fuoripunto.

au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

Editoriale #7

Notte

Photo by Arnau Soler on Unsplash

Se speriamo di vivere non semplicemente di momento in momento ma realmente coscienti della nostra esistenza, la necessità piú forte e l’impresa piú difficile per noi consistono nel trovare un significato alla nostra vita.


Bruno Bettelheim, Il mondo incantato – Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Universale Feltrinelli 
Traduzione di Andrea D’Anna

Mentre leggevo il libro A letto, piccolo mostro! di Mario Ramos (Babalibri), molti ricordi della mia infanzia mi tornavano in mente. 
Da bambina io non dormivo, o meglio andare a dormire era una battaglia. Resistevo a qualsiasi routine, storia o abbraccio, ma anche minaccia e esasperazione.  Aspettavo e rimandavo questo incontro con il buio e la notte perché avevo paura. Paura perché di notte non riconoscevo i rumori, la luce dei lampioni entrava dalla finestra e proiettava le ombre sull’anta dell’armadio. 
A volte fantasticavo storie e ripercorrevo le mie giornate, altre piangevo e piangevo. Cercavo di superare le inquietudini che il buio mi presentava, ma facevo fatica. 
I miei sono riusciti finalmente a respirare un po’, quando ho messo una lucetta vicino al letto e ho cominciato a leggere da sola: le mie notti e le mie paure, allora, si dissolvevano come i granuli di digestivo effervescente nel bicchiere. 
Quanto le parole hanno nutrito le mie notti! E sentivo la notte stessa ricca di rimandi a mondi fantastici pieni di paure, scoperte, fantasmi, distacco, morte. 
Archetipi che formano la coscienza e che aiutano a trovare il senso del vivere. 
Questi ricordi mi hanno guidato sia nella scelta del tema che del taglio dei contributi.

Il numero dunque è dedicato alla Notte; alla notte vista dai e per i ragazzi, i giovani. Menti e cuori in crescita che possono trovare il loro senso e nutrimento nelle parole.

A questo numero hanno partecipato:
Redazione: Pamela Frani, Elisabetta Carbone 
Imagerie: Francesca Romana Belli
Poesia: Claudia Mencaroni, Viviana Fiorentino 
Racconto: Laura Scaramozzino
Articolo: Romina Ramazzotti
Appunti: Carmela Fabbricatore

Il prossimo numero avrà come tema la parola “Legami” e sarà online a fine febbraio. Intanto ci trovi anche su Instagram e Facebook e non dimenticare di iscriverti alla newsletter: a fine gennaio esce il numero con gli extra!

E visto che siamo alla fine dell’anno, ecco un bilancio minimo del 2023: posso solo che essere grata, per tutti i collaboratori e i lettori del blog. Per tutti coloro che hanno speso tempo per noi. Grazie di cuore. 
Spero che il 2024 sia altrettanto pieno di gratitudine. Buon inizio. 

A presto
Pamela

appunti

Cinque declinazioni di radici e altrettanti consigli di lettura

Foto di Sasha Freemind su Unsplash


LINGUA

Chiudo il libro e lo riapro alla prima pagina. Leggo: «l’alfabeto italiano è composto da ventuno lettere, di cui cinque vocali e sedici consonanti. A queste si aggiungono le lettere di origine straniera: j, k, w, x, y. […]». Lancio il libro. Lo lancio con tutte le mie forze. Mi sembra giusto lanciare un libro che mi tradisce e uccide le lettere. Merita di morire

Male a est di Andreea Simionel (Italo Svevo, 2022)

“Non si cresce in un luogo, si cresce in una lingua” si legge in Come un respiro interrotto (Fabio Stassi, Sellerio, 2014). Potrebbe dunque essere una particolare forma di violenza, l’essere costretti ad abitare una lingua diversa da quella in cui si è cresciuti. Un male tanto silenzioso quanto logorante.

PIETRE

Sfatti, si distesero lunghi, i gomiti a puntello sopra l’erba. E fu come se ognuno ritornasse solo, solo coi suoi pensieri, i suoi affanni. Lo sguardo perso per quella nuda piana, a cui succedevano colline, appena verdeggianti per gli spruzzi di pioggia dell’ottobre in corso, o bianche e aspre, fortezze alte e puntute di calcare. […] E niuno di essi, niuno, spersi tutti, affogati in quello spazio di dimenticanza, sotto quel cielo fermo, niuno s’era accorto che da sopra il muro bianco della masseria, sopra i vetri di bottiglia, da dietro le finestre inferriate, sotto gli archi della loggia in alto, erano sbucati baschi neri e colorati sopra facce impassibili, occhi che scrutavano, nasi e bocche che fumavano.

Le pietre di pantalica, di Vincenzo Consolo (Mondadori, 1988)

È in quella terra acre di Sicilia, fatta del sangue degli ultimi, che affondano le radici della poesia e del sogno del riscatto, ancora soffocati dalla grettezza della Storia.

DISTACCO

È come se tutto facesse parte della vita del paese. La nascita, la morte, la separazione divengono semplicemente tappe di un divenire collettivo in cui c’è sempre posto per la speranza, perché la comunità sopravvive e si evolve. […] Lui capisce ma non prova né angoscia, né felicità. Tutto fa parte di una vita che non è la sua e nella quale lui non si inserirà mai. […] è tutto appena un poco distante da lui. Tutto come assistere alla vita di un paese separato.

Camere separate, di Pier vittorio Tondelli (Bompiani, 1989)

C’è spesso uno spaesamento nel modo in cui guardiamo al luogo in cui siamo nati. Si tratta di una forma di distanza: è la sensazione di sentirsi profondamente diversi rispetto a un mondo e a delle persone che sanno tutto di noi, ma che fanno fatica ad accoglierci.

RITORNO

Per nove anni, ogni lunedì ero andato al consolato cileno per sapere se potevo tornare. Nove anni nel orso dei quali avevo ricevuto circa cinquecento volte la stessa risposta: No. Il suo nome è sulla lista di quelli che non possono tornare. E all’improvviso, un lunedì di gennaio, il triste funzionario spezzò la sua routine e, al contempo, i miei schemi: Quando vuole. Può tornare quando vuole. Il suo nome è stato cancellato dalla lista. Uscii dal consolato tremando.

Patagonia express, di Luis Sepulveda (Guanda, 1999)

In alcune parti del mondo la Storia e l’oblio si succedono con troppa rapidità. Il viaggio diventa allora un’avventura triste, sia quando è fuga, sia quando è ritorno.

IPNOSI

«Mio nonno poi […] faceva a sua volta l’ipnotizzatore e lavorava nei piccoli circhi, e tutta la città vedeva nelle sue ipnotizzazioni il desiderio di fare più che poteva la vita dello scioperato. Quando però i tedeschi in marzo passarono le nostre frontiere per occupare l’intero paese […] soltanto il nonno andò a opporsi ai tedeschi come ipnotizzatore, ad arrestare i carri armati con la forza del pensiero […] Da allora in tutta la regione la gente litigava. Gli uni gridavano che il nonno era matto, gli altri invece che non poi tanto, che se tutti si fossero opposti come il nonno ai tedeschi con le armi in pugno chissà come sarebbe finita coi tedeschi.»

Treni strettamente sorvegliati, di Bohumil Hrabal (e/o, 1985)

Quando si affronta un trauma collettivo, come l’invasione della propria terra da parte di un colonizzatore agguerrito, tornano domande ricorrenti: come è potuto accadere, chi lo ha permesso. Salvifica è allora la letteratura, che scavando nel dramma – talvolta con ironia e disincanto – crea consapevolezza e alimenta la memoria.

In sottofondo, Should have known better, Sufjan Stevens

Editoriale #6

Illustrazione ©  Francesco Abrignani

Il numero di Radici ci accompagna nella nostra rentrée litteraire.
Il tema di questo numero è stato scelto pensando alla forza che le radici hanno per ognuno di noi. Base da cui partire o nuovi orizzonti a cui aggrapparsi, le radici sono legate alla terra.
Parlando con alcuni amici che si sono trasferiti altrove che la loro città natale, la sensazione di creare una nuova appartenenza con il luogo che li aveva accolti nella seconda fase della loro vita, arrivava grazie a nascite, matrimoni ed eventi lieti: tutto ciò che permette di creare un ricordo profondo. Un ritorno alla terra più forte quando purtroppo, perdevano qualcuno lì e lo accompagnavano nell’ultimo viaggio per la sepoltura.
Legame con le origini e con l’aldilà. Una appartenenza eterna, un ritorno alla terra, che non è fredda o isolata, ma ricca di legami e ricordi, in un movimento in crescendo.

Penso a mia madre e alle sue vicine, che si scambiano piantine che rinascono e fanno radici in un’altra casa; e se la chiave di lettura delle radici, sia vecchie che nuove, fosse l’accoglienza?

Le case si aprivano ai tribolati, accogliendoli nella miseria che era in esse, come se finalmente ci fossimo tutti risolti a rivelarci. Sì, veramente fu un’epoca che rese migliori anche coloro che non avevano l’ambizione di divenire eroi e che pure sentivano l’obbligo di tener fede a se stessi.

Alba de Céspedes, Dalla parte di lei, Mondadori

A questo numero hanno partecipato:

Il prossimo numero avrà come tema la notte ed uscirà l’ultima dell’anno.

Intanto ci trovate anche su https://fuoripuntonewsletter.substack.com e su Instagram e Facebook.

Grazie,

Pamela

Radici

Illustrazione © Francesco Abrignani

Radici. Tutte le volte che mi capita di pensare a questa parola, chiudo gli occhi e vedo mio nonno con le parole crociate in mano sotto quello che lui definiva “sommacco”. In realtà non è un sommacco, ma per me lo è e lo sarà sempre.

Chipil, una cura.

Photo by montatip lilitsanong on Unsplash

Il piccolo non lo diceva. Eppure lei sentiva quella giovane creatura temere il rivale: un rivale che cresceva attimo dopo attimo tra le sue interiora e che si sarebbe manifestato in tutta la sua potenza da lì a meno di un mese.
Non era difficile percepirlo quel timore, e non perché della creatura lei fosse la madre e condividessero quindi tra di loro un legame inimitabile. No, non era difficile percepirlo per nessuna delle persone che condividevano – appieno o anche solo in parte – l’intimità domestica.
Il piccolo si alzava la mattina dal letto, lasciava cadere il pigiama per terra, levava il panno da qualche mese sempre pulito, lo guardava infastidito da quel candore: avrebbe preferito, se avesse potuto, continuare a obbligare la madre a pulirlo per bene appena sveglio. Procedeva quindi verso la stanza da bagno, lasciava giù la tavoletta, si metteva in punta dei piedi e urinava senza mirare, un po’ nel buco, un po’ proprio sulla tavoletta, una buona metà per terra. Poi rideva e la chiamava e lei accorreva responsabile, con il sorriso del buongiorno, e mentre lui ancora rideva, lei prendeva qualche segmento di carta igienica, puliva la tavoletta, puliva per terra. Detergenti non servivano: la pipì era santa.
Anche il rituale cui si era sottoposta in prima persona, tanti anni prima, era stato santo.
Del rito non c’era traccia nei libri, lei lo cercava soprattutto per riuscire a ricordare bene, apprenderne le istruzioni dettagliate da interpretare con la maturità degli adulti, e soprattutto per esorcizzare le umiliazioni che ne erano derivate.

In fondo, cercava per dimenticare.

Alcuni forum in rete riportavano informazioni su cosa fare quando un niño está chipil, ma trovava soprattutto cose innocue come lavare il bambino geloso in una vasca piena di tè di lattuga, oppure troppo morbose come morderlo dalla nuca fino ai piedi per estrarne il misterioso veleno.
La santeria che avevano combinato a lei era quindi, di sicuro, invenzione della señora Chepa.
«Saluda tu madrina», ancora dopo anni veniva presa in giro da sua sorella, quando capitava di incrociare la vecchia per la strada, fino a quando era rimasta in vita.
Eppure al suo fratellino lei aveva solo dato un paio di schiaffi, e piano; l’aveva tirato fuori dalla culla, scosso, svegliato e l’aveva fatto piangere per poi cercare di farlo smettere con le sberle.

Ma piano: molto piano. Di questo ne era ancora certa e lo avrebbe giurato.

Non era in fondo successo niente di male, cose tra fratelli; sua madre era arrivata, aveva preso il bimbo, gli aveva offerto il seno, l’aveva fatto smettere di lamentarsi, l’aveva fatto riaddormentare.
Ma fu così che poi, a lei, l’avevano portata dalla Chepa: neanche una settimana dopo.
La Chepa abitava nel loro stesso isolato, la conoscevano tutti, di tutti era una mezza parente. Forse qualche gene della vecchia l’aveva ereditato in qualche modo persino lei, su e giù per rami e radici dell’albero genealogico.
Gli occhi forse, trovava fossero simili.
La casa della Chepa era piccola e piena di fiori recisi in settimana, alcuni freschi, molti secchi: i pochi mobili ne erano ricoperti. All’ingresso, sempre attaccata alla gonna della mamma, lei respirava quei profumi gradevoli che stavano lì per celarne altri: quelli della strada e del suo fango polveroso, quelli delle dinamiche quotidiane del mercato, l’accogliente farina di mais sul fuoco e il sangue di pollo spanto per terra, ormai secco, insieme a piume bianche imbrattate di vermiglio.
La Chepa poteva avere centoquaranta o centocinquant’anni. Avrebbe potuto morire lì, in quel momento e davanti a tutti, un colpo apoplettico sgranocchiando nero grano e nessuno dei presenti si sarebbe stupito né scandalizzato. Nemmeno a lei avrebbe fatto impressione, certo non più di quanta gliene stava facendo quel corpo vivente, le sue rughe, gli sprazzi di cranio sprovvisti di capelli. Eppure, dopo quel giorno, ne sarebbero dovuti passare moltissimi altri prima di farlo arrivare alla sua destinazione finale, nella terra fertile che un giorno gli aveva dato la vita e che alla fine l’avrebbe reclamato.

Anche le streghe muoiono, e non solo nelle fiabe.

La collana era già pronta: era bastata una telefonata il giorno prima. La Chepa l’aveva estratta da dentro un cassetto e dal cassetto era uscito l’odore che aveva subito fatto appassire i fiori appoggiati sopra a quel comodino.
L’odore si era infine posato su di lei e su di lei sarebbe rimasto per le settimane a seguire.
Ora, mentre meditava cosa fare col suo figlioletto ribelle, decenni dopo, nel suo salotto confortevole, ancora ricordava i dettagli di quell’olezzo pieno, che avrebbe portato ovunque con sé, a scuola, per strada, nella sua profumata cameretta.
La collana era un rosario santo, i gesti erano santi, il segno della croce sul suo corpo, quell’aglio che le toccava la fronte, il plesso solare, la spalla sinistra, la spalla destra.
Il rosario aveva cinque spicchi d’aglio per ogni peperoncino rosso – ave marie e padrenostri – era stata benedetta la sera precedente, così diceva la Chepa, così annuiva contenta la madre, così ridacchiava la sorella.
Così lei aveva indossato il rosario, mentre tutti le giravano attorno e gli altri bambini chiamati per l’occasione – i figli del vicino carpentiere attirati dalle caramelle di quella buona signora – le lanciavano addosso i petali dei fiori che trovavano in giro per la casa.
Così alla fine tutti erano andati via e ora se ne stavano andando via anche loro.
E lei sarebbe andata via con la collana: avrebbe dovuto portarla per tutto il mese, senza mai levarla, fino a quando il chipil se ne sarebbe uscito dal suo dannato corpicino per entrare negli agli, nei peperoncini, fino a quando i vegetali ne avrebbero segnato l’ingresso tra le loro molecole mostrandone la decomposizione, il marcio, i marroni e i neri, e un odore ancora più forte.

Si no hay chipil no huele.

E dall’olezzo presente, il chipil c’era eccome,era l’odore che avrebbe dimostrato il successo dell’operazione. La Chepa avrebbe meritato il suo onorario.
Ora dopo così tanti anni lei si accarezzava il pancione all’ottavo mese e guardava il figlioletto giocare. Lui correva per i corridoi dell’appartamento con un aglio in mano, l’aglio che forse aveva in lei ridestato quei ricordi, quasi che avesse preso lo scheletro sepolto della Chepa per i pochi capelli rimasti e l’avesse dissotterrata ridonandole carne. Il bambino con l’aglio in mano si divertiva a dipingere le pareti dell’appartamento. Poi guardava la pancia di lei e ne disegnava sopra una figura stilizzata.

In quel momento lei si rendeva conto di avere un figlio affetto da chipil.

Poco importavano le radici della sua umiliazione, quella bambina traumatizzata tanto tempo fa: con lei aveva funzionato, non aveva più schiaffeggiato il fratello nemmeno quando se lo era meritato più volte nel corso della sua esistenza.
Nelle prossime settimane suo figlio sarebbe andato all’asilo puzzando tremendamente e se ne sarebbe ricordato per lunghi, lunghissimi anni.

I due bambini sarebbero andati d’accordo per sempre.

La verticale

Foto di Costea Alexandra su Unsplash

Da bambina
andavo in verticale
a testa in giù
guardavo il mondo rovesciato
in equilibrio
sopra un duro orizzonte

i capelli sfioravano la terra
in giardino, i vermi
mi salutavano
con un breve inchino del corpo

camminavo sulle dita
come camminano gli uccelli

a tutti parlavo, alle formiche
agli scarafaggi, alle piccole
fragole che ingiallivano
senza mai diventare rosse

e le gambe traballavano un poco.

Crescevo, nella grazia di Dio,
con moto inverso, i piedi
solleticando il cielo, interferendo
col volo nervoso delle mosche

sotto la mezzaluna delle unghie
si formava il terriccio,
le dita sempre più a fondo
crescevano nella terra
come radici
si allungavano dentro

io poi, con quei piedi a mezz’aria,
sono andata nel mondo
e quel mondo l’ho riportato alle mie mani
e ogni volta che l’ho detto
ogni volta che l’ho pronunciato
l’ho trovato sempre
bene ancorato in quel giardino.

Terraferma

Poi veniva l’estate
col verde negli occhi
fuori era un pieno
di rondini, api
e tempo ancora.

La dama per colazione
al mattino, il tris,
il conto spaiato
delle monete
da cinquecento lire.

Mi crescevi nel cuore
come un padre,
le tue radici
diventando mie.

Tu riponevi in me
l’umano, il sogno
la terraferma e il volo,
l’ambizione di essere
solo ciò che sono.

Allora ero argilla,
seme, voce molle
che imparava la tua
e di tutto
facevamo catalogo:
mostravi e io
vedevo studiavo bevevo
con la gola arsa della pianta.

Non sapevo del segno
impresso a calce
contro le rovine venture
– oggi chi sono:
femmina e voce
gli occhi due fari
per guardare meglio.

(non lasciarmi andare)

Photo ©  Paola Casali

(non lasciarmi andare)

Mi sveglia la canzone di Alabama
allungo le gambe alla parete.
Tra fili d’edera e fiori di gelsomino
il tuo sorriso. Poi i tuoi occhi.

Well, show me the way.

Ti incontro nei volti, in un film, nei libri
tra la schiuma di una birra,
nella fetta di pane e marmellata.
Fai male sin dal mattino.

Un sasso scende lento nella gola
lo sguardo grigio attraversa la pelle.
Sottraggo al vocabolario di negazione
un appiglio per saltare l’invisibile confine.

Ça suffit mon amour.

Coi sì, ma invece no, ci sei e poi non ci sei
dondolii che superano i cieli
bruciano il paradiso e affogo con le stelle
potrei andare via, scappare.

Tingere il tempo con la vernice tra i capelli
andare a Telendos
distendermi sotto una tamerice
strappare le radici amare.

Rinascere, farmi madre di me.
Ma stai scritto sulla mano,
nel sangue e forse ancora
nei mille milioni di volteggi del mondo.

Non lasciarmi andare.

Le radici, ricerca dell’identità.

Foto by Pamela Frani

Dialogo con Alessio De Stefano e Gianluca Salustri

La cresta delle montagne dove il sole va a tramontare rafforza la sensazione che ho avuto prima, annullando ogni distanza cronologica e geografica.Casa non sembra così lontana nemmeno vista da qui”1

Alessio De Stefano, Vincent Massari Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni

Vincent Massari si imbarca per l’America con sua madre una settimana prima che il terremoto del 13 gennaio 1915 distrugga la Marsica. Quel viaggio lo ha reso superstite di un mondo che non c’è più. Alessio De Stefano (ADS) ci narra la sua storia nel libro pubblicato con la casa editrice di Gianluca Salustri (GS): Vincent Massari. Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni. Vediamo insieme a loro come è nato questo racconto.

Alessio, dal 2019 hai costruito la Piccola biblioteca marsicana per raccontare la Marsica e l’Abruzzo attraverso risorse e testimonianze storiche. Ti va di raccontarci cosa ti ha spinto a far partire questo progetto? Come è nato?

ADS: Il progetto nasce grazie a una particolare combinazione di eventi. Dopo essere tornato ad Avezzano nel 2016, ho avuto l’opportunità di approfondire la conoscenza dell’Abruzzo. Contestualmente, ho iniziato a collaborare con il “Laboratorio Artigiano Ennio Gentile”, un’associazione impegnata nel mantenere viva l’arte del restauro e dell’artigianato, preservando le storie degli oggetti.
È proprio all’interno dello spazio del laboratorio che ho concepito l’idea di creare un angolo dedicato alla lettura. Inizialmente avevo pensato di riempire una vecchia credenza con libri antichi, senza seguire un particolare ordine o tema. Poco dopo ho avuto l’intuizione di avviare una raccolta di volumi sulla Marsica.
Quest’idea si è poi concretizzata nel corso dei mesi, poiché c’era effettivamente una necessità di avere un punto di riferimento sulle fonti bibliografiche del territorio. È così che, dagli scaffali della vecchia credenza di via Monte Salviano, è iniziata la vita della Piccola biblioteca marsicana.
Nel 2020, con l’esplosione della pandemia, ho colto l’opportunità delle lunghe settimane di lockdown per progettare e costruire il sito web. Durante la ricerca di immagini da includere nelle pagine, ho scoperto che negli archivi digitali di tutto il mondo era conservato un autentico patrimonio di documenti e testimonianze che non avevo mai incontrato nelle pubblicazioni raccolte o nelle numerose pagine social dedicate. Da qui l’idea di ampliare le sezioni del sito per accogliere dipinti, incisioni, disegni, fotografie e mappe. Devo ammettere che è stato questo passaggio a espandere il mio orizzonte di ricerca e a conferire al progetto un taglio notevolmente più ampio e interessante.

Gianluca, anche la tua casa editrice Radici Edizioni nasce come legame con la “terra da cui veniamo, con le storie che ci hanno cresciuto e fatto diventare quello che siamo e con il passato utile e necessario a guardare il futuro con occhi sempre aperti.”. Per te le radici sono il punto da cui partire. Ci spieghi come è nato Radici Edizioni e quali sono gli obiettivi della tua casa editrice?

GS: Radici Edizioni nasce nella primissima fase post lockdown e viene al mondo – oltre che per un bisogno molto personale di rimettersi in gioco in un settore che avevo dovuto abbandonare troppo presto – perché a mio parere si era finalmente creato lo spazio per provare a “svecchiare” il racconto dei nostri luoghi. Non a caso ho sempre parlato di un progetto che voleva mettere al centro “nuove narrazioni territoriali”, pensate per rispettare gli studi fatti in passato da importanti personaggi della nostra cultura – che vanno ringraziati ancora oggi per tutto quello che hanno fatto e che continuano a fare – ma che fossero anche capaci di attirare nuovi lettori oltre a quelli che si dedicano a tali temi per professione. Da qui l’idea di puntare forte sugli albi illustrati che si ispirano alle storie del passato, su autori per lo più giovani e su una forte caratterizzazione dei progetti grafici di copertina; in modo da cercare di arrivare in maniera diretta a un pubblico forse spaventato dal troppo classicismo legato ai temi del folklore.

La figura di Vincent Massari ha fatto un po’ da trait d’union dei vostri progetti. Perché proprio Vincent? Che cosa nella sua figura vi ha conquistato?

GS: Quando Alessio, che avevo già avuto modo di apprezzare per la cura che mette in tutte le cose che fa, mi ha proposto la storia di Vincent è stato amore a prima vista. La sua partenza e l’arrivo negli Usa a ridosso del terremoto di Avezzano, le memorie dei pescatori del Fucino, i giornali pubblicati con e per gli emigranti… non avevo ancora idea di come scrivesse Alessio (tra l’altro benissimo) ma l’istinto mi ha fatto dire subito di sì, perché vedevo troppi collegamenti con l’idea che sta alla base della collana “Vite”, ossia quella di contestualizzare la biografia dei personaggi all’interno di un più ampio racconto di storia sociale dei territori da cui provengono.

ADS: La vita di Vincent Massari crea un ponte narrativo tra il periodo precedente e successivo al terremoto del 13 gennaio 1915, un momento cruciale nella storia della Marsica. Si dice che il sisma abbia raso al suolo non solo interi paesi, ma anche la memoria storica di questa regione. La vicenda di Vincent rappresenta un filo di continuità tra queste due fasi, dimostrando che, nonostante la frattura profonda causata dal terremoto, la storia non si è interrotta, ma ha invece generato molte altre storie, forse più difficili da recuperare, ma indubbiamente importanti da riscoprire.
Vincent è stato il progetto che mi ha permesso di approfondire il legame con Gianluca, di condividere con lui i chilometri di autostrade, stradine interne e strade fantasma dell’Abruzzo. Non ci siamo mai stancati di raccontare questa storia perché ad ogni presentazione c’era sempre qualcosa di interessante da approfondire, una nuova chiave di lettura o una curiosità legata al libro. L’attenzione dei lettori che seguono il progetto di Radici penso sia una grande medaglia al collo di questa avventura editoriale.

Mia madre, lo capii poco dopo, era convinta che se uno era in grado di leggere, allora poteva leggere qualsiasi cosa, in qualunque lingua2

Quanto secondo voi, il legame con le sue radici ha influenzato Vincent nella ricerca del riscatto e di una vita migliore in terra straniera? E quale è il vostro di rapporto con le radici?

ADS: Comprendere l’importanza e la necessità del senso di appartenenza per gli italiani che emigravano negli Stati Uniti ci permette di gettare luce sul contesto in cui Vincent ha combattuto e vissuto. Per coloro che intraprendevano il viaggio verso una terra così lontana, spesso senza conoscere la lingua e senza il supporto di parenti o compaesani che potessero accoglierli e orientarli, l’esperienza era permeata da un profondo senso di smarrimento, che assumeva contorni drammatici. Le radici rappresentavano un’ancora di salvezza, un’opportunità aggiuntiva per superare le numerose sfide; si manifestavano attraverso le comunità formate da compaesani che si riunivano periodicamente, le lettere ricevute da casa e smistate dai giornali italiani, e le bottiglie di vino fatte arrivare di nascosto nei circoli o nelle assemblee serali dei lavoratori.Vincent ha potuto fare affidamento sulla fiducia della Federazione Colombiana, guadagnata durante gli anni della sua presidenza e attraverso l’attività editoriale per “L’Unione”. Facendo leva su questa forza collettiva, è riuscito a entrare in politica e a ottenere risultati concreti per l’intero stato del Colorado. Questo legame non lo ha limitato, ma al contrario gli ha consentito di guardare lontano e progettare grandi imprese. È a questa idea che desidero associare anche il mio senso di appartenenza.

GS: C’è un passaggio importante nel libro, in cui Alessio si sofferma sulla frase “United we stand. Divided we fall”, utilizzata come sottotitolo della testata di uno dei giornali di Massari. Vincent mise in pratica questo motto con i suoi “paesani”, vicini e lontani, per affrontare le sfide che gli si stavano proponendo davanti e gli è servito senz’altro a farsi forza e a dare sostegno a tutti gli emigranti che leggevano le sue pagine. Ecco, facendo bene le dovute proporzioni, mi piace paragonare la sua esperienza alla mia, perché quello che sto cercando di costruire attorno a Radici è una comunità di persone che non siano per noi solo autori o autrici, ma che riescano a contribuire a una crescita costante del progetto attraverso la condivisione di idee e narrazioni e in questo, nonostante le esperienze vissute al di fuori della mia comfort zone, devo dire che i legami saldi costruiti nel tempo nella mia terra d’origine si stanno rilevando molto utili.

E dopo Vincent, quali progetti avete in serbo?

ADS: Personalmente sto ancora raccogliendo i frutti che la ricerca su Vincent mi ha regalato. Ho in programma di riordinare il materiale archiviato durante la ricerca sul campo negli Stati Uniti per renderlo accessibile agli appassionati. Poi c’è da continuare a far crescere la Piccola biblioteca marsicana, con nuovi contenuti che ho messo da parte in questi mesi e che aspettano solo di essere approfonditi. E poi chissà che durante le nuove ricerche non esca fuori una storia interessante da raccontare tra le pagine di un libro.

GS: Oltre a quello di sopravvivere in questo bellissimo ma maledetto settore editoriale intendi? Scherzi a parte, il piano editoriale per il 2024 è ormai praticamente chiuso e speriamo che l’anno prossimo possa rappresentare il momento giusto per provare a uscire un po’ dai confini regionali. Per questo vado di spoiler e annuncio qui che il nostro titolo di punta dell’anno prossimo sarà una raccolta di racconti di diciotto scrittrici americane contemporanee, tutte però con origini italiane. Diciotto donne che faranno i conti con il proprio passato familiare, in un vero e proprio viaggio attraverso il loro patrimonio identitario, sulle tracce della propria esperienza migratoria e all’interno delle due comunità, quella americana e quella italiana d’origine.

In qualche modo mi è sembrato che un lunghissimo filo ripercorresse il cammino all’indietro e attraversasse il tempo e lo spazio per riavvolgersi lungo il contorno del Fucino e abbracciare i pescatori.3

1 Alessio De Stefano, Vincent Massari Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni 2023 p.17

2 Idem, p.133

3 Idem, p. 157

Profumo, chiave della realtà

Photo by Vicky Ng on Unsplash

Odora di menta. Questo in Liguria è il massimo insulto che si può rivolgere ad una piantina di basilico, come spiega Laurel Evans in Liguria The Cookbook1. L’odore di menta indica che la pianta è troppo matura, che le foglie tenere hanno perso il dolce, delicato aroma della loro giovinezza e hanno assunto quel sapore pungente, più simile alla menta, tipico delle piante più vecchie2. Le nonne liguri, dedite alla preparazione del pesto, riconoscono questa caratteristica alla prima annusata e riescono così a selezionare le migliori foglie per ottenere una salsa con un gusto perfettamente bilanciato.

Nonostante la sua evidente utilità, in cucina come in altri ambiti, l’olfatto ha sempre avuto una cattiva reputazione, come se fosse la minore tra le facoltà umane, pur essendo, in realtà, un senso fondamentale, che ci mette in connessione con la realtà che ci circonda, rivelandone i dettagli intangibili. È stato senza dubbio il virus Covid-19, a causa del quale molte persone sono state colpite da anosmia (perdita dell’olfatto) a riportare l’attenzione sull’importanza di questo senso, come veicolo per la comprensione del mondo che ci circonda.

Harold McGee, famosissimo storico dell’alimentazione, vincitore del James Beard Award per il suo indispensabile trattato On Food & Cooking3, è rimasto talmente affascinato dall’esplorazione dell’olfatto da dedicargli il saggio Nose Dive. A Field Guide to the World’s Smell4 in cui compie una ricerca ben al di là del cibo, portando i suoi lettori in una vera e propria storia degli odori. McGee sottolinea la potenza dell’olfatto, che ci consente di percepire le molecole volatili: minuscoli pezzetti di mondo, così piccoli da riuscire ad allontanarsi dalla loro fonte e volare invisibili nell’aria che raggiunge il nostro naso.

Ciò che è subito evidente è che crescendo nel tardo ventesimo secolo, nel nostro mondo pre-impacchettato, sanificato e deodorato5 prestare attenzione agli odori è un’attività che compiamo molto di rado. Ma l’olfatto è uno strumento necessario per la nostra conoscenza della realtà, è un veicolo dei ricordi e, soprattutto, è un aspetto cardine della nostra esperienza del cibo. E questo a causa di un particolarissimo fenomeno biologico chiamato olfatto retronasale: la percezione olfattiva che avviene quando gli odori vengono trasportati dalla bocca al naso mentre si espira.

La verità è che noi esercitiamo l’olfatto in due modi. Annusiamo ciò che è all’esterno attraverso il nostro naso, ma percepiamo anche l’odore di quello che stiamo masticando nel retro della gola. Durante la masticazione e la deglutizione alcune molecole vengono rilasciate nell’aria presente nella bocca e sospinte nella cavità nasale, stimolando i recettori olfattivi: queste sono le sensazioni olfattive retronasali, che il nostro cervello collega a quelle gustative6. E l’unione di questi stimoli sensoriali di gusto e olfatto crea una meta-sensazione, quella che gli inglesi identificano come flavour, sostantivo la cui traduzione è sapore, ma anche gusto e aroma.

Pensiamo al pane. Il più semplice dei cibi al mondo: acqua, farina e un po’ di sale, con infinite possibilità, infiniti gusti e profumi. Per chi è caduto vittima della schiavitù della panificazione durante il lockdown, allenare l’olfatto è diventata una pratica quotidiana. Riconosciamo l’odore dolce, caldo, di banana del lievito madre in piena forma, pronto per essere usato; quello pungente, acido, di un lievito sofferente, collassato, che ha bisogno di un rapido rinfresco e l’odore invadente del pane che finalmente cuoce in forno, che riempie tutta la casa, ed è il profumo dell’orgoglio, della soddisfazione di aver creato da zero qualcosa di così atavicamente buono.

Ma perché percepiamo il gusto del pane come nettamente superiore a quello di altri prodotti che hanno gli stessi ingredienti, come i cracker ad esempio? È tutta una questione di aria e di olfatto retronasale e lo spiega perfettamente Michael Pollan nella puntata dedicata proprio all’aria7 della serie Cooked, tratta dal suo omonimo libro8. Tutte le bolle d’aria [del pane] contengono gas dice Pollan quindi c’è un aroma che sale attraverso il retro della bocca fino alle cavità nasali e lì viene assaporato. L’aria, e la fisiologia del nostro olfatto, rendono un semplice boccone di pane un’esperienza complessa, capace di imprimersi nella memoria come la madeleine di Proust.

Il pane mi piace che abbia un “naso” (un profumo) deciso, che la mollica accarezzi le papille gustative come una serie di onde che lambiscono la spiaggia lasciando un poi di schiuma ogni volta che si ritirano scrive Laura Lazzaroni ne La formula del pane9, confermando poeticamente come odorare il pane sia un passaggio obbligato per apprezzarne il gusto.

La particolarità dell’odore retronasale, che viene assimilato dal nostro cervello come sapore, è stata concretamente sfruttata nel 2016 da due ragazzi tedeschi, Tim e Lena, che per un progetto universitario10, in cui si richiedeva di unire design e neuroscienza, hanno creato il prototipo di una elegantissima e colorata borraccia. Una borraccia che eleva la semplice acqua con cui viene riempita attraverso dei pod aromatici, da posizionare nella parte superiore, vicino alla cannuccia. Bevendo si crea un’aspirazione per cui il pod rilascia il suo profumo e questa aria aromatizzata viene percepita dal nostro cervello come un sapore, ingannandolo e facendogli credere che stiamo bevendo un succo di frutta o un cocktail, quando si tratta invece di salutare acqua senza alcun additivo.

Mi viene in mente la scena di French Kiss11 in cui Kevin Kline fa annusare a Meg Ryan, in una stanza polverosa di un romantico casale nella campagna francese, alcune boccette contenenti bacche, erbe e terra, prima di farle degustare un bicchiere di vino rosso. Gli aromi appena odorati le consentono di ritrovare gli stessi sapori nel vino, come un’esperta sommelier. Da tutti questi esempi è chiaro come gli odori siano un collegamento con la realtà e con l’immaginazione, un ponte tra la nostra quotidianità e l’immenso mondo che ci circonda.

1 Laurel Evans, Liguria: The Cookbook. Recipes from the Italian Riviera, Rizzoli USA, 2021
2 idem, p. 63
3 Harold McGee, McGee on Food and Cooking: an Encyclopedia of Kitchen Science, History and Culture, Hodder & Stoughton, 2004. Traduzione italiana: Harold McGee, Il cibo e la cucina. Scienza, storia e cultura degli alimenti, traduzione di Federico Rapuano, Ricca Editore, 2016
4 Harold Mcgee, Nose Dive: A Field Guide to the World’s Smell, John Murray, 2020
5 Harold Mcgee, Nose Dive: A Field Guide to the World’s Smell, John Murray, 2020
6 Carlo Gibertini, Post-covid, la riscoperta dell’importanza dell’olfatto su La Cucina Italiana online, 2 marzo 2022
7 Cooked, stagione 1, episodio 3, Aria su Netflix
8 Michael Pollan, Cotto, traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi, 2020
9 Laura Lazzaroni, La formula del pane. Il metodo per imparare l’arte della panificazione domestica, Giunti, 2021
10 https://it.air-up.com/pages/air-up-infos
11 French Kiss di Lawrence Kasdan, 1995

Mon petit

Photo by Philipp Trubchenko on Unsplash

Mastico il mare, lo biascico dalle persiane che lasciano sgattaiolare porzionato il sole. Chi se ne fotte del sole. Ora di pranzo, puzzo di pesce spogliato del refrescume, pesce imborghesito da intingolo e fritto spesso. Non sbavo, sazia come sono di salsedine, salsedine e cracker mi nutrono ormai da giorni. Sputo il sale che mi cresce in bocca.

Le prime a sparire sono state le bouganville. Dal mio senso, dalle narici. Ho carezzato i fiori rosa, rosa cui hai affidato la cura di me, accuditela che è sola hai detto, e loro ubbidienti. Non recrimino, mon petit, le bouganville si danno affanno per me, me esiliata e me isolata ma ho te, lo so che io ho te, mon petit, non recrimino e le bouganville mi accudiscono ma non quel giorno, la mattina in cui hanno voltato i petali per non vedermi, chissà se offese da una mancanza che stupida non ho colto, le bouganville mi hanno espulso dal loro odore, e sputo il sale che troppo si addensa tra le labbra arse.

Poi il basilico, foglie piccine a cui dare recatto, a dirla come gli indigeni, il basilico odoroso che incontra i pinoli per far la muta in pesto, pesto pestato da un pestello nel marmo, anche se il nostro è da un frullatore ma non spifferiamolo ai vicini. Ti piace il pesto, il pesto leggero col basilico tritato fino fino, senza un pinolo o un pezzetto d’aglio intonso, che fa un profumo verde chiaro quasi fosse una crema, la crema che mi cospargo in volto la sera quando mi dici che so di buono, so di mamma anche se non abbiamo figli, noi due, e guai se il pesto ti mostra un granello grossolano, guai se dimentico di dare la crema che mi hai regalato, quella che sa di tua madre, se no sono piatti che schiantano e vasetti che rotolano come bocce.

Il secondo gran colpo, all’olfatto mio ignaro, è arrivato la sera dopo, quando sono stata al giapponese: né sushi, né salse e neppure i tempura dell’all-you-can-eat hanno ridestato le mie narici, la lingua gioiva e il palato a smistare e gradire, non come quando a Natale il virus si è fottuto i ravioli di tua madre contraccambiando con ageusia e anosmia.

Eppure. Nessun salmone, non tonno né l’amido del riso ha dato senso al mio naso, tutto bloccato quasi avessi il suggello invisibile che mi concentro a creare se mi tuffo sott’acqua. Ma io stavolta non lo volevo, il suggello!

Stai bene? avresti detto, se fossi stato con me, e io sì sì mon petit, mangio lenta per meglio assaporare, ma tu non c’eri e ogni boccone diceva anosmia.

La notte ho smanettato su internet, da allora so dare un nome al mio malessere. Ageusia è di chi non sente i sapori, e non ce l’ho posso stare tranquilla. Anosmia è invece ‘sta cosa che mi riguarda, ho cercato sul cellulare a luci spente mentre taceva la casa, questa casa dove mi hai portato senza che io volessi ma ti ho perdonato, ti perdono se ho mollato il lavoro tanto la salsedine ora mi appaga, mastico salsedine che corrode il cervello e a volte mi abituo. Ho cercato mentre la casa, sei tu questa casa che stringe blocca e controlla, mentre la casa giaceva, e ho scoperto che non sono le sole rifiutate dagli odori, queste narici asimmetriche ereditate da un padre che mi annusava dove non doveva. Ti stupiresti della sacca della spesa piena di paste al tartufo, acciughe cipolle e aceto, sapori densi che mi attraversano ormai solo la gola. Anosmia, si diceva, e graduale: ho fatto esami che ho dettato da internet al dottore, non ho insufficienza renale né epatica, non ipotiroidismo, non adenoidi ipertrofiche né tantomeno tumori. Mi ha aiutato Freud, quella notte: disturbo di conversione, dunque io somatizzo il mio conflitto tra ucciderti e amarti, la distanza dagli odori è la stessa che vorrei prendere da te.

Ma non lo faccio apposta, mon petit, se potessi fiuterei ancora il dolciastro dell’ozono nel vento che preannuncia la pioggia, respirerei i bromofenoli, i dictioptereni e il solfuro dimetile che danno afrore alla salsedine, annuserei la saliva che tu mi sputi in faccia e il sangue acre quando mi prendi a pugni.

Nulla di nulla, io sento.

Ricordi quando ci siamo incontrati, mon petit?, eri così innamorato che mi volevi mangiare, pur di tenermi con te. Io che ridevo e mi sentivo regina, benché di un regno, allora ignoravo, che dimora agli inferi.

Ti ho perdonato, mon petit mon coeur, ho perdonato tua madre che mi spoglia per capire se i miei fianchi sono buoni da figli, tua zia che mi fa quasi stuprare da un uomo per testare la mia fedeltà.

E perdono te, che non mi hai mai difeso e a cui ho creduto quando mi davi le colpe.

Ero brava al laboratorio, ricordi, la mia equipe studiava la turbinmicina, ti ho fatto una testa così quando ci siamo conosciuti, sugli effetti antifungini del microbioma marino contro la Candida auris, e tu ascoltavi, ti avvicinavi e ripetevi: migliorerai il mondo.

Ho migliorato il tuo mondo, sì, sono diventata il giocattolo su cui infierire, la tua “cosa”, come mi chiami, che nessun altro vuole.

Non mi pesa, mon petit, non mi pesa asservirmi a un re feroce quanto nessuno immagina. Ma ora c’è l’anosmia con me, non sento nulla più che col raffreddore. Non mi lavo da giorni, voglio un odore così mordace da trivellare il suggello al naso, non faccio che annusare e presagirmi il corpo, fiuto le ascelle e fra le dita dei piedi e perfino là sotto, infilo un dito sperando che qualcosa puzzi.

Poi annuso te, mon petit mon coeur, ti sniffo in ogni piega della pelle, tra gli occhi vitrei e il naso che si va sformando, discendo agli arti e raggiungo quelle zone che a volte ti eccitano, e talora tacciono.

Un’ora fa masticavo cracker e salsedine, e ti fissavo come fissavi me un tempo, e ho sobbalzato al trillo del citofono per un avviso di raccomandata, sei stato tu l’ultimo a suonare quel citofono, dieci giorni fa la mattina, rientrando cupo per quella che hai chiamato troia, non me la dà perché sa che viviamo insieme, gliel’hai detto tu, strillavi, di noi due? Io che arretravo e la mia voce si rendeva piccola, pur sempre conscia di ciò che stavo per fare. Mi ero preparata, mon petit, ti mangerei pur di non perderti, ma da quel giorno, il giorno delle bouganville, in pegno ho dato ogni opportunità di odore.

Sei qui davanti e io ti carezzo il corpo, e immagino aspro l’olezzo della formalina: l’ago ha forzato a trapassarti l’addome, non come col solito cortisone per l’asma, te ne stavi rigido e tenace con la macchietta in pancia che incoraggiava a insistere.

Adesso i giorni sono trascorsi troppi, già o tra un po’ il putrido saturerà la stanza. Non preoccuparti, mon petit, non avverto il lezzo, starai sul letto finché i vicini non irromperanno.

E ti perdono se non sento il tuo odore, né la salsedine che ci mastica il cervello.

Pagina 3 di 6

Powered by WordPress & Tema di Anders Norén