Cella
la vita
imparata coi palmi
un’ellisse
di ripetizioni di minuzie
tralasciando
le foreste di angoli in fiamme
lì fuori.
La luce
che entra comunque
ha portato il baratto
della libertà dei secondini
per gli occhi degli ergastolani
garze lente
sulle dita del giorno
esercizi complessi
contro l’indulgenza.
S’impara piano
la compressione del torace.
Ordine
Dato
tutto il dolore
dato
verrà comprato un quartino
e le pareti divisorie sfondate.
Un muratore romeno
e la bottiglia di plastica
bianca per metà
aspetteranno la paga.
Nelle nostre tasche
le costole di corvo
non saranno diventate
ancora sonanti.
Ridai a noi
come ai nostri debiti d’ossigeno
una parte di pace
ordinata da lontano.
Paroxetina 20 mg
per dare un nome al citofono.
Vale come agnus dei a voi,
Oh corrieri, vi prego suonate
tutte le campane delle vostre strade.
Trema
in volo la falena.
È l’esito del tempo,
ma l’ansito dura poco.
Non vado avanti, mi umilia
lo strappo, la ripetizione
patologica del mio cinismo.
Per amore tuo, non smetto
di parlare. Poi dico, parla tu.
C’è qualcosa, viso nel tuo viso
che ricorda la falena
lontana dai tremori,
ma non passo, non passo
la collina sonnambulo
mentre lavoro per voi.
dice che tutti un giorno si va dice che siamo portati in Brasile in grandi camere vuote dove nessuno parla italiano anzi proprio non parlano affatto con finestre da cui vedi solo la notte la luce e non senti più il tempo e non senti neppure il dolore per cui se vi sembra che siamo ormai persi di testa è per questo mi dice è che già ci troviamo in Brasile in stanze rivolte a occidente perché da infinito veniamo mi dice veniamo e a infinito torniamo
Ah, se non fossi astemia!, dopo il terzo bicchiere ricorderei tutti gli accenti masoretici, gli aoristi, la forma di alif maqsurah, il frammento B1 di Anassimandro, la playlist con la quale i trovatori importarono l’amore in occidente.
Ma anche a tè e gazose so che ci sei pure se non so dove, Tebaldi, e ti parlo come ora che invano provo a tradurre Bereshit 1:2, dove è deserto e tenebra e il suo respiro aleggia sulle acque.
E anche da astemi tutto si confonde: lettere che disegno e non so leggere, verso Ostellato i campi d’immanenza, vecchi giri in palude e le tue foto; e maqqep si confonde con midbar, la camera oscura con la notte.
Tu non credere mai nell’assenza ti dico ora e ti dirò anche poi con foto federe tazze con i tessuti delle voci nei colori ma intanto finché son qui con la mia voce come in certe poesie piene di verbi al modo imperativo ora ti dico ascolta nell’assenza non credere mai
Ciò che guarda modifica così la fisica quantistica ma quanto anche lo sguardo che manca muta la forma mutila scolpisce con l’assenza
–
Ti allontani e qualcosa si allenta muta mi guardo mutare non il cuore battente o i polmoni ma le piccole squame sul corpo ho creduto per poco all’idea di nuotare di nuovo sottacquea ora ho chiaro i dettagli quei tagli non erano branchie davvero
–
Avere anima anfibia nel fango secco arida anni minuti giorni in assenza di sentire in insensata attesa di parole e di pioggia
Ci siamo riconosciuti negli occhi
attraverso la nebbia
delle otto del mattino
ci siamo sfidati a vicenda
a infilare collane di squame
perse lungo la strada
senza fare domande
spartendoci le briciole
siamo sopravvissuti per anni.
Se di questi talismani
assemblati coi ricordi
non resta nulla nelle tasche
però la soglia
l’abbiamo attraversata insieme
un palpito e un passo solo
tenendoci per mano.
Devo immaginare che la mia splendente cima
sia la notte rovesciata
contro il guscio troppo aperto. Dure
le parole. Il bacio piange
dal mio solo sguardo, il resto è neve
dove mi hai graffiata,
bestia di un aratro d’oro
che splendeva sopra un altro campo.
E a te piaceva,
come quando un fiore appare troppo
in alto, come quando il rosso
preme contro il cielo.
E tu hai voluto,
perché il fiore stava sulla cima;
e io ho voluto come il fiordaliso
arreso sul selciato
quando crede alle montagne,
quando è fiamme il petto
e scava anche l’aratro, poi
la pioggia,
che non cade se non cado adesso,
che non può bagnarmi
se per qualche assurdo caso del mattino
il mare si ritira
e ogni parola appare.
non se n’era mai visto uno
prima di stanotte eppure
nel buio pesto un passo
falso il mio braccio
l’ha scontrato
lo scorpione
il cuore ha soffiato
nelle orecchie il fiato
nel naso e tremavo
ma non lo sapevo
lo dice mio fratello
la sua torcia
fissa la creatura scura
nella fessura del muro
della rimessa, dice
questo
ti ha pizzicato
è proprio questo
un destino
Di notte
Ci sono le cose da fare
al buio: schivare le rose
tenere una torcia in tasca
per ogni conquista una tacca
attraversare il silenzio, correre
dietro una benda scegliere
unʼarma, rubare provviste
seguire il branco, urlare
ululare alla luna
perdersi al Noce, dare
dire la conta, trovare
riparo dalla bestia feroce
croce sul cuore
giurin giurare.
Una notte piovigginosa
prendemmo la stradina oltre la casa.
Passammo le erbacce polverose del bordo strada –
alle nostre spalle le ortiche parlavano di giardini
dietro case che non abitavamo più, cortili
di altri anni, altre vite passate, altre me e te.
Alla fine del sentiero, giungemmo al prato
di fili d’orzo e centauree, ci distendemmo
tra steli più alti dei nostri occhi.
La testa all’indietro, i volti tavolozze alla pioggia,
vene e arterie a muschi e funghi, piedi radici verso il terreno.
Nel buio, un prato di presenze perdute,
ciò che era e ciò che non era più.
Notturno – con Barricate Misteriose
D’après “Les Barricades Mystérieuses”
Ordre 6ème de clavecin di François Couperin
4 o 5 del mattino. Pioggia. Lascio il letto. Vado alla finestra. Al di là del buio, la città umida. Nel riflesso dei lampioni si fanno strada le nuvole. Verso un passaggio tra le montagne. I richiami delle beccacce di mare. In lontananza. Forse un gruppo. Volano sulla superficie del mare. L’avviso di un pericolo imminente. Più vicino. Il pianto. Dei gabbiani. Un suono staccato e poi legato. Sulla membrana della notte. Ritorno a letto. Sono un timpano. Tremo. Sono. Ancora. Da lontano un cuore astrale. Abbandona il movimento delle orbite. Mi raggiunge. Mi protegge. Sono fuori in una valle, respiro e nient’altro. Piove. Tic tac della sveglia. Frana di passi. Gesti compressi. Rubinetti che si chiudono, porte, strade pedonali, scarpe, scarpe, dettagli di oggetti frantumati, cerchi di vite che si rincorrono. Ogni somiglianza è un campo di suoni lontani. Le palpebre. Mi riparano. Quiete. Quiete prima del risveglio.
Da bambina andavo in verticale a testa in giù guardavo il mondo rovesciato in equilibrio sopra un duro orizzonte
i capelli sfioravano la terra in giardino, i vermi mi salutavano con un breve inchino del corpo
camminavo sulle dita come camminano gli uccelli
a tutti parlavo, alle formiche agli scarafaggi, alle piccole fragole che ingiallivano senza mai diventare rosse
e le gambe traballavano un poco.
Crescevo, nella grazia di Dio, con moto inverso, i piedi solleticando il cielo, interferendo col volo nervoso delle mosche
sotto la mezzaluna delle unghie si formava il terriccio, le dita sempre più a fondo crescevano nella terra come radici si allungavano dentro
io poi, con quei piedi a mezz’aria, sono andata nel mondo e quel mondo l’ho riportato alle mie mani e ogni volta che l’ho detto ogni volta che l’ho pronunciato l’ho trovato sempre bene ancorato in quel giardino.
Terraferma
Poi veniva l’estate col verde negli occhi fuori era un pieno di rondini, api e tempo ancora.
La dama per colazione al mattino, il tris, il conto spaiato delle monete da cinquecento lire.
Mi crescevi nel cuore come un padre, le tue radici diventando mie.
Tu riponevi in me l’umano, il sogno la terraferma e il volo, l’ambizione di essere solo ciò che sono.
Allora ero argilla, seme, voce molle che imparava la tua e di tutto facevamo catalogo: mostravi e io vedevo studiavo bevevo con la gola arsa della pianta.
Non sapevo del segno impresso a calce contro le rovine venture – oggi chi sono: femmina e voce gli occhi due fari per guardare meglio.
Mi sveglia la canzone di Alabama allungo le gambe alla parete. Tra fili d’edera e fiori di gelsomino il tuo sorriso. Poi i tuoi occhi.
Well, show me the way.
Ti incontro nei volti, in un film, nei libri tra la schiuma di una birra, nella fetta di pane e marmellata. Fai male sin dal mattino.
Un sasso scende lento nella gola lo sguardo grigio attraversa la pelle. Sottraggo al vocabolario di negazione un appiglio per saltare l’invisibile confine.
Ça suffit mon amour.
Coi sì, ma invece no, ci sei e poi non ci sei dondolii che superano i cieli bruciano il paradiso e affogo con le stelle potrei andare via, scappare.
Tingere il tempo con la vernice tra i capelli andare a Telendos distendermi sotto una tamerice strappare le radici amare.
Rinascere, farmi madre di me. Ma stai scritto sulla mano, nel sangue e forse ancora nei mille milioni di volteggi del mondo.