fuoripunto.

au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

Giura

Foto di Annie Spratt su Unsplash

Il falso è l’unica cosa che sono in grado di giurare, l’ho imparato da bambina.
E dire che mamma si è sbattuta un sacco per insegnarmi a non dire le bugie, si è sforzata proprio tanto per assicurarsi che imparassi a dire sempre solo e soltanto le cose come stanno. Si è sforzata tanto che spesso, dopo lo sforzo, le veniva l’emicrania, un’emicrania soffocante diceva lei, e spariva in camera da letto, al buio. Ogni volta mi diceva che non era colpa mia, ma dello sforzo di tenere lontane le bugie. «Giura», le rispondevo io, ma lei rimaneva in silenzio e non giurava. Mi accarezzava la faccia dalla fronte scendendo verso il naso mi si chiudevano gli occhi e lei si ritirava nel buio. 
Ci ho ripensato decine di volte e sono certa che non potesse essere altro che colpa mia.
Mi ricordo di quella volta che mamma si sforzò affinché io fossi in grado di dire solo e soltanto le cose come stavano, pur di non dire una bugia alla nonna. Era pomeriggio, faceva caldo ma non troppo e c’era quel vento tiepido che spira dal mare e fa strofinare le tapparelle di plastica dentro le guide metalliche che stanno sui tre lati delle finestre. Quella volta papà era uscito presto, poco dopo pranzo. 
«Esci presto?»
«Sì, ho da fare in studio».
«Torni a cena?»
«No, non vedi che ho il borsone?»
«Vedo che hai il borsone ma torni per la cena?»
«No! Ho il calcetto, non torno per cena». Parlò, ma con me. «Dove ha la testa tua madre?» Mi salutò pure e non sorrise, né a me né tantomeno a lei.
«Torna presto», ma tanto la porta dell’ascensore già stava cigolando.
Il rubinetto rimase aperto per tutto il tempo e, per tutto il tempo, mamma parlò e ascoltò tenendo le mani sotto il getto fitto dell’acqua bollente. Restò a guardarsi la macchia rosata che si allargava sulla pelle bagnata, ma non fece niente. E allora mi avvicinai io al lavandino, chiusi in fretta il rubinetto e le coprii le mani con uno strofinaccio da cucina, morbido.
«Faccio io, lascia lascia». E mi accarezzò la faccia con tutto il palmo aperto, bagnato, facendolo scorrere dalla fronte scendendo verso il naso. «Ma dove ho la testa?» E si mise a sedere, con le mani nascoste dalla spugna umida, sulla sedia pieghevole che stava sotto la finestra. La cucina rimase com’era, in disordine – succedeva spesso, perciò predissi che, al suo ritorno, papà avrebbe messo gli occhi nella stanza, avrebbe sbuffato ripetutamente, sarebbe andato dritto verso la credenza in sala da pranzo, avrebbe spalancato le ante e avrebbe controllato la boccetta girandosi verso il lampadario e inclinandola in aria. 
Presi i miei quaderni e, nella cucina in disordine, mi sistemai sul lato corto del tavolo, vicino ai coperchi di acciaio lasciati a sgocciolare, di fronte a mamma, che si guardava le mani, nascoste. Un pezzo di pomeriggio trascorse, non so dire quanto, ma solo che avevo finito i compiti e che avevo tra le mani il telecomando e che la tv strillava la sigla di Lady Oscar, quando il telefono, dal corridoio, si sovrappose alla televisione.
Contai quattro squilli, continuando a guardare mamma che restava in silenzio e si guardava le mani. Solo quando saltai giù dalla sedia e corsi in corridoio, mamma si mosse.
«Di’ che non posso venire al telefono, chiunque sia. Ho le mani nella terra», disse forte. Dal corridoio attraverso la porta riuscii a vederla: stava in piedi davanti al tavolo della cucina, con le mani infilate e ferme nella terra che riempiva il vaso di gerani che tenevamo sulla finestra -lo aveva appoggiato vicino ai coperchi, proprio sopra i miei quaderni.
Mi schiacciai la cornetta contro l’orecchio e non feci altro che dire solo e soltanto come stavano le cose, che non poteva venire al telefono, che aveva le mani nella terra. «Sì, nonna, le dico di chiamarti quando ha finito», aggiunsi fissando la rotella del telefono e riappoggiai la cornetta sull’apparecchio. Quando dal corridoio cercai di nuovo con lo sguardo mamma, di nuovo lei non si fece trovare. 
Tornata in cucina la vidi che si era già riseduta e si guardava di nuovo le mani, girava con due dita la fede intorno al suo anulare sinistro, sempre più magro. Le mani erano sporche di terra, la stessa dalla quale aveva sfilato le dita e che aveva seminato sul tavolo e sul cuscino di una sedia e sul pavimento e che, ora, le stava sporcando pure la gonna. Raccolsi lo strofinaccio che stava sul pavimento davanti ai suoi piedi e lo bagnai sotto l’acqua tiepida, tornai da mamma e feci per pulirle le mani. «Lascia lascia, faccio io», mi disse senza guardarmi e si strofinò le mani sulla gonna. Si alzò, facendo leva con le mani sui braccioli della sdraio, che rimasero umidi e sporchi. «Te ne vai?», chiesi alla sua schiena. 
«Sì, è l’emicrania».

«Hai mangiato?» Mi svegliò la mano di papà che mi scuoteva la spalla.
Spensi il televisore. 
«Che è successo qua dentro?»
Chiusi i quaderni, che stavano ancora sul tavolo con i coperchi e la pianta e la terra, e li misi nello zaino.
«E pulisciti la faccia». 
Mi strofinai una guancia con lo strofinaccio, quello morbido, per togliere la saliva che mi era colata dalla bocca.
«Tua madre è a letto, vestita, e qua c’è il solito casino. Anzi no, di più».
Mi misi a raccogliere i coperchi e la terra mentre lui camminava verso la  credenza.
«Non fare rumore, vieni qua».
Lo raggiunsi, coi coperchi in mano e la bocca stretta.
«Ha preso le gocce?»
La bocca mi si aprì un poco, muta.
«Ti ho chiesto solo questo, a papà. Di guardarla quando non ci sono. Allora?»
«L’ho guardata».
«E le gocce le ha prese?» – inclinò la boccetta per aria, tenendola per il tappo tra il pollice e l’indice, la scosse una volta e poi di nuovo.
Io mi misi a pensare al liquido opaco che faceva le onde dentro la boccetta scura. Per un pelo non mi scappò da ridere e mi vergognai. Guardai il pensile aperto alle spalle di papà, mi misi a contare le scatolette di tonno. Il mio stomaco borbottò. « Me ne apri una?» e indicai il mobile aperto alle sue spalle..
Papà si girò, ma dalla parte opposta, verso il lampadario e insisté a guardare il vetro bruno contro la luce bianca.  «Tu l’hai vista?» E sbuffò.
Feci per rispondergli, il fiato prese la rincorsa e le spalle mi si alzarono. Muta.
«Devi starci attenta, capito? Io posso contare solo su di te».
Le mie spalle caddero e pure un coperchio, secco.
«Allora, le ha prese, vero?»
«Mh» e guardai il coperchio.
«Giura!»
Io non risposi, lui mi credette.

Giugno mi piaceva per le giornate lunghe e per le fughe al porto, a fare i tuffi a bomba e le gare a chi resta sott’acqua più a lungo. Delle femmine, io ero quella coi polmoni più grandi e ne andavo fiera perché avevo pure l’asma e con l’asma non è da tutti stare sotto così tanto, mi diceva papà quando mi cronometrava nella vasca da bagno.
Quel giorno di giugno, quando tornai a casa dal porto, prima ancora che facessi la doccia, papà mi portò in sala da pranzo. «Facciamo un discorso». Aprì la credenza, prese la bottiglietta opaca e me la mise tra le mani. «Vedi se riesci ad aprirla». 
Io provai a ruotare il tappo nero ma mi sembrò incollato. Feci per restituirgli la bottiglietta, mentre le mie spalle si alzavano. 
«Devi spingere sul tappo e ruotare, contemporaneamente». 
Le spalle caddero e io obbedii. La boccetta si aprì subito, al primo colpo. Mi sentii fiera, come una femmina con l’asma che sta sott’acqua più dei maschi.
«Sapevo che ne eri capace». Papà sorrise. «D’ora in poi, visto che non vai a scuola, conto su di te per le gocce di mamma». 
«Che?», la bocca mi si allargò e riuscii solo a pensare che non sarei più potuta scappare al porto tutte le volte che volevo.
«Ne devi contare venti, mi raccomando, giuste giuste. Gliele metti in un bicchiere d’acqua, mi raccomando, poca. E guardi, mi raccomando, bene, che lei le prenda tutte».
«Mh». La bocca mi si strinse ma papà non la vide. Era già con tutti e due i piedi fuori dalla stanza. 

Quella mattina mamma proprio non veniva avanti, come avrebbe detto zia Bice, che viveva da tanto tempo al nord. Era lunedì, papà era andato a lavorare e come al solito mi aveva svegliata presto perché mi lavassi e vestissi e, guardassi mamma.
Mancava poco alle undici e morivo dalla voglia di andare al porto a fare i tuffi a bomba, speravo che mamma si alzasse, che fosse di buon umore almeno un po’, abbastanza da venire con me sugli scogli a contare i secondi che sapevo stare sott’acqua. Andai in camera da letto e alzai appena un po’ le tapparelle, che entrasse qualche striscia di luce. La trovai sveglia.
«Andiamo al porto?»
«Dove sono le gocce, a mamma?»
Le dissi che erano in cucina, dove mi aveva detto di tenerle papà, che avrei preparato la colazione e poi gliele avrei date, come aveva detto papà. Mi rispose di dargliele prima della colazione, che non riusciva ad alzarsi altrimenti. Uscii dalla camera e tornai poco dopo, con un bicchiere d’acqua, poca, e le gocce.
Mamma si mise a sedere, ma ancora tutta dentro il letto. Prese il bicchiere con una mano mentre io svitavo il tappo nero della boccetta, premendo forte e ruotando. 
«Ti sei fatta grande proprio». Sorrise, ma io non feci in tempo a vederla.
«Dieci. Undici. Dodi…»
«Faccio io, lascia. Lascia». Mi prese la mano in un modo che pareva una carezza – e non me la ricordavo – e mi tolse la boccetta. «Tu fammi un regalo, prepara il caffè».
«Con la cremina?»
«Sì, con la cremina».
Uscii dalla stanza. Tornai dopo poco, l’odore del caffè quasi non si sentiva più. «Ma’,  si raffredda. Vieni?» 
Si era distesa di nuovo e teneva gli occhi chiusi. 
Le scossi un braccio.
«Cinque minuti, a mamma». Aprì gli occhi e li richiuse subito, con un sospiro. 
Io tornai in cucina, non versai il caffè ma assaggiai la cremina. La assaggiai così tante volte che la finii tutta. Toccai la caffettiera, che si era raffreddata bene. Versai tutto il caffè giù nel buco del lavandino. Quando cominciò il telegiornale del Due, decisi di andare di nuovo a chiamare mamma.

Girai la rotella del telefono tutte le volte che serviva a comporre il numero dello studio di papà, tenendo la cornetta schiacciata contro la faccia.
«Mamma non si è alzata».
«Dorme?»
«Ha gli occhi chiusi».
«Vai a chiamarla». 
«Mamma!», gridai. E la spinsi tutta, forte più che potei. Tornai in corridoio, ripresi la cornetta: «Non si sveglia. Vieni, non si sveglia».
«Le hai dato le gocce?» 
«Sì».
«Venti, giuste giuste?»
«Vieni, papà». La faccia mi si bagnò tutta, a cominciare dagli occhi.
«Venti, giura!», insisté papà. Presi a calci il portaombrelli, forte. 
«Mh». Di nuovo presi a calci il portaombrelli, più forte, tanto nessuno mi vedeva… «Vieni papà. Sbrigati!». Gridai.

Mi succede spesso di sognarla mia madre addormentata in quella scatola di legno così tanto più grande di lei, in cui l’ho guardata per l’ultima volta. Sogno che apre gli occhi e pure lei mi guarda. Sorride, abbastanza a lungo da lasciarsi vedere, allunga un braccio verso il mio viso e mi accarezza la faccia col palmo aperto, dalla fronte fin giù sopra la bocca. «Non è colpa tua», dice mentre lo fa. «Giura?», le chiedo io ad occhi chiusi e quando li apro lei non si fa trovare.

Un’assenza bruciata dal sole

Foto di Feliphe Schiarolli su Unsplash

Nella mia classe del liceo, all’inizio del quarto anno, arrivò una ragazza nuova, G.. Veniva dalla classe che ci precedeva, una classe piccolissima, erano in 10 o 11 al massimo, tutte donne. Molto diverse da noi, che eravamo tanti, compositi, casinari. Quelle della quinta, stipate per via del numero insolito nell’auletta più striminzita dell’intero edificio, non si sentivano mai. Niente confusione, niente clamori di alcun genere, nessun episodio che facesse parlare di loro, chiuse lì dentro spesso anche a ricreazione. G. era così anche lei, come le sue compagne. Ma l’avevano bocciata, unica di quelle poche, e finì con noi.
Non legò praticamente con nessuno, in un’età feroce nella quale ci si annusa per riconoscersi, lei aveva un altro odore. Al nostro naso, in realtà, G. non sembrava sapere di niente. Veniva da un paese di montagna di quelli che per le scuole, l’ospedale, il lavoro confluiscono verso la mia città, uno dei borghi più distanti: tre quarti d’ora di corriera e la strada ghiacciata d’inverno. Mi ricordo che la prendevamo un po’ in giro perché da lei, lassù, la tv non prendeva il segnale di Italia Uno: adesso non saprei nemmeno dire se fosse vero o no, può darsi, o può essere che fosse solo un modo stupido di atteggiarci a cittadini davanti a lei che veniva da un paesello.
Arrivava in silenzio tra i primi, appena scesa dal pullman, rimaneva in silenzio nel suo banco, a fare cosa non me lo ricordo. Perché nemmeno io, che pure mi davo arie da leader, ero rappresentante d’istituto, mi impegnavo nell’associazionismo studentesco, e mi sforzavo di esserci, per tutti, sempre, a lei, non facevo caso quasi mai.
L’anno dopo, in quinta, era già primavera inoltrata, la maturità alle porte, arrivammo alla sesta ora e una professoressa, forse quella d’inglese, volendo interrogare, chiamò lei. Ma lei non c’era, il suo banchetto singolo (li avevamo tutti così) in fondo all’aula era vuoto, la sedia spostata, sul piano un libro chiuso, niente zaino, nient’altro. La professoressa ci chiese dove fosse finita la nostra compagna, nessuno seppe dirlo. Mandò qualcuno a cercarla in bagno, niente. Poi, dopo qualche minuto, una ragazza di quelle sedute in fondo anche lei, ebbe il coraggio di dire a voce alta: «Professore’, secondo me G. oggi non è venuta proprio». Rimanemmo muti per qualche secondo.
Aveva ragione. G., in classe, quel giorno, non c’era mai stata, il libro era rimasto lì dal giorno prima. Il docente della prima ora l’appello non l’aveva fatto, si era limitato a un «Tutti presenti?» al quale, evidentemente, avevamo risposto di sì. Sul registro, quindi, l’assenza non era stata segnata. E in testa non l’avevamo segnata nemmeno noi.
G. era a casa sua, raffreddata. Al rientro, forse, nessuno le raccontò di quello che era successo. All’esame di stato fu bocciata, l’anno dopo non si iscrisse, la maturità non la prese più, credo. Di lei non seppi più nulla.
Oggi non so dove sia, cosa faccia. Sono passati venticinque anni da quella mattina. A distanza di tanto tempo, mi sembra ancora, e in modo distinto, una delle cose più sottilmente violente di cui sia stato complice. Quel non accorgercene, quel non sentire, quel non vedere: di come cancellammo G. per un giorno, in realtà per molto più tempo, sento ancora il rimorso.
G. mi è tornata a pesare sul cuore, l’estate scorsa. Un paio di anni fa, più o meno di questi tempi, abbiamo cominciato il progetto di allargare la nostra casa, un appartamento grande, ma non più sufficiente per starci comodi tutti, mia moglie, io e i nostri tre figli. Siamo riusciti ad acquistare l’interno sopra il nostro, lo abbiamo fatto ristrutturare, e poi a giugno scorso è cominciato il ricongiungimento. Finita la scuola abbiamo sfollato i figli a casa dei nonni in Puglia, abbiamo liberato l’appartamento vecchio, e mentre tutto era ancora un cantiere, io e mia moglie ci siamo accampati nel paio di stanze già finite al piano nuovo. È stata un’esperienza di fatica rara, straniante. La polvere, la stanchezza, il viavai settimanale verso i figli distanti trecento chilometri, il pensiero dei soldi (tanti) che stavamo spendendo, gli imprevisti prevedibilissimi di ogni ristrutturazione.

Fino al buco.

A luglio, quando ormai la prostrazione era oltre i livelli di guardia, gli operai hanno iniziato a demolire il pavimento, a pochi metri dalla stanza dove dormivamo. Hanno rimosso il massetto, hanno segato il travetto e hanno aperto il foro dal quale sarebbe poi passata la scala interna per collegare i due piani. Era il momento decisivo: due anni di ansie, di sacrifici, stavano per finire: le case stavano per diventare casa, una.
E invece, davanti a quello squarcio, ho perso il sonno.
La prima notte sono rimasto in piedi sul ciglio di quel temporaneo burrone domestico, ho guardato giù, nel vuoto del cantiere sottostante, coi calcinacci ancora a terra, e dentro ci ho visto un vuoto più profondo, più pauroso. La stanchezza, l’inadeguatezza. Soprattutto, la coscienza improvvisa che la terra possa aprirsi all’improvviso sotto i tuoi piedi, senza avvisaglie, senza permesso, senza lasciarti il tempo di dire o fare niente. E farti sparire, senza lasciare segni.
Quella notte, improvvisamente, ho ripensato a G., e a come la resi assente esattamente come stavo temendo di diventare assente io in quel buio, in quel buco.

«Chi ti cerca è il sole, non ha pietà della tua assenza
il sole, ti trova anche nei luoghi casuali dove sei passata,
nei posti che hai lasciato
e in quelli dove sei inavvertitamente andata
brucia
ed equipara al nulla
tutta quanta la tua fervida giornata».

Sono i primi versi1 di una delle ultime poesie di Mario Luzi, dalla raccolta pubblicata poco prima che morisse, novantenne. Un’assenza bruciata dal sole. Mangiata dall’oblio. Digerita dal nulla.
Il pensiero del vuoto mi ha perseguitato per i dieci giorni successivi.
Poi è arrivata la scala.
L’hanno portata smontata. Due lunghe travi di metallo, sagomate a scalini, più la struttura portante, e le ringhiere, e le pedate di legno bianco da avvitare. I fabbri ci hanno messo meno di un’ora a mettere tutto insieme. Il buco si è riempito sotto i miei occhi: non c’era più. Mia moglie ha salito la scala davanti a me, ho pianto un poco. Mi sono passato il dorso della mano sul viso, poi abbiamo iniziato a pulire tutto, a rimettere tutto a posto.
Ho iniziato a salire e a scendere quella scala, una volta, tante volte, col passo incerto dell’inizio – perché è venuta un poco ripida – poi con quello più scontato dell’abitudine. Sono passate le settimane, i mesi, la quotidianità ha ripreso il sopravvento. Continuavo a pensare, ogni tanto, al vuoto di quella notte. Finché una sera, all’improvviso, in un silenzio innaturale per casa mia che è un sabba permanente di grida di bambini, in un silenzio pieno come quello di quella notte di luglio, ho sceso un gradino e un pensiero mi ci ha fermato sopra.
Mi è tornata in mente una pagina dell’Antico Testamento che da ragazzino mi aveva segnato nel profondo, una vecchia vicenda minore della Genesi. C’è Giacobbe che, per quel piatto di lenticchie diventato poi paradigmatico, compra da Esaù la primogenitura, la benedizione di loro padre Isacco. Il fratello gliela giura, e per sfuggire alla vendetta Giacobbe fugge, spinto dalla madre a cercare moglie presso parenti lontani. Sarà una lunga storia, ma prima che cominci accade un fatto: Giacobbe si addormenta e sogna una scala lunghissima, che dalle nubi scendeva fino a terra, con gli angeli di Dio che salgono e scendono. Quando si sveglia, il sognatore fuggiasco esclama: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo»2.
Non lo sapevo nemmeno io, ora, forse, lo sto comprendendo un po’ meglio. G. non l’avevo cancellata, perché G. c’era, c’era molto oltre la sua invisibilità ai nostri occhi distratti di adolescenti cinici. C’era per chi la vedeva, per chi l’amava, per chi camminava con lei. Non era assente lei: me l’ero persa io.

Come m’ero perso me stesso, fissando il buco nel pavimento senza capire che quel taglio, quel diaframma rimosso, non era un vuoto ma uno spazio liberato senza il quale non potrebbe mai trovare posto il futuro.

Uno strappo da suturare per tenere insieme quello che siamo e quello che siamo chiamati ad essere, la nostra miseria e la bellezza di cui siamo capaci. Perché l’assenza, domani, diventi “più acuta presenza”, come scrisse quasi un secolo fa Attilio Bertolucci3. Perché si possa dire, come nell’ultimo verso della poesia di Luzi, di quella “fervida giornata”: «Eppure è stata / è stata / nessuna ora sua è vanificata».

1 Mario Luzi, “Non andartene”, in Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, 2004
2 Genesi 28,11-19
3 Attilio Bertolucci, “Assenza” (da Sirio, raccolta del 1929), in Le poesie, Garzanti, 1998

D’istanti.

Fotogrammi di un’assenza.

Foto di Ire Photocreative su Unsplash

#1. Un libro

“Essere donna è avere la guerra dentro, sempre, da sempre.
Cosa farai nei conflitti là fuori?
Come scriverai il tuo nome nel libro grande della storia?”

LA RESISTENZA DELLE DONNE di Benedetta Tobagi – Einaudi Editore 2022

L’assenza delle donne nelle pagine della storia.
Eppure il loro contributo è stato fondamentale: le donne hanno assistito, combattuto, salvato.  Benedetta Tobagi ridà voce e volto a quella metà della storia fino ad ora silenziata
Lo fa partendo dalle fotografie raccolte in decine di archivi : donne giovanissime, occhi vispi e corpi minuti. Il risultato è grande album di famiglia,  un mosaico di esistenze, tragedie, ideali e speranze.
È la ricostruzione di una mappa ideale che partendo dalle vicende storiche della Resistenza arriva ai nostri giorni in una profonda riflessione sul ruolo delle donne ieri oggi e domani.

#2. Un film

“Se il sole esplodesse, non ce ne accorgeremmo per otto minuti: il tempo che impiega la luce ad arrivare fino a noi. Per otto minuti, il mondo sarebbe ancora illuminato e sentiremmo ancora caldo. Era passato un anno dalla morte di mio padre e sentivo che i miei otto minuti con lui stavano per scadere”

MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE VICINO di Stephen Daldry  – 2’11 Warner Bros (Tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer – Guanda Editore 2005)

Una chiave ritrovata nell’armadio del padre ed un nome: Black. Ecco ciò a cui Oskar si aggrappa dopo la morte del padre, vittima dell’attentato alle Torri Gemelle di New York.
Una caccia al tesoro per impedire che i ricordi del padre sfuggano di mano, un modo per tenerne viva la memoria. L’elenco del telefono registra 472 Mr. o M.ss Black nella città di New York, ed è intenzione di Oskar  intervistarli tutti per trovare frammenti di un padre perduto.Un viaggio di formazione che obbligherà Oskar a fare i conti con il proprio dolore. 

Trailer

#3. Una canzone

And what can I tell you my brother, my killer
What can I possibly say?
I guess that I miss you, I guess I forgive you 
I’m glad you stood in my way

FAMOUS BLUE RAINCOAT di Leonard Cohen 1971 (canzone tratta dall’album Songs of love and hate)

Una breve lettera in cui Leonard Cohen si rivolge ad un uomo che ha sedotto la sua donna in un triangolo amoroso sospeso tra sogno e realtà. Un amico, un rivale di cui sente la mancanza e che si trasforma per un attimo in complice.
Tracce di perdono scritte. Pensieri sparsi alla ricerca del senso di vivere.
Sullo sfondo una New York scaldata dalla musica di Clinton Street ed il ricordo di un trench di colore blu.

Traccia

Imagerie

Foto di Volkan Olmez su Unsplash

“Nei suoni più caldi scomparirà il dolore”
Cosmo, Le cose più rare, 2013, 42 Records

Quando avevo diciotto anni ho scoperto che cosa volesse dire provare un dolore così forte da toglierti il respiro per l’assenza di qualcuno. Come faccio sempre, ho cercato di analizzare e rendere razionale quel sentimento, ma era impossibile. Non sapendo come esprimere quella sensazione ho letto molti libri, visto molti film, ascoltato molte canzoni che ne parlavano, che riuscivano a rendere quel dolore opera d’arte. Nel momento in cui sono venuta a conoscenza che il tema di questo numero era proprio Assenza ho letto e riletto le parole di altri, le ho assorbite e ho cercato di riportarle in immagini. Ho pensato che fosse ciò che questo spazio richiede ogni volta, ma in Assenza ho cercato di mettere anche un po’ del mio vissuto.

Per la prima volta da quando ho iniziato a lavorare a Imagerie, abbiamo pensato di scegliere una foto di copertina specifica: ho proposto Volkan Olmez, https://unsplash.com/it/foto/foto-in-scala-di-grigi-della-schiena-della-persona-wESKMSgZJDo perché ritenevo fosse quella che meglio riusciva a rappresentare la mia idea di mancanza. In un semplice scatto di schiena, ho percepito come un’ondata di sofferenza, la stessa ondata che mi travolge tutte le volte che avverto l’assenza di qualcuno. 

Queste, invece, le immagini che ho scelto per i post:

appunti.

Cinque declinazioni di legami e altrettanti consigli di lettura.

Foto di Camden & Hailey George su Unsplash

KRAPFEN

« […] così poco per volta, arrivavo a mettere insieme la somma per il libro. La tentazione di fare per una volta come molti dei miei compagni, e cioè di comprarmi davvero un Krapfen e mangiarmelo davanti a tutti, perdeva quasi ogni consistenza se la paragonavo alla meta che mi ero prefisso. Al contrario, mi piaceva stare a guardare un amico mentre divorava il suo Krapfen e provavo una sorta di voluttà, non saprei come altro definirla, immaginando la sorpresa della mamma quando le avremmo consegnato il libro in regalo»

La lingua salvata di Elias Canetti, Adelphi, 1980

Uno strano parallelismo accomuna i genitori a certi libri, è quel legame viscerale e fortissimo che si instaura con chi dà la vita. Quanti orfani sono stati allevati dai libri e, viceversa, quante donne e uomini sono nati – per davvero – grazie ai libri più amati? Non è un caso che nel parlare comune si accosti la lingua a una madre: è nelle parole che, in fondo, si conserva il segreto dello stare al mondo.

ABBRACCIO

«Me lo immaginai mentre scendeva trotterellando verso l’albergo, dopo l’abbraccio; cosciente della propria statura, della propria stanchezza, del fatto che l’esistenza del passato dipende dalla quantità di presente che gli affidiamo, e che è possibile dargliene poca o non dargliene affatto»

Gli addii, di Juan Carlos Onetti, SUR 2021

Si riconosce il sopraggiungere del tempo dell’abbandono da un’elettricità dell’aria, a cui fa eco la consapevolezza del trovarsi sulla soglia – affilata – di due momenti, che danno l’idea di vivere contemporaneamente nel passato e nel futuro. E quanto più forte è stato l’attaccamento, tanto più tragico sarà il distacco.

RIFLESSI

«Allora, col tormento e la superbia della conoscenza, venne la solitudine perché egli non tollerava la vicinanza dei bonari, degli innocenti dallo spirito gaiamente ottenebrato, e d’altronde il marchio sulla sua fronte li conturbava. Ma sempre più dolce divenne in lui il piacere della parola e della forma, e soleva dire (e anche questo l’aveva già scritto) che la sola conoscenza delle anime avrebbe condotto immancabilmente alla tristezza, se i piaceri dell’espressione non ci conservassero desti e vivaci…»

Tonio Kröger, di Thomas Mann, Einaudi 1993

Vivere nel riflesso di se stessi, nell’impossibilità di dare una forma precisa al proprio essere. Questo dramma, che crediamo spesso essere esaurito con la gioventù, sembra riproporsi ciclicamente nel corso della vita. La constatazione si riempie di angoscia, ogni volta, fino a quando non la si allevia con qualche arte, che diventa distrazione e insieme conforto.

CATENA

«Neppure la Tua diffidenza verso gli altri è tanta quanta quella che provo verso me stesso, e ad essa Tu m’hai condotto. Non nego una certa legittimità all’obiezione, che d’altronde reca un nuovo contributo alla qualificazione dei nostri rapporti. Nella realtà, naturalmente, le cose non possono combinarsi come le prove nella mia lettera, la vita è qualcosa di più che un gioco di pazienza; ma con la rettifica che risulta da quell’obiezione, e che io non voglio e non posso applicare ai particolari, si raggiunge a parer mio qualcosa di così vicino alla verità, da poterci forse tranquillare un poco e rendere più facile la vita e la morte»

Lettera al padre, di Franz Kafka, Mondadori 2019

Un peccato originale, una colpa da espiare. Così sembrano essere alcuni legami di nascita: delle catene piombate, indissolubili. E l’anima è soggiogata, sottomessa a una sorta di volontà superiore. Quanto coraggio ci vuole per uscire dalla caverna e guardare in faccia il sole? Forse meno di quello che ci aspetteremmo, ma bisogna crederci.

RINGRAZIAMENTI

«Olive dovette davvero imporsi di non dire, Ai miei tempi c’era l’abitudine di ringraziare qualcuno se ti mandava un regalo. No, Olive dovette fare proprio uno sforzo per non lasciarselo scappare, ma non lo disse, e, dopo qualche minuto, Ann disse ai bambini: – Avanti, su, andiamo a letto. Date un bacio a papà -. E i bambini si avvicinarono a Christopher e lo baciarono, poi passarono davanti a Olive senza nemmeno guardarla. Orrendi, due bambini orrendi, e orrenda pure la loro madre. Ma il piccolo Henry a un tratto scese divincolandosi dalle ginocchia del padre […] – Ciao, ciao – disse lui. E le pose la sciarpa dicendo – Grazie – . Be’ questo sì che era un Kitteridge. Un Kitteridge fatto e finito.»

Olive, ancora lei, di Elizabeth Strout, Einaudi 2020

C’è un trauma naturale insito nell’accorgersi del tempo che passa, che porta a non accettare il cambiamento, a cercare in chi viene dopo di noi quello che più ci somiglia, come una forma di nostalgia o di una speranza di riscatto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma un sorriso inconsapevole può alleviare una vecchiaia indispettita, tutti i nonni – veri o adottati – lo sanno. 

In sottofondo, kisses, Slowdive

Editoriale #8

Legami

Foto di Will O su Unsplash

“Elle est là ma mère mais c’est plus ma mère depuis qu’elle vit sans souvenir
Elle a dit mon nom, c’était pas mon nom, elle est là mais elle partie […]
Je sais qu’elle sent, je sais qu’elle sent, je sais qu’elle voit qu’on s’ressemble
On a l’même rêve, on a l’même sang deux impuissants”

Il faudrait, Vianney – Bigflo & Oli, album À 2 à 3, 2023

Guardarsi negli occhi e riconoscersi, guardarsi negli occhi e perdersi. 
Una madre che ha stracciato il filo, un figlio che vuole ridisegnare un percorso.
Guardarsi negli occhi e rifiutarsi: la difficoltà di riconoscere un legame sano, un legame che fa crescere da un altro che ti stringe e ti soffoca. Se non sai quale possa essere la risposta a una tua domanda, se le conseguenze sono sempre imprevedibili, come fai a non essere succube della volontà ballerina degli eventi o di chi ti promette amore, ma in realtà ti dà instabilità?
Guardarsi negli occhi e trovarsi: una condivisione che lega più delle parole e di una vita vissuta insieme. Due estranei davanti a un evento lieto o meno (una calamità, un attentato, una tragedia, una nascita, una vittoria). Combattere una causa, cercare le risposte. 
Chi era seduto vicino a te quando hai chiamato per la prima volta in vita tua un’ambulanza? Chi hai incontrato in pigiama, per la strada, dopo una scossa di terremoto? Chi stava nel bus quando hai ricevuto i risultati del tuo primo esame universitario? Chi hai chiamato quando hai saputo che avevi trovato lavoro? Chi hai abbracciato quando avete avuto un figlio? E chi quando lo hai perso?
Guardarsi negli occhi e sognare. Condividere valori, confrontarsi su temi di attualità, gusti, ricette, libri. Cosa ci accomuna? Cosa ci spinge a viaggiare e cercare dei punti stabili di orientamento?
Al paese, i vecchietti chiedono ai ragazzi: A chi sei figlio? A chi appartieni? In altri tempi: Dove sta il tuo cuore, chi ti ha accolto e cresciuto? Nel vangelo di Matteo va avanti per molto, tutta la genealogia di Gesù: puoi essere anche figlio di Dio, ma sei comunque legato a qualcuno.
Che i legami a volte sono scelti, a volte imposti. Mantenerli sta a ognuno.

Hanno partecipato a questo numero:

Il prossimo numero uscirà a fine Aprile e il tema sarà: Assenza. Grazie per leggerci.

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A presto,
Pamela

Imagerie

Legami

I crediti sono nel post

Questo numero mi ha dato la possibilità, attraverso le sue voci, di rappresentare legami sentimentali, legami tra sorelle, legami con la famiglia, con la casa. Vorrei, dunque, prendere questo spazio per parlare di un legame per me fondamentale: quello con le mie passioni. Il motivo per cui scelgo di citare i miei interessi, proprio qui, proprio in questo numero è che mi rendo conto che sono tutti collegati tra loro dalla parola “immaginario”. Leggere crea nella mia mente personaggi, gesti, sfondi; i film mi danno la possibilità di ampliare il mio immaginario; ascoltare una canzone forma un’immagine. Per questo motivo, credo che il legame con quella che è una parte importante della mia vita, con l’arte in ogni sua sfaccettatura, debba essere citato in un luogo che ha come titolo Imagerie.

Le immagini:

Editoriale di Pamela Frani
Foto di Will O su Unsplash
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  • Poesie

Fosca Navarra
Foto di Phil Baum su Unsplash
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Eleonora Baggio Compagnucci
Foto di Patrick Hendry su Unsplash
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  • Articolo 

Letizia Baldioli
Foto di Ramin Talebi su Unsplash
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  • Racconto

Roberta Silvagni
Foto di Annie Spratt su Unsplash
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LE DEMOISELLES DI PORTO D’ASOLA

Foto di Annie Spratt su Unsplash

La casetta era stata costruita dal nonno di mio nonno, esattamente nel 1900, su un pezzetto di terra sabbiosa comprato per due soldi. Avrebbe voluto farci un orto, ma capì ben presto che il vento denso di salsedine non avrebbe permesso alle verdure di venir su bene.
All’epoca, però, cominciavano ad andare di moda i bagni di mare, e girava la voce di quanto bene facesse alla pelle l’acqua salina, e quanto giovasse ai polmoni quello stesso vento che uccide i pomodori: molto meglio, allora, utilizzare quel fazzoletto di terra come punto d’appoggio per la spiaggia, e fare come i veri signori, che nei giorni di festa scendevano da Asola, il vecchio paese in collina, fino alla costa ancora disabitata. Così chiamò un muratore, e insieme tirarono su quattro muri; fece il caminetto, come usava nei casotti che si costruivano in mezzo alle campagne, e mise una porta di legno verso la ferrovia che correva parallela alla spiaggia; volle anche una grande finestra nella parete opposta, verso il mare: una meravigliosa apertura sulla spiaggia scogliosa, sulle onde, sul cielo e nient’altro.
Nella sua casa di Roma, in un cofanetto intarsiato, Zia Mira, la sorella di mia madre, custodiva foto in bianco e nero di signori baffuti e signore con elaborati vestiti da spiaggia, in posa proprio sugli stessi scogli tra i quali, decenni dopo, io mi sarei sdraiata scomodamente per abbronzarmi.
Adesso quelle foto le custodisco io.
Riconosco, tra quelle signore sorridenti sotto gli ombrellini, zia Teresina, la sorella di mio nonno, spigolosa e con il cipiglio attento e ironico già a sedici o diciassette anni. Non c’è da meravigliarsi che non si sia sposata, e non fu certamente – come amava dire malignamente mia nonna, la cognata bellissima – per via del nasone e dei capelli crespi.
Mio nonno non compare mai in quelle foto: era ragazzetto, a quel tempo, e sarà stato a correre dietro a qualche gonnella; cosa che non avrebbe mai smesso di fare, neppure da sposato, neppure da vecchio.
I miei primi ricordi della casetta sul mare risalgono alla metà degli anni Cinquanta, quando l’aggiunta di un serbatoio per l’acqua piovana e di un piccolo gabinetto (migliorie pretese da zia Teresina e da nonna, che per una volta avevano deciso insieme senza prendersi a capelli), l’avevano resa accogliente, al punto che si poteva passar sopra alla mancanza di elettricità; tanto d’estate la luce naturale dura fino all’ora di cena.
A me, che ero bimba, sembrava la casetta di Hansel e Gretel, ma senza la strega cattiva e con in più il mare.
Sul camino, che mai nessuno accendeva, nonna aveva appeso due maschere colorate: le aveva portate come souvenir dall’Africa un amico di famiglia che era stato ingegnere laggiù, e nessuno le aveva volute tenere in casa. Quegli orrori! Dicevano mamma e zia Mira, col loro gusto da statuette di Capodimonte e stampe del Piranesi. Così erano finite alla casetta.
Nel mezzo secolo intanto trascorso, grazie anche alla costruzione della litoranea carrozzabile, la parte costiera della regione si era popolata, e ciascuno dei paesi medievali arroccati sui monti aveva generato il proprio omologo balneare; anche Asola, l’antico paese in collina, si era replicato in Porto d’Asola, dapprima frazione con quattro case di pescatori, e infine moderna località di villeggiatura, con la piazza della stazione, le pensioncine, le gelaterie, il mercato del sabato; tutto alla distanza di una passeggiata dalla nostra casetta.
C’era ancora, su ad Asola, la casa di famiglia, quella in cui erano nati nonno e zia Teresina, e prima ancora il loro padre, e il padre del loro padre: era un palazzetto tutto scale in un vicolo del centro, e ci era rimasta ad abitare zia Teresina, che da giovane lavorava come infermiera in paese e non aveva mai voluto trasferirsi a Roma. Tutti noi arrivavamo a giugno, per goderci la magica casetta sulla spiaggia.
Zia Mira si piazzava con i figli nella casa del paese in alto, e si faceva servire e riverire da zia Teresina, che non aspettava altro che viziare la nipote preferita e i suoi due figli maschi. Scendevano a Porto d’Asola di prima mattina, con la corriera o approfittando del passaggio di qualche paesano.
Noi, più discreti, affittavamo una stanza a Porto d’Asola. Ci stavamo io e mamma tutta la settimana, e il sabato sera ci raggiungeva papà, con il treno.
Nonno e nonna, con spirito da campeggiatori, dormivano alla casetta. L’acqua c’è, dicevano, il gabinetto c’è, e per vederci quando apriamo le brande accendiamo una candela.
Quindici anni di vacanze sempre uguali: giornate intere dentro l’acqua; le chiacchiere, sempre le stesse; le solite litigate furibonde tra mamma e zia Mira, le sorelle, o tra nonna e zia Teresina, le cognate. Nonno sempre in giro: saliva ad Asola per tentare la riconquista di qualche vecchia fiamma del paese, oppure si allontanava lungo la spiaggia, finché, verso la zona dei bagni attrezzati, incontrava qualche villeggiante sola a cui offrire un aperitivo.

Poi arrivò l’estate dei miei quindici anni – dunque era il Sessantasette –, l’estate senza uomini.
Papà aveva appena avuto una promozione, e le accresciute responsabilità non gli permettevano di raggiungerci neppure il sabato.
Nonno aveva raccontato che la macchina aveva un guasto, e il meccanico aveva difficoltà a reperire i ricambi. Vi raggiungerò appena ho risolto, aveva detto. E aveva spedito nonna insieme a noi, col treno. Probabilmente a Roma aveva in corso una delle sue storielle, ma il sospetto non intaccava minimamente la solita allegria di nonna.
Zia Mira, lei, non era mai andata d’accordo con il marito, sposato quando era appena una ragazzina, e d’estate era sempre venuta da sola con i due figli. Quell’anno, però, i miei cugini erano diventati grandi, avevano le fidanzatine a Roma (il tira-tira, diceva nonna), e avevano preferito restare con il padre.
Cinque donne sole – quattro donne e una ragazzina, in verità – tutto il giorno a ridere e litigare, a parlare e sparlare, a prendere il sole, a fumare (loro), a bere caffè (anche io, un poco).
Era un’estate caldissima, i prendisole di cotone si incollavano alla pelle; una volta fuori dall’acqua era fastidioso persino il costume, il mio primo bikini, che se ci fosse stato papà non avrei potuto indossare: rosso ciliegia sulla mia abbronzatura da marocchina. Così prendemmo l’abitudine, nelle ore del gran caldo, di chiuderci nella casetta, tutte e cinque, di toglierci tutti i vestiti, anche i costumi, e avvolgerci con vecchi lenzuoli bagnati. Perfino zia Teresina, che era vecchia, lo faceva, ma lei si spogliava solo dopo essersi avvolta nel lenzuolo.
Io, che avevo i capelli ricci e lunghissimi, per rinfrescarmi ancora di più li inzuppavo a forza di secchiate d’acqua. Mamma e zia Mira facevano a gara per spazzolarmeli; e quando la spazzola incontrava un nodo i capelli tiravano, e io gridavo: basta! Invece mamma e zia Mira pareva lo facessero a posta a smuovermi i riccioli: i capelli schizzavano acqua da tutte le parti, sulle loro braccia, sulle facce, sul collo, e loro facevano versetti di piacere. Per ore restavamo semisdraiate sulle brande, a spiluccare acini d’uva e fettine di melone. Loro, le adulte, fumavano una sigaretta dietro l’altra, e a turno facevamo il caffè sul fornelletto a spirito.
Uno dei primi e più caldi giorni di agosto, forse stordita dal caldo, forse eccitata dai troppi caffè, nonna se ne uscì con una specie di confessione: «Lo sapete?» disse indicando mamma «Quando mi sono sposata ero già incinta di lei».
«Il segreto di Pulcinella!» saltò su zia Teresina «Lo sappiamo tutte che eri incinta!»
«Ma la bimba non lo sapeva» e mi guardò.
Lo sapevo, invece, ma per non farla rimanere male feci la faccia stupita.
«Bell’esempio per la bimba!» zia Teresina staccò una delle maschere africane e la porse a nonna.
«Copriti la faccia, va! Vergognati! Hai fatto la puttana, con quelle mossette tutte gne-gne, e hai incastrato quel mio povero fratello!».
Mamma e zia Mira si tenevano la pancia dalle risate. «Madonna! Sono passati quarant’anni e ancora pensi alle mossette gne-gne!».
«È solo invidia, perché lei non l’ha voluta nessuno, con quel nasone…» reagì nonna. La voce si incrinò alla parola nasone, e gli occhi le diventarono lucidi. Però finse di stare allo scherzo, strappò la maschera di mano alla cognata e si coprì davvero.
«Invidia io? Sappi, bella mia, che il dottore dell’ambulatorio era innamorato cotto di me! Avrebbe pure lasciato la moglie! Sono stata io a convincerlo a non fare uno scandalo, e così ci siamo amati in segreto. Lui mi diceva sempre che non c’era una donna meglio di me, e sì che ne aveva avute! Che come con me… Ma fammi stare zitta, va, che mi fate dire cose che non sta bene dire…». Staccò l’altra maschera e si coprì il volto pure lei.
Zia Mira si bloccò con la tazzina di caffè a mezz’aria. «Questo, di segreto, sì che è rimasto ben custodito!».
In effetti eravamo tutte meravigliate. Dunque zia Teresina era stata qualcosa di diverso, qualcosa di più della granitica zitella che conoscevamo, tutta dedita alla professione di infermiera e alla cura dei nipoti.
Zia Mira prese un sorso di caffè e proseguì: «Merita una confidenza di pari valore. Chi se la sente?». Noi tutte zitte. «Allora parlo io; passatemi la maschera».
E nascosta dalla maschera disse: «Vi confesso che ho peccato. Giordano, il mio piccolo, non è figlio di mio marito».
«Basta!» irruppe mamma. «Hai veramente esagerato. Questi discorsi davanti alla bimba!».
Zia Mira abbassò la maschera, ci guardò negli occhi per assicurarsi l’attenzione di ognuna di noi e continuò: «La sentite, la sorella maggiore?
Quella perbene, quella che ha fatto il buon matrimonio? Sta sempre a giudicare me, l’ipocrita!»
Mamma scattò su come una molla. «Ipocrita? Io?»
«Ipocrita, sì. O non ti ricordi che la settimana prima di sposarti con Fulvio uscivi di nascosto con quell’altro? E io dovevo reggerti il gioco?»
Poi, rivolta nuovamente a tutte noi: «Ma forse crede che quelle non fossero corna. Non era sposata, e dunque, secondo lei, non erano corna».
Mamma era diventata terrea sotto l’abbronzatura.
«Basta ragazze, basta. Si sta esagerando davvero» dissero nonna e zia Teresina all’unisono.
«Va bene, sono le quattro, è ora di tornare al mare» concluse zia Mira.
Mamma mi annodò il reggiseno del bikini sul collo mentre io mi tenevo su i capelli. «Sono uscita solo una volta con un corteggiatore. Per chiarirgli che non doveva più starmi dietro, che avevo scelto tuo padre…» mi disse piano.
Intanto zia Teresina stava riappendendo le maschere.
Peccato, se fosse arrivato il mio turno avrei potuto anch’io confessare quello che avevo fatto con quel ragazzo carino del paese, nascosti in mezzo agli scogli, o al largo in barca, in quei giorni di gran caldo.

Dovetti confessarlo a zia Mira, alla fine di settembre, poco prima che ricominciasse la scuola, per chiederle aiuto. Mi portò da una signora, che risolse tutto, e per un paio di giorni mi ospitò a casa sua con una scusa, perché mamma non si accorgesse del mio malessere.
Però qualcosa probabilmente le disse, perché dall’estate dopo le vacanze a Porto d’Asola si interruppero.
Non accadde mai più, non ci ritrovammo mai più tutte insieme: cinque donne di tre generazioni, con i propri segreti, in una casetta isolata, in un tempo senza tempo.
Non accadrà mai più.
Di quelle cinque donne sono rimasta solo io, e con me la linea si interrompe, perché non ho mai avuto figli; dopo quell’estate ho sempre fatto in modo di non averne.
Ho comprato dai miei cugini le quote della casetta, e ho chiesto che nel prezzo pattuito fossero comprese anche tutte le foto d’epoca di quel posto; le copie originali, piccoline e sgualcite da tante mani.
Ci ho fatto portare l’elettricità e l’acqua corrente, e l’ho arredata in stile marinaro; ho recintato il piccolo pezzo di terra intorno e ho piantato oleandri e bouganville. Ogni tanto qualche turista tedesco o olandese mi chiede se voglio venderla.
Non se ne parla.
Le maschere africane hanno un posto d’onore nella mia casa di Roma. Un antiquario di Parigi mi ha detto che in Francia l’arte africana va molto, e che quelle maschere hanno un certo valore. Inutile spiegargli quanto valore abbiano per me.
Sogno di andare a vivere alla casetta, quando andrò in pensione. Invecchierò e morirò lì, sulla riva del mare, sentendo le chiacchiere di cinque donne.
Certo riporterò le maschere africane, per appenderle di nuovo al loro posto: sul camino.

Sorellanza: la riscoperta di un legame antico

Foto di Ramin Talebi su Unsplash

“non si tratta di provare qualcosa o di pronunciare parole
si tratta solo di essere
insieme.”

Bernardine Evaristo, Ragazza, donna, altro, Edizioni SUR

Una sera, mentre camminavo spedita verso un parcheggio in una zona isolata della città, nel silenzio ho udito un rumore di passi dietro di me. Con i sensi all’erta, mi sono voltata appena per sapere chi fosse, consapevole che è più prudente evitare contatti visivi con gli sconosciuti, e ho notato con sollievo che era una donna. Senza scambiare una parola, le nostre andature si sono allineate. Quando siamo arrivate alle auto, con uno sguardo ci siamo assicurate che anche per l’altra fosse tutto a posto e poi ognuna ha preso la propria strada. Quel gesto solidale, quel legame fugace, è stato un piccolo atto di sorellanza.
La sorellanza è un legame che di solito viene associato al femminismo militante e, anche se è un accostamento corretto, quello dei collettivi e dell’attivismo non è l’unico modo di percepirlo e di viverlo.
Secondo il vocabolario Treccani la sorellanza è il “rapporto naturale tra sorelle e il vincolo d’affetto che le unisce”1, oppure il legame tra due o più cose di genere femminile che hanno la stessa origine e le stesse caratteristiche, o anche il “sentimento di reciproca solidarietà fra donne, basato su una comunanza di condizioni, esperienze, aspirazioni”2.
Si può essere sorelle in quanto figlie dei medesimi genitori, e quindi legate da un vincolo di sangue. Ma si può essere sorelle anche per scelta, perché si hanno pensieri simili, le medesime esperienze, una storia comune, breve o lunga non importa.
La sorellanza non necessariamente conduce all’amicizia, o ne deriva. Due amiche si scelgono, si piacciono, provano affetto reciproco, possono avere storie anche molto diverse tra loro, ma sentono un’affinità. Amiche si diventa, sorelle si è.
Si può stabilire un legame di sorellanza anche senza una specifica intenzionalità, senza partire da un precedente sentimento, senza bisogno che ci sia già intimità, stima o conoscenza profonda. A volte è sufficiente stare vicine per un breve tratto di strada, avere un bisogno che l’altra comprende al volo perché ne ha fatto esperienza in quanto donna, scambiare due chiacchiere in un contesto femminile o femminista. Accade qualcosa, cade il velo dell’abitudine, lo sguardo si apre e ci si riconosce simili, anche se abbiamo storie diverse e prima di quel momento non eravamo mai entrate in relazione.
Ci accomuna l’essere state educate e vivere in un contesto sociale che ci relega perlopiù in ruoli subordinati o di cura, ci fa muovere in spazi fisici e mentali progettati dagli uomini, spesso solo per le esigenze degli uomini. E questi due spazi si condizionano l’un l’altro.
La geografa Leslie Kern nel suo libro La città femminista, scrive: “le donne vivono la città con una serie di barriere […] che modellano la loro vita quotidiana attraverso dinamiche che sono profondamente (sebbene non solo) di genere”3. Sono molte le donne che si sentono in pericolo e vulnerabili quando tornano a casa da sole la sera o la notte. Il tessuto urbano attuale non è pensato per la sicurezza femminile. A questo proposito Kern afferma che “i principali responsabili delle decisioni, che sono ancora per lo più uomini, stanno facendo scelte su tutto […] senza sapere nulla, né tanto meno preoccuparsi, di come queste decisioni influenzano la vita delle donne”4. Non si tiene conto delle loro difficoltà, e del fatto che le esperienze urbane delle donne sono determinate dalla loro identità di genere.
Alla luce di ciò, ogni volta che due o più donne si trovano in una situazione, in un luogo, o vivono un’esperienza che non è pensata per loro, ciò che possono fare è unirsi per sopperire alle mancanze di una società che non le ha incluse in fase di progettazione. Kern, parlando delle sue amiche e delle loro esperienze di gioventù, scrive: “Sapevamo che nessuna sarebbe stata lasciata sola o maltrattata. L’amicizia ha fatto sì che ci sentissimo libere nella città”5. Siamo in molte a non sentirci libere di vivere la città come vorremmo ed è per questo che, ad esempio, in Italia l’associazione Donnexstrada ha creato il servizio di videochiamata Viola walk home6 attivo tutti i giorni 24 ore su 24 a cui ci si può rivolgere per essere “accompagnati” a casa in un orario e un giorno specifici. Oppure si può chiamare un’amica: sapendo che siamo sole di notte da qualche parte non le dispiacerà essere stata svegliata.
Ma non c’è solo la sicurezza di cui tenere conto. A chi non è capitato, ad esempio, di dover chiedere un assorbente a un’altra persona, persino una sconosciuta? Aiutarsi non è solo un gesto di gentilezza, è rimediare a un’assenza, in questo contesto alla mancanza di distributori di assorbenti nei bagni pubblici. Sono gesti che in tante abbiamo fatto, così naturali da non stupirci e così spontanei da non domandarsi come mai il rimedio dobbiamo trovarcelo tra di noi, quasi alla chetichella.
Di questi gesti si può leggere nei libri. Nel romanzo I doni della vita di Irène Némirovsky, che non ha particolari riferimenti alla sorellanza, una scena mi ha colpita. Una donna sta per partorire mentre è sfollata a causa della guerra, la suocera cerca di aiutarla ma la situazione intorno è drammatica: “Non c’era tempo per piangere. Bisognava occuparsi di Rose, far scaldare dell’acqua, scaricare dalla macchina i medicinali di pronto soccorso […], cercare delle fasce in paese. Questo non sarebbe stato difficile: tutte le donne della casa si stavano dando da fare.”7
Quelle donne non conoscevano la partoriente, si erano incrociate per caso e per di più mentre scappavano. Eppure senza indugio si sono date da fare per lei, per una di quelle cose da donne di cui si capisce l’urgenza o talvolta l’ineluttabilità, ma che la società ignora. Ancora una volta sembra che dobbiamo sbrigarcela tra di noi.
Sorellanza è anche credere alle parole di un’altra donna quando in molti le mettono in dubbio, e farlo perché tante volte abbiamo visto screditare una vittima di violenza con domande su com’era vestita, che cosa stava facendo, scavando nel suo passato, o sottolineando il fatto che non si era opposta, come se dire di no fosse facile in certi contesti. Ci sono studi8 che analizzano le reazioni psichiche non volontarie come il freezing, ovvero l’incapacità di pensare e agire, una paralisi fisica ed emotiva che si attiva in situazioni come la violenza sessuale. Una qualsiasi ragazza a cui uno sconosciuto si sia strusciato addosso sulla metro o sull’autobus sa che è molto più probabile trovarsi impossibilitate anche solo a muoversi che non reagire, gridare, colpire.
Sorellanza è lasciare a ognuna la libertà di essere e di definirsi9 donna come vuole, anche se noi siamo diverse e faremmo altre scelte.
Spesso si sente dire che “le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne” e sembra davvero che sia così. Michela Murgia nel suo Stai zitta scrive che “è essenziale, nei sistemi maschilisti, che le donne credano che le loro peggiori nemiche siano proprio le altre donne, diventando inconsapevolmente complici del sistema che alla fine le opprime tutte”10.
La scrittrice Roxane Gay, nel suo libro Bad feminist citato da Leslie Kern, chiede di “abbandonare il mito culturale secondo il quale tutte le amicizie femminili devono essere cattive, tossiche o competitive. Questo mito è come i tacchi e le borse: belli ma progettati per rallentare le donne”11. Scegliere di praticare la sorellanza è un modo per uscire dalla retorica patriarcale che pretende di stabilire come deve essere il rapporto tra donne, per andare a scoprirne invece le potenzialità.
Nella letteratura, finché anche le donne non hanno trovato uno spazio meno angusto all’interno della scena letteraria occidentale, si parlava poco di amicizia femminile e lo sguardo con il quale questo legame veniva analizzato era quasi sempre stato quello maschile. A questo proposito Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé, scrive: “tutte le grandi donne della letteratura erano state, fino ai tempi di Jane Austen, non soltanto viste dall’altro sesso, ma anche viste in relazione all’altro sesso”12.
Siamo state dipinte in eterna competizione le une con le altre, sempre pronte a rivaleggiare o a tradirci per conquistare un uomo, più che a sentirci sorelle o diventare amiche.
“Supponiamo per esempio che gli uomini fossero rappresentati nella letteratura in qualità di amanti delle donne” scrive ancora Woolf, “e non fossero mai amici di altri uomini, soldati, pensatori, sognatori; non resterebbe molto delle tragedie di Shakespeare; e come ne sarebbe menomata la letteratura […] incalcolabilmente impoverita dalla non partecipazione delle donne”13.
Daniela Brogi nel libro Lo spazio delle donne attualizza il pensiero di Woolf: “Cosa può fare una donna nei romanzi scritti dagli autori italiani contemporanei? In molti casi prima di tutto la morta; poi la nonna, la madre, l’amica perfida, la moglie stronza, la figlia edipica, l’amante (nuda), la ragazzetta ninfomane, la sconosciuta stupida – e in ogni caso sempre una donna eterosessuale”14. Sembra che anche oggi nella letteratura (ma anche nel cinema, in televisione) ci sia una difficoltà da parte degli uomini nel rappresentare le donne e i loro legami, amicizia e sorellanza comprese, soprattutto se non ruotano intorno a un maschio. Se poi si ha a che fare con donne che non rispecchiano i canoni estetici patriarcali, donne lesbiche, donne trans o persone queer, la strada da fare affinché siano presenti e correttamente rappresentate nelle narrazioni è ancora più lunga.
È servito di allontanarsi dall’onnipresente male gaze15 e di avere a disposizione anche sguardi diversi perché qualcosa iniziasse a cambiare e, in tema di sorellanza, se ne cominciasse a parlare smettendo di rifarsi solo ai modelli classici in cui questo legame si forgiava nella sventura e serviva per alleviare la pena16.
Nel saggio Sorelle. Storia letteraria di una relazione di Monica Farnetti, vi sono vari esempi di quelle che l’autrice definisce sorelle felici, in contrapposizione alle sorelle forti ma tragiche della classicità.
Farnetti scrive che la sorellanza fin dalle origini è il modo che le donne hanno avuto per “risollevarsi dal loro stato di soggezione culturale e politica, la condizione stessa del loro accesso alla vita sociale e intellettuale”17. Praticare la sorellanza significa quindi essere presenti e vive, come donne, nel mondo, abitandovi in modo pieno e autorevole. Ma è anche questo il motivo per cui “la prorompente energia della sorellanza è stata, fintanto che ciò è stato possibile, censurata, sminuita, parodizzata, contraddetta, bonariamente ammessa fra i valori positivi ma accessori di una cultura, sottostimata e reclusa tra gli affetti non primari”18.
E anche per sentirne parlare all’interno dei movimenti femministi si è dovuto aspettare la seconda metà del Novecento. Tra i tanti esempi e contributi su questo tema, riporto solo alcune frasi del libro Il femminismo è per tutti di bell hooks, scrittrice, studiosa, attivista americana, per accennare a che tipo di legame sia la sorellanza femminista. “Il movimento femminista” scrive bell hooks “ha creato le condizioni per la solidarietà femminile. Non ci siamo unite contro gli uomini, ci siamo unite per proteggere i nostri interessi come donne. […] La sorellanza femminista si radica nell’impegno condiviso a lottare contro l’ingiustizia patriarcale, non importa quale forma essa assuma”19.
Praticare la sorellanza è come stabilire un patto morale ed etico, o riscoprirne uno già esistente.
La sorellanza è un legame orizzontale, tra donne che si incontrano e si relazionano, ma è anche un legame verticale, un’eredità che si tramanda, un modo per passare le une alle altre quegli anticorpi che è necessario acquisire per contrastare lo sguardo patriarcale che anche le donne sono state educate a utilizzare per osservare sé stesse e le altre.
“La sorellanza fa sì che ogni donna possa incarnarla guardando, allo stesso tempo, verso il passato che gliela insegna e verso il futuro a cui la consegna, risultandone ogni giorno l’iniziatrice e l’erede.”20
Teniamoci cari, quindi, quegli esempi di sorellanza e di amicizia che la letteratura ci offre. L’amica geniale, di Elena Ferrante, dove il legame tra Lila e Lenù va oltre gli stereotipi e mostra anche le sue imperfezioni, quella terra di mezzo che esiste tra l’essere nemiche e l’essere costantemente allineate e solidali, ossia il luogo reale dove i rapporti di amicizia e sorellanza si vanno a collocare; L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, nel quale la protagonista scopre legami di sorellanza, impensati prima di sperimentarli, con le altre detenute, e il carcere può diventare il luogo dove “tutte capiscono perfettamente chi sei – e tu lo senti – in poche parole non sei sola come fuori”21; Nessuno torna indietro di Alba de Céspedes, in cui otto ragazze che vivono nel medesimo collegio femminile in attesa di iniziare a vivere le proprie vite una volta terminati gli studi, intrecciano legami dopo essersi “scelte tra tante, per affinità”22.
Questi sono solo alcuni esempi di romanzi che parlano di amicizia e sorellanza in contesti peraltro molto diversi tra loro. Ma di sorelle parla anche Jane Austen nei suoi libri. Senza una sorella, di sangue come Jane per Elizabeth, o per scelta come Miss Taylor per Emma, le protagoniste non avrebbero con chi confrontarsi, con chi dialogare oltre sé stesse23.
Possiamo cercare le storie di amicizia e di sorellanza tra le pagine delle scrittrici che amiamo o lasciarci ispirare da chi le ha già trovate e analizzate24.
“Dovremmo quindi impegnarci a destinare parte delle energie che normalmente dedichiamo a compiacere uno sguardo sconosciuto, a coccolarlo […]” ci esorta la scrittrice Carolina Capria nel suo Campo di battaglia, “per costruire legami che non solo possano sostenerci ma che ci aiutino ad acquisire una nuova prospettiva”25.
È possibile allenare lo sguardo a vedere bellezza nelle altre donne, educarci a praticare la sorellanza come forma di empatia, creando una rete di mutuo sostegno formata da un insieme di donne che lottano fianco a fianco, che alleviano le reciproche sofferenze ma che, soprattutto, sono capaci di ridere e di essere felici insieme.

Letture consigliate oltre ai testi riportati nelle note:

  • Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti, ed. Feltrinelli
  • Manuale per ragazze rivoluzionarie, di Giulia Blasi, ed. Rizzoli
  • Dovremmo essere tutti femministi, Chimamanda Ngozi Adichie, traduzione di Francesca Spinelli, Giulio Einaudi Editore
  • Sputiamo su Hegel e altri scritti, di Carla Lonzi, a cura di Annarosa Buttarelli, ed. La Tartaruga
  • Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, di Jude Ellison Sady Doyle, traduzione di Laura Fantoni, ed. Tlon

NOTE

1 https://www.treccani.it/vocabolario/sorellanza/
2 Ibidem.
3 Leslie Kern, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, trad. it.di Natascia Pennacchietti, Treccani, Roma, 2021, p. 16.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 86.
6 https://www.violawalkhome.com/it/
7 Irène Némirovsky, I doni della vita, Adelphi Edizioni, Milano, 2012, p. 211.
8 Ad esempio questo: https://www.internazionale.it/video/2021/11/25/stupro-cervello-reagire-aggressore
9 Per un approfondimento sul tema dei generi sessuali e la loro definizione, su cosa voglia dire essere donna al di là dell’aspetto biologico, si veda Jennifer Guerra, Un’altra donna, UTET, Milano, 2023.
10 Michela Murgia, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi, Torino, 2021, p. 60.
11 Leslie Kern, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, op. cit., p. 82.
12 Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, trad. it. Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, Feltrinelli Editore, Milano, 2021, p. 118.
13 Ivi, pp. 119-120.
14 Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2022, p. 98.
15 La traduzione letterale è “sguardo maschile”, inteso come sguardo sulle donne che le identifica e le mostra come oggetti sessuali. In particolare ciò avviene nel cinema, nella pubblicità e in televisione. Molto interessante a questo proposito il documentario Il corpo delle donne. L’immagine del femminile nella Tv italiana, del 2009, realizzato da Lorella Zanardo (https://www.lorellazanardo.it/il-corpo-delle-donne/documentario/).
16 Cfr. l’introduzione del volume a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, Franco Cesati Editore, Firenze, 2019.
17 Monica Farnetti, Sorelle. Storia letteraria di una relazione, Carocci Editore, Roma, 2022, p. 21.
18 Ibidem.
19 bell hooks, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, trad. it. Maria Nadotti, Tamu Edizioni, Napoli, 2021, pp. 51-53.
20 Monica Farnetti, Sorelle. Storia letteraria di una relazione, op. cit., p.24.
21 Goliarda Sapienza, L’università di Rebibbia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2016, p.138.
22 Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano, 2022, p. 20.
23 Su questo tema si veda Liliana Rampello, Le sorelle di Jane Austen: vita letteraria e vita simbolica, nel volume a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, op. cit.
24 Suggerisco a questo proposito il podcast della giornalista e scrittrice Jennifer Guerra dal titolo Nemiche geniali, Emons Record, in cui analizza alcuni film, libri e serie tv per parlare di amicizia femminile e sorellanza, contrastando l’idea che la rivalità sia una condizione immutabile del rapporto tra le donne.
25 Carolina Capria, Campo di battaglia. Le lotte dei corpi femminili, effequ, Firenze, 2021, p. 181.

Ci siamo riconosciuti negli occhi

Foto di Patrick Hendry su Unsplash
Ci siamo riconosciuti negli occhi
attraverso la nebbia 
delle otto del mattino
ci siamo sfidati a vicenda
a infilare collane di squame
perse lungo la strada
senza fare domande
spartendoci le briciole
siamo sopravvissuti per anni.
Se di questi talismani
assemblati coi ricordi
non resta nulla nelle tasche
però la soglia
l’abbiamo attraversata insieme
un palpito e un passo solo
tenendoci per mano.

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