un avviso di raccomandata, sei stato tu l’ultimo a suonare quel citofono, dieci giorni fa la mattina, rientrando cupo per quella che hai chiamato troia, non me la dà perché sa che viviamo insieme, gliel’hai detto tu, strillavi, di noi due? Io che arretravo e la mia voce si rendeva piccola, pur sempre conscia di ciò che stavo per fare. Mi ero preparata, mon petit, ti mangerei pur di non perderti, ma da quel giorno, il giorno delle bouganville, in pegno ho dato ogni opportunità di odore.

Sei qui davanti e io ti carezzo il corpo, e immagino aspro l’olezzo della formalina: l’ago ha forzato a trapassarti l’addome, non come col solito cortisone per l’asma, te ne stavi rigido e tenace con la macchietta in pancia che incoraggiava a insistere.

Adesso i giorni sono trascorsi troppi, già o tra un po’ il putrido saturerà la stanza. Non preoccuparti, mon petit, non avverto il lezzo, starai sul letto finché i vicini non irromperanno.

E ti perdono se non sento il tuo odore, né la salsedine che ci mastica il cervello.

Autore

Roberta Poggio

Roberta Poggio è nata a Genova e vive in Piemonte. È adattatrice di dialoghi per il doppiaggio e ha curato l’edizione italiana di molti manga. Ha frequentato il laboratorio annuale e altri corsi della Bottega di narrazione. Il suo racconto Don Giuseppe è uscito sull’Almanacco Guanda. Il racconto (Ma) poi la sera è nell’antologia L’olmo e i suoi racconti, curata da Marino Magliani e Dario Voltolini.