au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

Categoria: Poesia Pagina 1 di 2

 in tre movimenti (Apeiron)

Foto di Ihor Malytskyi su Unsplash

dice che tutti un giorno si va dice che siamo portati
in Brasile in grandi camere vuote dove nessuno
parla italiano anzi proprio non parlano affatto
con finestre da cui vedi solo la notte la luce
e non senti più il tempo e non senti neppure il dolore 
per cui se vi sembra che siamo ormai persi di testa
è per questo mi dice è che già ci troviamo in Brasile
in stanze rivolte a occidente perché da infinito
veniamo mi dice veniamo e a infinito torniamo

Ah, se non fossi astemia!, dopo il terzo
bicchiere ricorderei tutti gli accenti
masoretici, gli aoristi, la forma di alif maqsurah,
il frammento B1 di Anassimandro,
la playlist con la quale i trovatori
importarono l’amore in occidente. 

Ma anche a tè e gazose so che ci sei
pure se non so dove, Tebaldi, e ti parlo
come ora che invano provo a tradurre
Bereshit 1:2, dove è deserto e tenebra
e il suo respiro aleggia sulle acque. 

E anche da astemi tutto si confonde:
lettere che disegno e non so leggere,
verso Ostellato i campi d’immanenza,
vecchi giri in palude e le tue foto;
e maqqep si confonde con midbar,
la camera oscura con la notte.

Tu non credere mai nell’assenza
ti dico ora e ti dirò anche poi
con foto federe tazze con i tessuti
delle voci nei colori ma intanto 
finché son qui con la mia voce come
in certe poesie piene di verbi
al modo imperativo ora ti dico ascolta
nell’assenza non credere mai

Ciò che guarda modifica

Foto di Geetanjal Khanna su Unsplash

Ciò che guarda modifica
così la fisica quantistica
ma quanto 
anche lo sguardo che manca
muta la forma
mutila
scolpisce con l’assenza

Ti allontani
e qualcosa si allenta
muta mi guardo mutare
non il cuore battente 
o i polmoni
ma le piccole squame
sul corpo
ho creduto per poco
all’idea 
di nuotare di nuovo
sottacquea
ora ho chiaro i dettagli
quei tagli non erano 
branchie davvero

Avere anima anfibia
nel fango secco arida
anni minuti giorni
in assenza di sentire
in insensata attesa
di parole e di pioggia

Ci siamo riconosciuti negli occhi

Foto di Patrick Hendry su Unsplash
Ci siamo riconosciuti negli occhi
attraverso la nebbia 
delle otto del mattino
ci siamo sfidati a vicenda
a infilare collane di squame
perse lungo la strada
senza fare domande
spartendoci le briciole
siamo sopravvissuti per anni.
Se di questi talismani
assemblati coi ricordi
non resta nulla nelle tasche
però la soglia
l’abbiamo attraversata insieme
un palpito e un passo solo
tenendoci per mano.

Devo immaginare che la mia splendente cima

Foto di Phil Baum su Unsplash
Devo immaginare che la mia splendente cima
sia la notte rovesciata
contro il guscio troppo aperto. Dure
le parole. Il bacio piange
dal mio solo sguardo, il resto è neve
dove mi hai graffiata,
bestia di un aratro d’oro
che splendeva sopra un altro campo.
E a te piaceva,
come quando un fiore appare troppo
in alto, come quando il rosso
preme contro il cielo. 
E tu hai voluto,
perché il fiore stava sulla cima;
e io ho voluto come il fiordaliso 
arreso sul selciato
quando crede alle montagne,
quando è fiamme il petto
e scava anche l’aratro, poi
la pioggia,
che non cade se non cado adesso,
che non può bagnarmi
se per qualche assurdo caso del mattino
il mare si ritira
e ogni parola appare.

non se n’era mai visto uno

Foto di Max Gotts su Unsplash
non se n’era mai visto uno
prima di stanotte eppure 
nel buio pesto un passo
falso il mio braccio 
l’ha scontrato
lo scorpione 

il cuore ha soffiato
nelle orecchie il fiato 
nel naso e tremavo 
ma non lo sapevo

lo dice mio fratello 
la sua torcia
fissa la creatura scura
nella fessura del muro 
della rimessa, dice 
questo
ti ha pizzicato
è proprio questo
un destino 

Di notte

Ci sono le cose da fare 
al buio: schivare le rose 
tenere una torcia in tasca 
per ogni conquista una tacca 

attraversare il silenzio, correre 
dietro una benda scegliere 
unʼarma, rubare provviste 
seguire il branco, urlare 

ululare alla luna 
perdersi al Noce, dare 
dire la conta, trovare 
riparo dalla bestia feroce 

croce sul cuore 
giurin giurare. 

Prato notturno

Foto di Krzysztof Kowalik su Unsplash
Una notte piovigginosa
prendemmo la stradina oltre la casa.
Passammo le erbacce polverose del bordo strada –
alle nostre spalle le ortiche parlavano di giardini
dietro case che non abitavamo più, cortili
di altri anni, altre vite passate, altre me e te.
Alla fine del sentiero, giungemmo al prato
di fili d’orzo e centauree, ci distendemmo
tra steli più alti dei nostri occhi.
La testa all’indietro, i volti tavolozze alla pioggia,
vene e arterie a muschi e funghi, piedi radici verso il terreno.
Nel buio, un prato di presenze perdute,
ciò che era e ciò che non era più.

Notturno – con Barricate Misteriose

D’après “Les Barricades Mystérieuses”
Ordre 6ème de clavecin di François Couperin 
4 o 5 del mattino. Pioggia. Lascio il letto. Vado alla finestra. Al di là del buio, la città umida. Nel riflesso dei lampioni si fanno strada le nuvole. Verso un passaggio tra le montagne. I richiami delle beccacce di mare. In lontananza. Forse un gruppo. Volano sulla superficie del mare. L’avviso di un pericolo imminente. Più vicino. Il pianto. Dei gabbiani. Un suono staccato e poi legato. Sulla membrana della notte. Ritorno a letto. Sono un timpano. Tremo. Sono. Ancora. Da lontano un cuore astrale. Abbandona il movimento delle orbite. Mi raggiunge. Mi protegge. Sono fuori in una valle, respiro e nient’altro. Piove. Tic tac della sveglia. Frana di passi. Gesti compressi. Rubinetti che si chiudono, porte, strade pedonali, scarpe, scarpe, dettagli di oggetti frantumati, cerchi di vite che si rincorrono. Ogni somiglianza è un campo di suoni lontani. Le palpebre. Mi riparano. Quiete. Quiete prima del risveglio.

La verticale

Foto di Costea Alexandra su Unsplash

Da bambina
andavo in verticale
a testa in giù
guardavo il mondo rovesciato
in equilibrio
sopra un duro orizzonte

i capelli sfioravano la terra
in giardino, i vermi
mi salutavano
con un breve inchino del corpo

camminavo sulle dita
come camminano gli uccelli

a tutti parlavo, alle formiche
agli scarafaggi, alle piccole
fragole che ingiallivano
senza mai diventare rosse

e le gambe traballavano un poco.

Crescevo, nella grazia di Dio,
con moto inverso, i piedi
solleticando il cielo, interferendo
col volo nervoso delle mosche

sotto la mezzaluna delle unghie
si formava il terriccio,
le dita sempre più a fondo
crescevano nella terra
come radici
si allungavano dentro

io poi, con quei piedi a mezz’aria,
sono andata nel mondo
e quel mondo l’ho riportato alle mie mani
e ogni volta che l’ho detto
ogni volta che l’ho pronunciato
l’ho trovato sempre
bene ancorato in quel giardino.

Terraferma

Poi veniva l’estate
col verde negli occhi
fuori era un pieno
di rondini, api
e tempo ancora.

La dama per colazione
al mattino, il tris,
il conto spaiato
delle monete
da cinquecento lire.

Mi crescevi nel cuore
come un padre,
le tue radici
diventando mie.

Tu riponevi in me
l’umano, il sogno
la terraferma e il volo,
l’ambizione di essere
solo ciò che sono.

Allora ero argilla,
seme, voce molle
che imparava la tua
e di tutto
facevamo catalogo:
mostravi e io
vedevo studiavo bevevo
con la gola arsa della pianta.

Non sapevo del segno
impresso a calce
contro le rovine venture
– oggi chi sono:
femmina e voce
gli occhi due fari
per guardare meglio.

(non lasciarmi andare)

Photo ©  Paola Casali

(non lasciarmi andare)

Mi sveglia la canzone di Alabama
allungo le gambe alla parete.
Tra fili d’edera e fiori di gelsomino
il tuo sorriso. Poi i tuoi occhi.

Well, show me the way.

Ti incontro nei volti, in un film, nei libri
tra la schiuma di una birra,
nella fetta di pane e marmellata.
Fai male sin dal mattino.

Un sasso scende lento nella gola
lo sguardo grigio attraversa la pelle.
Sottraggo al vocabolario di negazione
un appiglio per saltare l’invisibile confine.

Ça suffit mon amour.

Coi sì, ma invece no, ci sei e poi non ci sei
dondolii che superano i cieli
bruciano il paradiso e affogo con le stelle
potrei andare via, scappare.

Tingere il tempo con la vernice tra i capelli
andare a Telendos
distendermi sotto una tamerice
strappare le radici amare.

Rinascere, farmi madre di me.
Ma stai scritto sulla mano,
nel sangue e forse ancora
nei mille milioni di volteggi del mondo.

Non lasciarmi andare.

Ai panni

Foto di Mulyadi su Unsplash
Ai panni
è bastato un bucato;
al cuore una compressa,
alla pancia un pianto vero.

Unico rovello?
Eradicarlo dal cervello.

Lì senza un rumore
incanto senza tempo oltre il dolore
traccia persistente (tu, piuttosto, assente!)
indelebile 
incolore
l'odore che rimava col tuo amore.

L’odore della sera

Foto di Masaaki Komori su Unsplash
L’odore della sera è per me da sempre

la pompa gialla dell’acqua
slegata intorno ai piedi,

l’odore impastato di terra,
di fogna, di steli.

Serpente che avvolge la casa
a nutrire il giardino,

rituale che chiude la vita del giorno, di tutte le cose.

Pagina 1 di 2

Powered by WordPress & Tema di Anders Norén