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Di boschi e di fiumi, puliti, verdi. Di giostre colorate, di luci. Lai la lai lo lai. La carovana si muove come gregge di montagna. La libertà è bella, vai dove vuoi.

La nonna Antida ha una bocca di tartaruga, secca, coi pochi denti rimasti aguzzi. La nonna Antida ha gli occhi color dei boschi e la pelle di terre lontane. Io le accarezzo il braccio, seguo il fiume delle vene che solcano una carne ormai asciutta e arrivo alla sua mano. Avvicino il naso. Quell’odore che è solo il suo e che sa di casa, di sogni e di storie. Lai la lai lo lai.

È un campo grande e un violino melanconico saluta il mattino pieno di bruma. Sono scalza, pettino i fili d’erba con le dita dei piedi. I cavalli nitriscono e sbuffano dal naso, scalpiccio di zoccoli. Un uomo in lontananza batte il ferro, il suono metallico è un richiamo per quelli che non si sono ancora alzati. Il tendone trasuda l’umidità della notte, vado a cacciare le gocce con la punta delle dita sulla stoffa spessa, bianca e rossa. Seguo con gli occhi il profilo delle bande bicolore fino alla punta. Sollevo un lembo di stoffa e sono dentro. Nella penombra la base di legno su cui mia madre ieri sera stava poggiata dritta ad aspettare le lame. Il rullo del tamburo in crescendo e il pubblico che acclama «Oooolè!» ogni volta che mio padre scaglia un coltello e lambisce le sue braccia scoperte, le cosce, la stoffa del body, i capelli. In quei momenti mia madre ride e viene anche a me da ridere e sento un morso allo stomaco, mi stringo tutta, mi faccio piccola piccola perché mentre mia madre ride coi denti di fuori e io rido coi denti di fuori, ho paura. «Oooolè!», il papà non sbaglia mai. Le va incontro, le porge la mano, lei poggia la sua delicata, lui la bacia e la conduce al centro del palco. Il pubblico applaude, anch’io batto le mani. Inchino, una due e tre volte. Sono stati bravi, sono i miei genitori.

Il campo è attaccato al paese, il paese in cui mi fermerò con quello che diventerà mio marito. Siamo sinti, la nostra vita è su ruota, ma ogni tanto qualcuno decide di fermarsi. Mia madre mi dice «Didì entrerai in una famiglia di giostrai!» e io non lo so come si fa a stare fermi che tutto quello che ho conosciuto è un continuo mutare. Abbandonare la nuca sulla stoffa del carro, dondolare al ritmo della strada, socchiudere gli occhi e sussultare lievemente, accompagnare la cadenza del cuore col dondolio del corpo e sognare i boschi da dove veniamo e dove siamo sempre allegri. Io non lo so se riuscirò a fermarmi in questa pianura, mio padre è convinto sia una grande opportunità per me smettere di girare, che si stia meglio con un solo posto a cui appartenere. Io dico che a volte mio padre pensa come i gagé… in fondo mi va bene perché Ronny sarà il mio uomo. La sua casa diventerà la mia, la sua famiglia la mia. Lo so che mi farà felice, avremo dei figli. Andranno forse a scuola, i miei figli. Impareranno per bene la lingua di questa pianura, che è un pezzetto di terra e di tempo, ma non gli farò dimenticare la nostra di lingua che è tanti posti e tanti secoli assieme. I nostri canti, la nostra musica che conduce il vento.

Io non so scrivere e non so leggere e lo so che i gagé ci prendono in giro. Ci dicono zingari. Ma anche noi li prendiamo in giro, lavorano sempre per diventare qualcosa, qualcuno, e sperando così muoiono. E allora gli leggiamo le carte e loro ci credono sempre in questo destino che gli raccontiamo e ci guardano obliquo perché come facciamo a conoscere le loro vite che mai li abbiamo incontrati? E quando vogliono salutare i loro morti c’è Zora la medium che li accompagna. Accende le candele, apre il varco con l’aldilà. Ma non sanno che non c’è un luogo particolare per incontrare i morti: i morti sono tutti attorno, come i boschi, l’acqua dei fiumi, i nostri tendoni, i nostri animali. Se si muovessero al ritmo del mondo, i gagé lo scoprirebbero che non ci sono segreti, non ci sono misteri. Se aprissero gli occhi lo sentirebbero il ritmo del mondo fluire da dentro, inondare le vene. Gioire col cuore, aprirsi in un sorriso senza denti, carezzare la pelle con alito leggero. E invece faticare, mettere da parte soldi e proprietà, e morire.

Io non so scrivere, non so leggere, e non vale la pena spiegare. Tutto quello che ho da dire lo dico col corpo, coi canti nel vento, la danza le sere attorno al fuoco tra il guizzo dei violini e i balzi degli accordéon. Sarà così al mio matrimonio. I miei capelli sciolti e brillanti, lunghi quanto la mia schiena. E la gonna larga fruscerà al ritmo dei piedi. E sarò felice quel giorno, come mai nella vita. Perché Ronny ha un viso gentile, le guance gli si arrossano quando mi guarda entrare nella tenda del circo. Mi segue e mi dice sottovoce «Ti piacerà vivere qui, avremo una roulotte tutta per noi e poi l’estate con le giostre andremo in giro per i paesi attorno». E io credo ai suoi occhi nocciola, alla mano ruvida che cerca la mia, alle labbra di miele sapore di terre lontane, del posto da cui veniamo e a cui mai ritorneremo.

Sono stata felice con Ronny, abbiamo visto nascere i nostri sette figli. Li abbiamo visti crescere nel campo vicino al paese. Li abbiamo mandati a scuola, per qualche anno. Hanno imparato la lingua di questo pezzetto di terra, di questa Lombardia, meglio di noi. Si sono fatti degli amici gagé, che quasi non si vede la differenza. Noi non abbiamo mai rinunciato alla nostra vita su ruota, alla roulotte simbolo della possibilità concreta di ripartire e ricominciare il giro, come la luna. I nostri figli vivono negli appartamenti, con acqua corrente e luce e le fognature. Tutto quello che i gagé ci hanno fatto desiderare. Io ho continuato a giocare a scaldamani con i nipoti fino alla fine, gli ho raccontato del verde dei boschi, dei fiumi puliti di quelle terre da dove veniamo e a cui mai torneremo perché i ritorni sono solo illusioni dal momento in cui si è deciso di partire. Eppure di illusioni viviamo, e di luci e di musiche allegre e di giostre e di acrobati e di bocche che mangiano il fuoco. I violini e gli accordéon ci ricordano che la vita scorre da dentro e che non c’è male a partire, che questa è la vita più bella del mondo. Che noi siamo i viaggiatori della luna, che la luna per secoli ha guidato le carovane e che le donne la luna la portano dentro, la trasmettono alle figlie e alle loro figlie. Lai la lai lo lai.

Questa storia la nonna Antida me l’ha raccontata tante volte. La nonna che ride con la sua bocca di tartaruga e il suo spirito di rapace. La nonna che ha accettato la sua sorte di stanziale con un sorriso a denti fuori e non ha mai smesso di raccontare le storie, per farci ricordare. Io sono cresciuta in una casa popolare, sono andata a scuola e ho imparato a leggere e scrivere. La sua storia la posso mettere qui nella lingua dei gagé che adesso è anche la mia. Alla sua morte ho tagliato i capelli, li ho portati al fiume e li ho fatti volare col vento. Mia nonna Antida è tornata a condurre il vento, al ritmo del fiume che scorre da dentro. Se la voglio incontrare, so che è qui che devo venire.

Autore

Elisabetta Giromini
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Elisabetta Giromini cambia città ogni quattro anni. Viaggia, legge e scrive molto. Ha frequentato la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi e i suoi racconti sono stati pubblicati su Malgrado le mosche, Risme, Blam, Narrandom e altre riviste.