fuoripunto.

au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

LE DEMOISELLES DI PORTO D’ASOLA

Foto di Annie Spratt su Unsplash

La casetta era stata costruita dal nonno di mio nonno, esattamente nel 1900, su un pezzetto di terra sabbiosa comprato per due soldi. Avrebbe voluto farci un orto, ma capì ben presto che il vento denso di salsedine non avrebbe permesso alle verdure di venir su bene.
All’epoca, però, cominciavano ad andare di moda i bagni di mare, e girava la voce di quanto bene facesse alla pelle l’acqua salina, e quanto giovasse ai polmoni quello stesso vento che uccide i pomodori: molto meglio, allora, utilizzare quel fazzoletto di terra come punto d’appoggio per la spiaggia, e fare come i veri signori, che nei giorni di festa scendevano da Asola, il vecchio paese in collina, fino alla costa ancora disabitata. Così chiamò un muratore, e insieme tirarono su quattro muri; fece il caminetto, come usava nei casotti che si costruivano in mezzo alle campagne, e mise una porta di legno verso la ferrovia che correva parallela alla spiaggia; volle anche una grande finestra nella parete opposta, verso il mare: una meravigliosa apertura sulla spiaggia scogliosa, sulle onde, sul cielo e nient’altro.
Nella sua casa di Roma, in un cofanetto intarsiato, Zia Mira, la sorella di mia madre, custodiva foto in bianco e nero di signori baffuti e signore con elaborati vestiti da spiaggia, in posa proprio sugli stessi scogli tra i quali, decenni dopo, io mi sarei sdraiata scomodamente per abbronzarmi.
Adesso quelle foto le custodisco io.
Riconosco, tra quelle signore sorridenti sotto gli ombrellini, zia Teresina, la sorella di mio nonno, spigolosa e con il cipiglio attento e ironico già a sedici o diciassette anni. Non c’è da meravigliarsi che non si sia sposata, e non fu certamente – come amava dire malignamente mia nonna, la cognata bellissima – per via del nasone e dei capelli crespi.
Mio nonno non compare mai in quelle foto: era ragazzetto, a quel tempo, e sarà stato a correre dietro a qualche gonnella; cosa che non avrebbe mai smesso di fare, neppure da sposato, neppure da vecchio.
I miei primi ricordi della casetta sul mare risalgono alla metà degli anni Cinquanta, quando l’aggiunta di un serbatoio per l’acqua piovana e di un piccolo gabinetto (migliorie pretese da zia Teresina e da nonna, che per una volta avevano deciso insieme senza prendersi a capelli), l’avevano resa accogliente, al punto che si poteva passar sopra alla mancanza di elettricità; tanto d’estate la luce naturale dura fino all’ora di cena.
A me, che ero bimba, sembrava la casetta di Hansel e Gretel, ma senza la strega cattiva e con in più il mare.
Sul camino, che mai nessuno accendeva, nonna aveva appeso due maschere colorate: le aveva portate come souvenir dall’Africa un amico di famiglia che era stato ingegnere laggiù, e nessuno le aveva volute tenere in casa. Quegli orrori! Dicevano mamma e zia Mira, col loro gusto da statuette di Capodimonte e stampe del Piranesi. Così erano finite alla casetta.
Nel mezzo secolo intanto trascorso, grazie anche alla costruzione della litoranea carrozzabile, la parte costiera della regione si era popolata, e ciascuno dei paesi medievali arroccati sui monti aveva generato il proprio omologo balneare; anche Asola, l’antico paese in collina, si era replicato in Porto d’Asola, dapprima frazione con quattro case di pescatori, e infine moderna località di villeggiatura, con la piazza della stazione, le pensioncine, le gelaterie, il mercato del sabato; tutto alla distanza di una passeggiata dalla nostra casetta.
C’era ancora, su ad Asola, la casa di famiglia, quella in cui erano nati nonno e zia Teresina, e prima ancora il loro padre, e il padre del loro padre: era un palazzetto tutto scale in un vicolo del centro, e ci era rimasta ad abitare zia Teresina, che da giovane lavorava come infermiera in paese e non aveva mai voluto trasferirsi a Roma. Tutti noi arrivavamo a giugno, per goderci la magica casetta sulla spiaggia.
Zia Mira si piazzava con i figli nella casa del paese in alto, e si faceva servire e riverire da zia Teresina, che non aspettava altro che viziare la nipote preferita e i suoi due figli maschi. Scendevano a Porto d’Asola di prima mattina, con la corriera o approfittando del passaggio di qualche paesano.
Noi, più discreti, affittavamo una stanza a Porto d’Asola. Ci stavamo io e mamma tutta la settimana, e il sabato sera ci raggiungeva papà, con il treno.
Nonno e nonna, con spirito da campeggiatori, dormivano alla casetta. L’acqua c’è, dicevano, il gabinetto c’è, e per vederci quando apriamo le brande accendiamo una candela.
Quindici anni di vacanze sempre uguali: giornate intere dentro l’acqua; le chiacchiere, sempre le stesse; le solite litigate furibonde tra mamma e zia Mira, le sorelle, o tra nonna e zia Teresina, le cognate. Nonno sempre in giro: saliva ad Asola per tentare la riconquista di qualche vecchia fiamma del paese, oppure si allontanava lungo la spiaggia, finché, verso la zona dei bagni attrezzati, incontrava qualche villeggiante sola a cui offrire un aperitivo.

Poi arrivò l’estate dei miei quindici anni – dunque era il Sessantasette –, l’estate senza uomini.
Papà aveva appena avuto una promozione, e le accresciute responsabilità non gli permettevano di raggiungerci neppure il sabato.
Nonno aveva raccontato che la macchina aveva un guasto, e il meccanico aveva difficoltà a reperire i ricambi. Vi raggiungerò appena ho risolto, aveva detto. E aveva spedito nonna insieme a noi, col treno. Probabilmente a Roma aveva in corso una delle sue storielle, ma il sospetto non intaccava minimamente la solita allegria di nonna.
Zia Mira, lei, non era mai andata d’accordo con il marito, sposato quando era appena una ragazzina, e d’estate era sempre venuta da sola con i due figli. Quell’anno, però, i miei cugini erano diventati grandi, avevano le fidanzatine a Roma (il tira-tira, diceva nonna), e avevano preferito restare con il padre.
Cinque donne sole – quattro donne e una ragazzina, in verità – tutto il giorno a ridere e litigare, a parlare e sparlare, a prendere il sole, a fumare (loro), a bere caffè (anche io, un poco).
Era un’estate caldissima, i prendisole di cotone si incollavano alla pelle; una volta fuori dall’acqua era fastidioso persino il costume, il mio primo bikini, che se ci fosse stato papà non avrei potuto indossare: rosso ciliegia sulla mia abbronzatura da marocchina. Così prendemmo l’abitudine, nelle ore del gran caldo, di chiuderci nella casetta, tutte e cinque, di toglierci tutti i vestiti, anche i costumi, e avvolgerci con vecchi lenzuoli bagnati. Perfino zia Teresina, che era vecchia, lo faceva, ma lei si spogliava solo dopo essersi avvolta nel lenzuolo.
Io, che avevo i capelli ricci e lunghissimi, per rinfrescarmi ancora di più li inzuppavo a forza di secchiate d’acqua. Mamma e zia Mira facevano a gara per spazzolarmeli; e quando la spazzola incontrava un nodo i capelli tiravano, e io gridavo: basta! Invece mamma e zia Mira pareva lo facessero a posta a smuovermi i riccioli: i capelli schizzavano acqua da tutte le parti, sulle loro braccia, sulle facce, sul collo, e loro facevano versetti di piacere. Per ore restavamo semisdraiate sulle brande, a spiluccare acini d’uva e fettine di melone. Loro, le adulte, fumavano una sigaretta dietro l’altra, e a turno facevamo il caffè sul fornelletto a spirito.
Uno dei primi e più caldi giorni di agosto, forse stordita dal caldo, forse eccitata dai troppi caffè, nonna se ne uscì con una specie di confessione: «Lo sapete?» disse indicando mamma «Quando mi sono sposata ero già incinta di lei».
«Il segreto di Pulcinella!» saltò su zia Teresina «Lo sappiamo tutte che eri incinta!»
«Ma la bimba non lo sapeva» e mi guardò.
Lo sapevo, invece, ma per non farla rimanere male feci la faccia stupita.
«Bell’esempio per la bimba!» zia Teresina staccò una delle maschere africane e la porse a nonna.
«Copriti la faccia, va! Vergognati! Hai fatto la puttana, con quelle mossette tutte gne-gne, e hai incastrato quel mio povero fratello!».
Mamma e zia Mira si tenevano la pancia dalle risate. «Madonna! Sono passati quarant’anni e ancora pensi alle mossette gne-gne!».
«È solo invidia, perché lei non l’ha voluta nessuno, con quel nasone…» reagì nonna. La voce si incrinò alla parola nasone, e gli occhi le diventarono lucidi. Però finse di stare allo scherzo, strappò la maschera di mano alla cognata e si coprì davvero.
«Invidia io? Sappi, bella mia, che il dottore dell’ambulatorio era innamorato cotto di me! Avrebbe pure lasciato la moglie! Sono stata io a convincerlo a non fare uno scandalo, e così ci siamo amati in segreto. Lui mi diceva sempre che non c’era una donna meglio di me, e sì che ne aveva avute! Che come con me… Ma fammi stare zitta, va, che mi fate dire cose che non sta bene dire…». Staccò l’altra maschera e si coprì il volto pure lei.
Zia Mira si bloccò con la tazzina di caffè a mezz’aria. «Questo, di segreto, sì che è rimasto ben custodito!».
In effetti eravamo tutte meravigliate. Dunque zia Teresina era stata qualcosa di diverso, qualcosa di più della granitica zitella che conoscevamo, tutta dedita alla professione di infermiera e alla cura dei nipoti.
Zia Mira prese un sorso di caffè e proseguì: «Merita una confidenza di pari valore. Chi se la sente?». Noi tutte zitte. «Allora parlo io; passatemi la maschera».
E nascosta dalla maschera disse: «Vi confesso che ho peccato. Giordano, il mio piccolo, non è figlio di mio marito».
«Basta!» irruppe mamma. «Hai veramente esagerato. Questi discorsi davanti alla bimba!».
Zia Mira abbassò la maschera, ci guardò negli occhi per assicurarsi l’attenzione di ognuna di noi e continuò: «La sentite, la sorella maggiore?
Quella perbene, quella che ha fatto il buon matrimonio? Sta sempre a giudicare me, l’ipocrita!»
Mamma scattò su come una molla. «Ipocrita? Io?»
«Ipocrita, sì. O non ti ricordi che la settimana prima di sposarti con Fulvio uscivi di nascosto con quell’altro? E io dovevo reggerti il gioco?»
Poi, rivolta nuovamente a tutte noi: «Ma forse crede che quelle non fossero corna. Non era sposata, e dunque, secondo lei, non erano corna».
Mamma era diventata terrea sotto l’abbronzatura.
«Basta ragazze, basta. Si sta esagerando davvero» dissero nonna e zia Teresina all’unisono.
«Va bene, sono le quattro, è ora di tornare al mare» concluse zia Mira.
Mamma mi annodò il reggiseno del bikini sul collo mentre io mi tenevo su i capelli. «Sono uscita solo una volta con un corteggiatore. Per chiarirgli che non doveva più starmi dietro, che avevo scelto tuo padre…» mi disse piano.
Intanto zia Teresina stava riappendendo le maschere.
Peccato, se fosse arrivato il mio turno avrei potuto anch’io confessare quello che avevo fatto con quel ragazzo carino del paese, nascosti in mezzo agli scogli, o al largo in barca, in quei giorni di gran caldo.

Dovetti confessarlo a zia Mira, alla fine di settembre, poco prima che ricominciasse la scuola, per chiederle aiuto. Mi portò da una signora, che risolse tutto, e per un paio di giorni mi ospitò a casa sua con una scusa, perché mamma non si accorgesse del mio malessere.
Però qualcosa probabilmente le disse, perché dall’estate dopo le vacanze a Porto d’Asola si interruppero.
Non accadde mai più, non ci ritrovammo mai più tutte insieme: cinque donne di tre generazioni, con i propri segreti, in una casetta isolata, in un tempo senza tempo.
Non accadrà mai più.
Di quelle cinque donne sono rimasta solo io, e con me la linea si interrompe, perché non ho mai avuto figli; dopo quell’estate ho sempre fatto in modo di non averne.
Ho comprato dai miei cugini le quote della casetta, e ho chiesto che nel prezzo pattuito fossero comprese anche tutte le foto d’epoca di quel posto; le copie originali, piccoline e sgualcite da tante mani.
Ci ho fatto portare l’elettricità e l’acqua corrente, e l’ho arredata in stile marinaro; ho recintato il piccolo pezzo di terra intorno e ho piantato oleandri e bouganville. Ogni tanto qualche turista tedesco o olandese mi chiede se voglio venderla.
Non se ne parla.
Le maschere africane hanno un posto d’onore nella mia casa di Roma. Un antiquario di Parigi mi ha detto che in Francia l’arte africana va molto, e che quelle maschere hanno un certo valore. Inutile spiegargli quanto valore abbiano per me.
Sogno di andare a vivere alla casetta, quando andrò in pensione. Invecchierò e morirò lì, sulla riva del mare, sentendo le chiacchiere di cinque donne.
Certo riporterò le maschere africane, per appenderle di nuovo al loro posto: sul camino.

Sorellanza: la riscoperta di un legame antico

Foto di Ramin Talebi su Unsplash

“non si tratta di provare qualcosa o di pronunciare parole
si tratta solo di essere
insieme.”

Bernardine Evaristo, Ragazza, donna, altro, Edizioni SUR

Una sera, mentre camminavo spedita verso un parcheggio in una zona isolata della città, nel silenzio ho udito un rumore di passi dietro di me. Con i sensi all’erta, mi sono voltata appena per sapere chi fosse, consapevole che è più prudente evitare contatti visivi con gli sconosciuti, e ho notato con sollievo che era una donna. Senza scambiare una parola, le nostre andature si sono allineate. Quando siamo arrivate alle auto, con uno sguardo ci siamo assicurate che anche per l’altra fosse tutto a posto e poi ognuna ha preso la propria strada. Quel gesto solidale, quel legame fugace, è stato un piccolo atto di sorellanza.
La sorellanza è un legame che di solito viene associato al femminismo militante e, anche se è un accostamento corretto, quello dei collettivi e dell’attivismo non è l’unico modo di percepirlo e di viverlo.
Secondo il vocabolario Treccani la sorellanza è il “rapporto naturale tra sorelle e il vincolo d’affetto che le unisce”1, oppure il legame tra due o più cose di genere femminile che hanno la stessa origine e le stesse caratteristiche, o anche il “sentimento di reciproca solidarietà fra donne, basato su una comunanza di condizioni, esperienze, aspirazioni”2.
Si può essere sorelle in quanto figlie dei medesimi genitori, e quindi legate da un vincolo di sangue. Ma si può essere sorelle anche per scelta, perché si hanno pensieri simili, le medesime esperienze, una storia comune, breve o lunga non importa.
La sorellanza non necessariamente conduce all’amicizia, o ne deriva. Due amiche si scelgono, si piacciono, provano affetto reciproco, possono avere storie anche molto diverse tra loro, ma sentono un’affinità. Amiche si diventa, sorelle si è.
Si può stabilire un legame di sorellanza anche senza una specifica intenzionalità, senza partire da un precedente sentimento, senza bisogno che ci sia già intimità, stima o conoscenza profonda. A volte è sufficiente stare vicine per un breve tratto di strada, avere un bisogno che l’altra comprende al volo perché ne ha fatto esperienza in quanto donna, scambiare due chiacchiere in un contesto femminile o femminista. Accade qualcosa, cade il velo dell’abitudine, lo sguardo si apre e ci si riconosce simili, anche se abbiamo storie diverse e prima di quel momento non eravamo mai entrate in relazione.
Ci accomuna l’essere state educate e vivere in un contesto sociale che ci relega perlopiù in ruoli subordinati o di cura, ci fa muovere in spazi fisici e mentali progettati dagli uomini, spesso solo per le esigenze degli uomini. E questi due spazi si condizionano l’un l’altro.
La geografa Leslie Kern nel suo libro La città femminista, scrive: “le donne vivono la città con una serie di barriere […] che modellano la loro vita quotidiana attraverso dinamiche che sono profondamente (sebbene non solo) di genere”3. Sono molte le donne che si sentono in pericolo e vulnerabili quando tornano a casa da sole la sera o la notte. Il tessuto urbano attuale non è pensato per la sicurezza femminile. A questo proposito Kern afferma che “i principali responsabili delle decisioni, che sono ancora per lo più uomini, stanno facendo scelte su tutto […] senza sapere nulla, né tanto meno preoccuparsi, di come queste decisioni influenzano la vita delle donne”4. Non si tiene conto delle loro difficoltà, e del fatto che le esperienze urbane delle donne sono determinate dalla loro identità di genere.
Alla luce di ciò, ogni volta che due o più donne si trovano in una situazione, in un luogo, o vivono un’esperienza che non è pensata per loro, ciò che possono fare è unirsi per sopperire alle mancanze di una società che non le ha incluse in fase di progettazione. Kern, parlando delle sue amiche e delle loro esperienze di gioventù, scrive: “Sapevamo che nessuna sarebbe stata lasciata sola o maltrattata. L’amicizia ha fatto sì che ci sentissimo libere nella città”5. Siamo in molte a non sentirci libere di vivere la città come vorremmo ed è per questo che, ad esempio, in Italia l’associazione Donnexstrada ha creato il servizio di videochiamata Viola walk home6 attivo tutti i giorni 24 ore su 24 a cui ci si può rivolgere per essere “accompagnati” a casa in un orario e un giorno specifici. Oppure si può chiamare un’amica: sapendo che siamo sole di notte da qualche parte non le dispiacerà essere stata svegliata.
Ma non c’è solo la sicurezza di cui tenere conto. A chi non è capitato, ad esempio, di dover chiedere un assorbente a un’altra persona, persino una sconosciuta? Aiutarsi non è solo un gesto di gentilezza, è rimediare a un’assenza, in questo contesto alla mancanza di distributori di assorbenti nei bagni pubblici. Sono gesti che in tante abbiamo fatto, così naturali da non stupirci e così spontanei da non domandarsi come mai il rimedio dobbiamo trovarcelo tra di noi, quasi alla chetichella.
Di questi gesti si può leggere nei libri. Nel romanzo I doni della vita di Irène Némirovsky, che non ha particolari riferimenti alla sorellanza, una scena mi ha colpita. Una donna sta per partorire mentre è sfollata a causa della guerra, la suocera cerca di aiutarla ma la situazione intorno è drammatica: “Non c’era tempo per piangere. Bisognava occuparsi di Rose, far scaldare dell’acqua, scaricare dalla macchina i medicinali di pronto soccorso […], cercare delle fasce in paese. Questo non sarebbe stato difficile: tutte le donne della casa si stavano dando da fare.”7
Quelle donne non conoscevano la partoriente, si erano incrociate per caso e per di più mentre scappavano. Eppure senza indugio si sono date da fare per lei, per una di quelle cose da donne di cui si capisce l’urgenza o talvolta l’ineluttabilità, ma che la società ignora. Ancora una volta sembra che dobbiamo sbrigarcela tra di noi.
Sorellanza è anche credere alle parole di un’altra donna quando in molti le mettono in dubbio, e farlo perché tante volte abbiamo visto screditare una vittima di violenza con domande su com’era vestita, che cosa stava facendo, scavando nel suo passato, o sottolineando il fatto che non si era opposta, come se dire di no fosse facile in certi contesti. Ci sono studi8 che analizzano le reazioni psichiche non volontarie come il freezing, ovvero l’incapacità di pensare e agire, una paralisi fisica ed emotiva che si attiva in situazioni come la violenza sessuale. Una qualsiasi ragazza a cui uno sconosciuto si sia strusciato addosso sulla metro o sull’autobus sa che è molto più probabile trovarsi impossibilitate anche solo a muoversi che non reagire, gridare, colpire.
Sorellanza è lasciare a ognuna la libertà di essere e di definirsi9 donna come vuole, anche se noi siamo diverse e faremmo altre scelte.
Spesso si sente dire che “le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne” e sembra davvero che sia così. Michela Murgia nel suo Stai zitta scrive che “è essenziale, nei sistemi maschilisti, che le donne credano che le loro peggiori nemiche siano proprio le altre donne, diventando inconsapevolmente complici del sistema che alla fine le opprime tutte”10.
La scrittrice Roxane Gay, nel suo libro Bad feminist citato da Leslie Kern, chiede di “abbandonare il mito culturale secondo il quale tutte le amicizie femminili devono essere cattive, tossiche o competitive. Questo mito è come i tacchi e le borse: belli ma progettati per rallentare le donne”11. Scegliere di praticare la sorellanza è un modo per uscire dalla retorica patriarcale che pretende di stabilire come deve essere il rapporto tra donne, per andare a scoprirne invece le potenzialità.
Nella letteratura, finché anche le donne non hanno trovato uno spazio meno angusto all’interno della scena letteraria occidentale, si parlava poco di amicizia femminile e lo sguardo con il quale questo legame veniva analizzato era quasi sempre stato quello maschile. A questo proposito Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé, scrive: “tutte le grandi donne della letteratura erano state, fino ai tempi di Jane Austen, non soltanto viste dall’altro sesso, ma anche viste in relazione all’altro sesso”12.
Siamo state dipinte in eterna competizione le une con le altre, sempre pronte a rivaleggiare o a tradirci per conquistare un uomo, più che a sentirci sorelle o diventare amiche.
“Supponiamo per esempio che gli uomini fossero rappresentati nella letteratura in qualità di amanti delle donne” scrive ancora Woolf, “e non fossero mai amici di altri uomini, soldati, pensatori, sognatori; non resterebbe molto delle tragedie di Shakespeare; e come ne sarebbe menomata la letteratura […] incalcolabilmente impoverita dalla non partecipazione delle donne”13.
Daniela Brogi nel libro Lo spazio delle donne attualizza il pensiero di Woolf: “Cosa può fare una donna nei romanzi scritti dagli autori italiani contemporanei? In molti casi prima di tutto la morta; poi la nonna, la madre, l’amica perfida, la moglie stronza, la figlia edipica, l’amante (nuda), la ragazzetta ninfomane, la sconosciuta stupida – e in ogni caso sempre una donna eterosessuale”14. Sembra che anche oggi nella letteratura (ma anche nel cinema, in televisione) ci sia una difficoltà da parte degli uomini nel rappresentare le donne e i loro legami, amicizia e sorellanza comprese, soprattutto se non ruotano intorno a un maschio. Se poi si ha a che fare con donne che non rispecchiano i canoni estetici patriarcali, donne lesbiche, donne trans o persone queer, la strada da fare affinché siano presenti e correttamente rappresentate nelle narrazioni è ancora più lunga.
È servito di allontanarsi dall’onnipresente male gaze15 e di avere a disposizione anche sguardi diversi perché qualcosa iniziasse a cambiare e, in tema di sorellanza, se ne cominciasse a parlare smettendo di rifarsi solo ai modelli classici in cui questo legame si forgiava nella sventura e serviva per alleviare la pena16.
Nel saggio Sorelle. Storia letteraria di una relazione di Monica Farnetti, vi sono vari esempi di quelle che l’autrice definisce sorelle felici, in contrapposizione alle sorelle forti ma tragiche della classicità.
Farnetti scrive che la sorellanza fin dalle origini è il modo che le donne hanno avuto per “risollevarsi dal loro stato di soggezione culturale e politica, la condizione stessa del loro accesso alla vita sociale e intellettuale”17. Praticare la sorellanza significa quindi essere presenti e vive, come donne, nel mondo, abitandovi in modo pieno e autorevole. Ma è anche questo il motivo per cui “la prorompente energia della sorellanza è stata, fintanto che ciò è stato possibile, censurata, sminuita, parodizzata, contraddetta, bonariamente ammessa fra i valori positivi ma accessori di una cultura, sottostimata e reclusa tra gli affetti non primari”18.
E anche per sentirne parlare all’interno dei movimenti femministi si è dovuto aspettare la seconda metà del Novecento. Tra i tanti esempi e contributi su questo tema, riporto solo alcune frasi del libro Il femminismo è per tutti di bell hooks, scrittrice, studiosa, attivista americana, per accennare a che tipo di legame sia la sorellanza femminista. “Il movimento femminista” scrive bell hooks “ha creato le condizioni per la solidarietà femminile. Non ci siamo unite contro gli uomini, ci siamo unite per proteggere i nostri interessi come donne. […] La sorellanza femminista si radica nell’impegno condiviso a lottare contro l’ingiustizia patriarcale, non importa quale forma essa assuma”19.
Praticare la sorellanza è come stabilire un patto morale ed etico, o riscoprirne uno già esistente.
La sorellanza è un legame orizzontale, tra donne che si incontrano e si relazionano, ma è anche un legame verticale, un’eredità che si tramanda, un modo per passare le une alle altre quegli anticorpi che è necessario acquisire per contrastare lo sguardo patriarcale che anche le donne sono state educate a utilizzare per osservare sé stesse e le altre.
“La sorellanza fa sì che ogni donna possa incarnarla guardando, allo stesso tempo, verso il passato che gliela insegna e verso il futuro a cui la consegna, risultandone ogni giorno l’iniziatrice e l’erede.”20
Teniamoci cari, quindi, quegli esempi di sorellanza e di amicizia che la letteratura ci offre. L’amica geniale, di Elena Ferrante, dove il legame tra Lila e Lenù va oltre gli stereotipi e mostra anche le sue imperfezioni, quella terra di mezzo che esiste tra l’essere nemiche e l’essere costantemente allineate e solidali, ossia il luogo reale dove i rapporti di amicizia e sorellanza si vanno a collocare; L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, nel quale la protagonista scopre legami di sorellanza, impensati prima di sperimentarli, con le altre detenute, e il carcere può diventare il luogo dove “tutte capiscono perfettamente chi sei – e tu lo senti – in poche parole non sei sola come fuori”21; Nessuno torna indietro di Alba de Céspedes, in cui otto ragazze che vivono nel medesimo collegio femminile in attesa di iniziare a vivere le proprie vite una volta terminati gli studi, intrecciano legami dopo essersi “scelte tra tante, per affinità”22.
Questi sono solo alcuni esempi di romanzi che parlano di amicizia e sorellanza in contesti peraltro molto diversi tra loro. Ma di sorelle parla anche Jane Austen nei suoi libri. Senza una sorella, di sangue come Jane per Elizabeth, o per scelta come Miss Taylor per Emma, le protagoniste non avrebbero con chi confrontarsi, con chi dialogare oltre sé stesse23.
Possiamo cercare le storie di amicizia e di sorellanza tra le pagine delle scrittrici che amiamo o lasciarci ispirare da chi le ha già trovate e analizzate24.
“Dovremmo quindi impegnarci a destinare parte delle energie che normalmente dedichiamo a compiacere uno sguardo sconosciuto, a coccolarlo […]” ci esorta la scrittrice Carolina Capria nel suo Campo di battaglia, “per costruire legami che non solo possano sostenerci ma che ci aiutino ad acquisire una nuova prospettiva”25.
È possibile allenare lo sguardo a vedere bellezza nelle altre donne, educarci a praticare la sorellanza come forma di empatia, creando una rete di mutuo sostegno formata da un insieme di donne che lottano fianco a fianco, che alleviano le reciproche sofferenze ma che, soprattutto, sono capaci di ridere e di essere felici insieme.

Letture consigliate oltre ai testi riportati nelle note:

  • Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti, ed. Feltrinelli
  • Manuale per ragazze rivoluzionarie, di Giulia Blasi, ed. Rizzoli
  • Dovremmo essere tutti femministi, Chimamanda Ngozi Adichie, traduzione di Francesca Spinelli, Giulio Einaudi Editore
  • Sputiamo su Hegel e altri scritti, di Carla Lonzi, a cura di Annarosa Buttarelli, ed. La Tartaruga
  • Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, di Jude Ellison Sady Doyle, traduzione di Laura Fantoni, ed. Tlon

NOTE

1 https://www.treccani.it/vocabolario/sorellanza/
2 Ibidem.
3 Leslie Kern, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, trad. it.di Natascia Pennacchietti, Treccani, Roma, 2021, p. 16.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 86.
6 https://www.violawalkhome.com/it/
7 Irène Némirovsky, I doni della vita, Adelphi Edizioni, Milano, 2012, p. 211.
8 Ad esempio questo: https://www.internazionale.it/video/2021/11/25/stupro-cervello-reagire-aggressore
9 Per un approfondimento sul tema dei generi sessuali e la loro definizione, su cosa voglia dire essere donna al di là dell’aspetto biologico, si veda Jennifer Guerra, Un’altra donna, UTET, Milano, 2023.
10 Michela Murgia, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi, Torino, 2021, p. 60.
11 Leslie Kern, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, op. cit., p. 82.
12 Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, trad. it. Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, Feltrinelli Editore, Milano, 2021, p. 118.
13 Ivi, pp. 119-120.
14 Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2022, p. 98.
15 La traduzione letterale è “sguardo maschile”, inteso come sguardo sulle donne che le identifica e le mostra come oggetti sessuali. In particolare ciò avviene nel cinema, nella pubblicità e in televisione. Molto interessante a questo proposito il documentario Il corpo delle donne. L’immagine del femminile nella Tv italiana, del 2009, realizzato da Lorella Zanardo (https://www.lorellazanardo.it/il-corpo-delle-donne/documentario/).
16 Cfr. l’introduzione del volume a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, Franco Cesati Editore, Firenze, 2019.
17 Monica Farnetti, Sorelle. Storia letteraria di una relazione, Carocci Editore, Roma, 2022, p. 21.
18 Ibidem.
19 bell hooks, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, trad. it. Maria Nadotti, Tamu Edizioni, Napoli, 2021, pp. 51-53.
20 Monica Farnetti, Sorelle. Storia letteraria di una relazione, op. cit., p.24.
21 Goliarda Sapienza, L’università di Rebibbia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2016, p.138.
22 Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano, 2022, p. 20.
23 Su questo tema si veda Liliana Rampello, Le sorelle di Jane Austen: vita letteraria e vita simbolica, nel volume a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, op. cit.
24 Suggerisco a questo proposito il podcast della giornalista e scrittrice Jennifer Guerra dal titolo Nemiche geniali, Emons Record, in cui analizza alcuni film, libri e serie tv per parlare di amicizia femminile e sorellanza, contrastando l’idea che la rivalità sia una condizione immutabile del rapporto tra le donne.
25 Carolina Capria, Campo di battaglia. Le lotte dei corpi femminili, effequ, Firenze, 2021, p. 181.

Ci siamo riconosciuti negli occhi

Foto di Patrick Hendry su Unsplash
Ci siamo riconosciuti negli occhi
attraverso la nebbia 
delle otto del mattino
ci siamo sfidati a vicenda
a infilare collane di squame
perse lungo la strada
senza fare domande
spartendoci le briciole
siamo sopravvissuti per anni.
Se di questi talismani
assemblati coi ricordi
non resta nulla nelle tasche
però la soglia
l’abbiamo attraversata insieme
un palpito e un passo solo
tenendoci per mano.

Devo immaginare che la mia splendente cima

Foto di Phil Baum su Unsplash
Devo immaginare che la mia splendente cima
sia la notte rovesciata
contro il guscio troppo aperto. Dure
le parole. Il bacio piange
dal mio solo sguardo, il resto è neve
dove mi hai graffiata,
bestia di un aratro d’oro
che splendeva sopra un altro campo.
E a te piaceva,
come quando un fiore appare troppo
in alto, come quando il rosso
preme contro il cielo. 
E tu hai voluto,
perché il fiore stava sulla cima;
e io ho voluto come il fiordaliso 
arreso sul selciato
quando crede alle montagne,
quando è fiamme il petto
e scava anche l’aratro, poi
la pioggia,
che non cade se non cado adesso,
che non può bagnarmi
se per qualche assurdo caso del mattino
il mare si ritira
e ogni parola appare.

Appunti

Cinque declinazioni di notte e altrettanti consigli di lettura

Foto di Tania Malréchauffé su Unsplash

FANTASIA

«Nelle pause della conversazione, il fiume, giocherellando intorno alla barca, mormora strane fiabe e segreti, intonando sottovoce la vecchia canzone dell’infanzia, cantata per millenni e che ancora per millenni canterà prima che la sua voce diventi rauca e vecchia. E noi che abbiamo appreso ad amare il suo mutevole volto e che così spesso ci siamo annidati nel suo petto generoso, crediamo in qualche modo di capire, anche se, con le semplici parole non saremmo in grado di ripetervi la storia che ascoltiamo.»

Tre uomini in barca di J.K. Jerome, 1889 (Traduzione di Nicoletta Della Casa Porta, Demetra, 1999)

Ascoltare la Natura nella notte è forse il più antico innesco della fantasia. D’altra parte, i racconti della sera sono preludio al sogno e al ricordo, ed è proprio lì nello spazio tra onirico e reale – così spaventoso e al contempo confortevole – che ritorna la mente nei suoi momenti di buio. 

RESPIRO

«La luna si levò tardi e risplendeva sopra i rami. Nei nidi dormivano le cincie, rannicchiate come lui. Nella notte, all’aperto, il silenzio del parco attraversavano cento fruscii e rumori lontani, e trascorreva il vento. A tratti giungeva un remoto mugghio: il mare. Io dalla finestra tendevo l’orecchio a questo frastagliato respiro e cercavo di immaginarlo udito senza l’alveo familiare della casa alle spalle, da chi si trovava a pochi metri più in là soltanto, ma tutto affidato ad esso con solo la notte intorno a sé; unico oggetto amico a cui tenersi abbracciato un tronco d’albero dalla scorza ruvida, percorso da minute gallerie senza fine in cui dormivano le larve»

Il barone rampante, di Italo Calvino, 1957 (Mondadori, 1993)

Sarà capitato un po’ a tutti di tendere l’orecchio nella notte, a cogliere il respiro dei nostri affetti,  nella paura – che solo le ore più remote sanno suscitare e spesso immotivata – di perdere il battito di chi si ama. E quando poi quegli stessi affetti smettono di starci accanto perché vado a vivere da solo o forse è meglio prenderci una pausa o ancora io mi avvio ci vediamo dall’altra parte, l’abitudine non si perde e l’orecchio si tende ancora, al silenzio.

SPAVENTO

«Entrai nel barile con tutto il corpo, e trovai che mele non ve n’erano quasi più; ma stando lì dentro al buio, cullato dal rullio della barca e dal mormorio dell’acqua mi sarei presto addormentato se qualcuno dalla pesante corporatura non fosse venuto a sedersi rumorosamente contro. Il barile ebbe una scossa quand’egli vi urtò con le spalle, e io stavo per saltar fuori, allorché costui cominciò a parlare.»

L’isola del tesoro, di Robert L. Stevenson, 1883 (Traduzione di Angiolo Silvio Novaro, Mondadori, 1991)

Succede a volte di trovarsi al momento giusto nel posto sbagliato, in incognito come Jim nel barile, e di venire a conoscenza di informazioni sensibili da cui dipendono i destini altrui. Il tormento assale, nel dubbio di non saper bene cosa fare.Portare la verità alla luce diventa, quindi, un atto di coraggio o un non trascurabile invito alla responsabilità.

INCHIOSTRO

«Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro. Stette in ascolto e non sentì nessun rumore: solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pescecane soffriva moltissimo d’asma, e quando respirava, pareva proprio che tirasse la tramontana.»

Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, di Carlo Collodi, 1883 ( Feltrinelli, 2020)

Il tempo della rilettura è anche il tempo della riscoperta, della meraviglia che si rinnova tra le generazioni, attraversa i secoli e le geografie. L’affabulazione della parola scritta ricorre ciclicamente e, spesso, la seconda lettura incanta più della prima. 

CROLLO

«Un sordo rumore, echeggiante come un grido che di rupe in rupe frana nell’abisso, s’avvicinò alla nave e dileguò. L’ultima stella, fosca, dilatata come ritornasse nella nebbia incandescente delle origini, lottò con l’enorme notte di tenebre che incombeva sulla nave – e si spense.» 

Typhoon, di Joseph Conrad, 1902 ( Traduzione di Ugo Mursia, Einaudi, 1993)

Le tenebre coincidono spesso con un senso di fine, quasi come se l’assenza di luce sia anche assenza di speranza. Ma se paragonata al nulla, la notte contiene ancora in sé la promessa di un’alba, anche quando tutto intorno sembra disfarsi.

In sottofondo Lazuli, Beach House

non se n’era mai visto uno

Foto di Max Gotts su Unsplash
non se n’era mai visto uno
prima di stanotte eppure 
nel buio pesto un passo
falso il mio braccio 
l’ha scontrato
lo scorpione 

il cuore ha soffiato
nelle orecchie il fiato 
nel naso e tremavo 
ma non lo sapevo

lo dice mio fratello 
la sua torcia
fissa la creatura scura
nella fessura del muro 
della rimessa, dice 
questo
ti ha pizzicato
è proprio questo
un destino 

Di notte

Ci sono le cose da fare 
al buio: schivare le rose 
tenere una torcia in tasca 
per ogni conquista una tacca 

attraversare il silenzio, correre 
dietro una benda scegliere 
unʼarma, rubare provviste 
seguire il branco, urlare 

ululare alla luna 
perdersi al Noce, dare 
dire la conta, trovare 
riparo dalla bestia feroce 

croce sul cuore 
giurin giurare. 

Prato notturno

Foto di Krzysztof Kowalik su Unsplash
Una notte piovigginosa
prendemmo la stradina oltre la casa.
Passammo le erbacce polverose del bordo strada –
alle nostre spalle le ortiche parlavano di giardini
dietro case che non abitavamo più, cortili
di altri anni, altre vite passate, altre me e te.
Alla fine del sentiero, giungemmo al prato
di fili d’orzo e centauree, ci distendemmo
tra steli più alti dei nostri occhi.
La testa all’indietro, i volti tavolozze alla pioggia,
vene e arterie a muschi e funghi, piedi radici verso il terreno.
Nel buio, un prato di presenze perdute,
ciò che era e ciò che non era più.

Notturno – con Barricate Misteriose

D’après “Les Barricades Mystérieuses”
Ordre 6ème de clavecin di François Couperin 
4 o 5 del mattino. Pioggia. Lascio il letto. Vado alla finestra. Al di là del buio, la città umida. Nel riflesso dei lampioni si fanno strada le nuvole. Verso un passaggio tra le montagne. I richiami delle beccacce di mare. In lontananza. Forse un gruppo. Volano sulla superficie del mare. L’avviso di un pericolo imminente. Più vicino. Il pianto. Dei gabbiani. Un suono staccato e poi legato. Sulla membrana della notte. Ritorno a letto. Sono un timpano. Tremo. Sono. Ancora. Da lontano un cuore astrale. Abbandona il movimento delle orbite. Mi raggiunge. Mi protegge. Sono fuori in una valle, respiro e nient’altro. Piove. Tic tac della sveglia. Frana di passi. Gesti compressi. Rubinetti che si chiudono, porte, strade pedonali, scarpe, scarpe, dettagli di oggetti frantumati, cerchi di vite che si rincorrono. Ogni somiglianza è un campo di suoni lontani. Le palpebre. Mi riparano. Quiete. Quiete prima del risveglio.

Leggere la notte, tra buio, luce, paura e attesa

Foto di gryffyn m su Unsplash

Il mio gioco preferito prima
di dormire è fingermi
un sasso in mezzo
al bosco. Essere coperta
di muschio, stare
dentro l’oscurità, stare
nella pancia del lupo
sapendo che nessuno
mi mangerà1.

Silvia vecchini

«Dentro di noi dev’esserci un gran buio!» sostiene Alice, l’amica del protagonista di Io, Alice e il buio buio, un albo illustrato che narra di due bambini che giocano a catalogare i diversi tipi di buio che possono incontrare.

Buio, ombra, notte sono imparentati, uniti tutti dall’assenza della luce che rende visibile e più comprensibile il mondo. In un mondo (sia arcaico, sia rurale) privo di luce artificiale la notte diventa una durata in cui tale assenza di luce si prolunga. E assurge a simbolo, topos letterario. Riempie i miti e le fiabe popolari legandosi a quella dimensione misteriosa con cui l’uomo ha sempre a che fare. Se dentro non arriva la luce si crea spazio per le angosce e le preoccupazioni dovute al fatto che a volte non si mettono a fuoco le cose, e non si coglie la forma di quello che sta intorno.

La notte diventa pertanto l’ora dei fantasmi, il tempo della lotta con Dio2, il momento in cui i mostri escono da sotto il letto e da dentro all’armadio; è l’ora dei sogni e degli incubi, dell’inquietudine, degli imbrogli, dei voti e dei tormenti (come non pensare ai Promessi Sposi!), di quando facciamo i conti con qualcosa che non riusciamo a governare perché non è contenibile con i sensi né con la razionalità.

La notte da sempre non è solo il momento in cui si incontrano le storie, lette o raccontate (sotto le coperte con la torcia, cullati dalla voce di un genitore, attorno al fuoco in cerchio…), ma è protagonista essa stessa di storie: basta leggere quante volte questa parola entra nei titoli dei libri per trovarsi davanti a una bibliografia sterminata e tuttavia ancora parziale. Certamente molte sono storie di paura, gialli e misteri, oppure storie su fatti decisivi, di ambientazione storica o distopica, che non saranno oggetto di trattazione qui. Propongo, piuttosto, un breve percorso, tutt’altro che esaustivo, nella mia biblioteca di letteratura per ragazzi, tra romanzi, racconti, raccolte poetiche, graphic novel, albi illustrati, che letti in profondità non si limitano a parlare al target di destinatari indicati nelle quarte di copertina, ma sono portatori di nodi simbolici che insegnano che attraverso la letteratura si può conoscer parte di sé e avere nuovi sguardi sul mondo, con una scintilla di speranza.

Molti libri rivolti a piccolissimi lettori narrano di un buio personificato che esce di notte e può avere paura dei bambini o dialogare con loro e invitarli nel luogo dove vive3 e gli albi illustrati ci raccontano con le immagini questa relazione che sconvolge ma costruisce un nuovo equilibrio. Straordinario l’albo senza parole Shadow dell’illustratrice sudcoreana Suzy Lee, in cui un gioco di ombre cinesi porta al di là della soglia dove le ombre possono invadere il nostro spazio, ma con cui anche possiamo entrare in relazione e superare la paura che nasce da ciò che non si conosce.

«Stai per entrare dentro la notte come si entra dentro il mare» scrive Andrea Bajani nell’albo illustrato da Mara Cerri La pantera sotto il letto. Padre e figlia tornano a casa. «Poi arriva la notte che prende la casa e la mette in un sacco. La bambina ha paura che insieme alla casa la notte prenda anche lei». E si prosegue in un dialogo simbolico di testo silenzi e illustrazioni che parla di notte, di buio e di paura che «è un animale che ti gira attorno». Mara Cerri la dipinge come una pantera nera come la notte: entrambe fanno paura, ma entrambe si possono esplorare. La bambina guardando la pantera negli occhi, riesce ad andare dentro al buio, ad affrontare la paura e a giocarci anche; lo sa fare forse meglio del padre: a volte, infatti, non basta accendere una lampadina per dissipare le ombre che hanno inghiottito il mondo.

Un romanzo fondamentale quando si parla di notte nella letteratura per ragazzi è l’ormai celebre Sette minuti dopo la mezzanotte, ideato da Siobhan Dowd e poi scritto da Patrick Ness e vincitore nel 2012 della Carnegie Medal e della Kate Greenaway Medal. Protagonista è Conor, che vive una vita difficile tra la malattia della madre, il bullismo subito a scuola e il rapporto non facile con il resto della famiglia. Il titolo fa riferimento al momento della notte in cui viene visitato da un mostro pauroso dalle sembianze del vecchio tasso che si erge sulla collina e che torna a raccontargli storie che lo mettono di fronte alla terribile verità che lo attanaglia tutte le notti. Un libro potente, che porta i lettori di fronte alla complessità dell’essere umano, alle paure più profonde, agli inganni che la mente costruisce e che nella notte ci trovano soli con noi stessi e con le scelte tanto difficili quanto necessarie.

Ancora sogni e ancora esseri misteriosi, stavolta all’apparenza angelici ne Il Nido di Kenneth Oppel, libro che lessi subito dopo aver incontrato e amato Skellig di David Almond: storie di fratelli, di esseri volanti e di cose che succedono (anche) di notte, anche se di segno diverso.

Virando sempre più verso il fiabesco tra le pagine di Amos Oz troviamo Nimi colpito da “nitrillo” e che vive nel folto del bosco, mentre al villaggio la notte rimane silenziosa, senza animali. Le domande dei bambini restano senza risposta finché due di essi andranno alla ricerca della triste verità.

Di altro genere e diverso mood, La notte delle malombre di Manlio Castagna ci porta in una storia realmente accaduta – un viaggio della speranza in treno da Napoli a Potenza nell’inverno del ‘44 misteriosamente interrotto in una galleria – che si tinge, nella narrazione alternata tra i diversi personaggi, di toni paurosi e tinte soprannaturali.

Sempre ispirati a una vicenda realmente accaduta – il black out del 9 novembre 1965 a New York – gli otto racconti de La notte più bella, Quando l’America restò al buio, Otto storie degli anni sessanta di Daniela Palumbo (Piemme). Da varie angolature, si sottolinea come una pausa forzata rispetto alle attività di un mondo dove fa sempre giorno consente di ripensare alla propria vita e a vederla sotto una “luce” diversa.

Altre volte la notte è il teatro dei sogni, della possibilità creativa che segue altre logiche e crea mondi, scenari inediti. Il sogno in letteratura è stato oggetto di vari studi e raccolte4, e la letteratura per l’infanzia non si sottrae a questa narrazione, a partire dal classicissimo Little Nemo in Slumberland di Windsor McCay: una raccolta di strisce dei primi del Novecento sui sogni fantastici del piccolo Nemo, interrotti da ripetute cadute dal letto. Troviamo sogni fantastici nel wordless picturebook del pluripremiato David Wiesner Free Fall o in Just a Dream di Chris Van Allsburg5. I sogni, insomma, non sono sempre brutti e angoscianti, a volte perché il GGG di Roald Dahl passa nella notte a soffiarne di belli e felici nelle camere dei bambini addormentati, o perché i donatori di sogni che Lois Lowry inventa in Gossamer hanno la meglio sui “sinistrieri”.

Un classico internazionale di un altro gigante dell’illustrazione, Maurice Sendak, è In the night kitchen, del 1970, dove Mickey, durante la notte, si rifugia in una città-cucina abitata da panettieri giganti. L’autore – che riempie l’albo di riferimenti autobiografici – diceva di essere rimasto colpito dalla pubblicità di una ditta che durante l’Esposizione universale newyorkese nel ‘39 prometteva: «Cuciniamo mentre dormi» e si rammaricava che tante cose belle succedessero mentre i bambini sono a letto6. Cose belle o cose strane, come in un altro wordless di Wiesner premiato con la Caldecott Medal, Martedì, che narra con straordinarie illustrazioni di un sorprendente volo notturno.

Parole e immagini evocative e poetiche caratterizzano i libri scritti e illustrati da Jimmy Liao, tra cui Una splendida notte stellata, che racconta con suggestioni alla Van Gogh la storia dell’incontro tra una bambina in lutto per la morte del nonno e un nuovo amico con cui superare la solitudine e godere di ciò che li circonda.

La notte spesso accoglie il carico delle nostre attese, dell’incertezza che anticipa l’arrivo di un giorno importante, tra la gioia e la preoccupazione, la trepidazione bella per qualcosa che si aspetta. E qui c’è tutto il tema delle veglie e delle vigilie7, da quella di Natale, religiosa o laica, dove si attende un dono – materiale, metaforico o simbolico (la nascita del bambino Salvatore) – e l’arrivo di chi lo elargisce (chi prima chi dopo: Santa Claus in varie versioni, Gesù Bambino, Santa Lucia, la Befana, i Magi), alla vigilia di Ognissanti – All Hallow Eve, dove il dialogo è con il mondo di chi non c’è più, con tutte le declinazioni che il mondo dei morti ha assunto negli ultimi anni -, alle tante attese private e personali, a partire da quelle di leopardiana memoria. In queste e altre feste sono ambientate tantissime storie, narrate, illustrate, alcune nella forma di graphic novel. In Era il nostro patto di Ryan Andrews un gruppo di ragazzi si accorda per di seguire in bici le lanterne di carta depositate la notte dell’Equinozio d’Autunno lungo il fiume. Nella notte di ferragosto, invece, trova l’apice la vicenda narrata in 21 giorni alla fine del mondo di Silvia Vecchini e Antonio “Sualzo” Vincenti, che vede coinvolti Lisa e il suo vecchio amico Ale alle prese con i cambiamenti delle loro vite, i segreti e le paure che devono affrontare.

La notte come metafora di oscurità e buio può indicare anche un buio che arriva perché si sta per perdere la vista. E qui la lettura di Prima che sia notte di Silvia Vecchini ci racconta, in un delicato alternarsi di prosa e poesia, la storia di Carlo, che non sente e vede solo da un occhio che comincia ad avere i problemi, e della sorella che prova a sostenerlo in tutti i modi.

I bambini che hanno paura del buio lasciano accesa una luce, che tiene lontano ciò che la paura potrebbe far nascere nella testa e quindi tutto attorno. Ma se ci abituiamo al buio diamo valore a tutto ciò che anche tenue può dare luce. Una rassegna di ciò che illumina la notte è magistralmente proposto nell’albo divulgativo Luci nella notte, un catalogo di fenomeni luminosi di origini e distribuzione tra le più varie, dalle stelle alla bioluminescenza e alla biofluorescenza. L’antesignano di opere come queste è certamente in Italia Nella notte buia di Bruno Munari, edito per la prima volta nel 1956, dove l’artista fa viaggiare i lettori tra le pagine arricchite di fori, tagli, finestrelle e acetati alla ricerca di ciò potremmo incontrare di notte, nell’erba, tra le rocce, dentro una grotta con le pitture preistoriche. Molto apprezzato La notte è piena di promesse, di Jérémie Decalf: racconta, tra poesia e nonfiction, il viaggio delle sonde Voyager 1 e 2 nello spazio interstellare, portatrici di un messaggio dell’umanità a potenziali civiltà extraterrestri. La divulgazione può, dunque, essere artistica e poetica e creare meraviglia, trattando tutti gli argomenti possibili.

Siamo partiti dalla poesia e alla poesia siamo tornati, perché da sempre la notte ospita sotto lo stesso cielo conflitti interiori, domande esistenziali, silenzi di meraviglia e i poeti hanno parole precise dentro cui ritrovarsi. E nelle notti fredde e nuvolose, quando il bagliore degli astri è coperto, le voci dei libri possono accendere una luce e tenerci compagnia.

Percorso bibliografico dei libri citati nell’articolo in ordine di apparizione (edizione italiana, dove presente)

  • Silvia Vecchini e Marina Marcolin, Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, Topipittori, 2014
  • Alessandra Racca e Anna Castagnoli, Io, Alice e il buio buio, Emme edizioni, 2019.
  • Suzy Lee, Ombra, Corraini, 2010
  • Andrea Bajani e Mara Cerri, La pantera sotto il letto, Orecchio Acerbo, 2015
  • Siobhan Dowd – Patrick Ness, Sette minuti dopo la mezzanotte, Mondadori, 2012
  • Kenneth Oppel, Il nido, Rizzoli, 2015
  • David Almond, Skellig, Salani,
  • Amos Oz, D’un tratto nel folto del bosco, Feltrinelli, 2005
  • Manlio Castagna, La notte delle malombre, Mondadori, 2020
  • Daniela Palumbo, La notte più bella, Quando l’America restò al buio, Otto storie degli anni sessanta, Piemme, 2023
  • Windsor McCay, Little Nemo in Slumberland, Taschen
  • David Wiesner, Free Fall, HarperCollins, 1988
  • Chris Van Allsburg, Just a Dream, Clarion Books
  • Roald Dahl, Il GGG, Salani
  • Lois Lowry, Gossamer, 21 lettere, 2020
  • Maurice Sendak, La cucina della notte, Adelphi, 2020
  • David Wiesner, Martedì, Orecchio Acerbo, 2016
  • Jimmy Liao, Una splendida notte stellata, Edizioni Gruppo Abele, 2013
  • Ryan Andrews, Era il nostro patto, Il Castoro, 2021
  • Silvia Vecchini e Antonio “Sualzo” Vincenti, 21 giorni alla fine del mondo, Il Castoro,
  • Silvia Vecchini, Prima che sia notte, Bompiani, 2020
  • Lena Sjöberg, Luci nella notte, Camelozampa, 2020
  • Bruno Munari, Nella notte buia, Corraini, 2007
  • Jérémie Decalf, La notte è piena di promesse, Terre di Mezzo, 2021

1 in Silvia Vecchini e Marina Marcolin, Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, Topipittori, 2014. Questo e gli altri riferimenti bibliografici dei testi citati si trovano nella bibliografia in calce in ordine di apparizione, specificando, laddove presente, l’edizione italiana. La poesia e la notte, tra buio e luci, rimandano a una tradizione plurisecolare di poesia lirica e di domande che da intime si fanno esistenziali, ma si è scelto di non passarle in rassegna in questo contributo data la vastità della materia.

2 L’episodio biblico della lotta tra Giacobbe e Dio è raccontato in Gen 32, 23-33.

3 Due delle storie molto lette a casa erano Il terribile mostro buio di Silvia Forzani, in Grandi storie, ed. AVE 2006 e Il buio di Lemony Snicket e Jon Klassen, Salani 2016.

4 L’Università di Macerata curò ad es. un ampio progetto di ricerca confluito in Sogno e Racconto. Archetipi e funzioni a c. di M. Riccini e G. Cingolani, Le Monnier, 2002.

5 Per intenderci si tratta dell’autore di albi che hanno ispirato film celeberrimi: Jumanji e Polar Express, quest’ultimo incentrato su un viaggio notturno.

6 Lo racconta bene questo articolo di Andrea Fiamma: https://fumettologica.it/2020/07/cucina-notte-sendak-adelphi/

7 Andiamo dagli albi illustrati di testi poetici – le mille versioni della celeberrima ‘Twas the night before Christmas (www.poetryfoundation.org/poems/43171/a-visit-from-st-nicholas) di Clement Clark Moore oppure On a Windy night di Nancy Raines Day (Abrams Book, 2010), che ci porta nelle atmosfere di Halloween – alla vastissima produzione di racconti a tema.

Più nero di un cielo senza stelle

Foto di Davide Sibilio su Unsplash

Gelato e passeggiata sul lungomare. La proposta arriva, come sempre, mentre Leo si alza da tavola per raccogliere tovaglioli accartocciati e piatti vuoti. Enrico scatta in piedi e corre nella sua stanza. Va verso la valigia aperta, si china e agguanta la maglietta di Batman un po’ spiegazzata. Nonostante lo zio gli abbia messo a disposizione un armadio intero, non si è mai deciso a sistemare le sue cose per bene. Del resto, ormai è troppo tardi. È l’ultimo giorno di vacanza, trascorso nella casa al mare dei nonni. Anche se loro non ci sono più, lo zio Leo ci torna ogni anno per staccare la spina dal lavoro di insegnante e per assaporare il gusto sapido dei pomodori di giù.
L’idea di dover tornare a casa, lo fa indugiare di fronte allo specchio della vecchia camera per gli ospiti. Si chiede se al ritorno da scuola, a settembre, cercherà ancora lo sguardo verde oliva di Tilde. Se ogni mattina, dopo essersi stropicciato gli occhi, farà ancora il suo nome con la voce impastata. E ancora: se il tepore del suo pelo biondo lo sfiorerà durante il sonno, piombandolo nella disperazione al risveglio. 
«Enrico, ci sei? Dai che si fa tardi e domani si parte».
La voce dello zio gli arriva come una scossa. Passa il palmo sulla t-shirt e si riavvia il ciuffo con le dita. «Eccomi!»
Uscire dalla stanza gli costa un grande sforzo. Le sneakers restano attaccate al parquet come per effetto di una magia potente.
Non solo dovrà tornare in una casa senza più lettiera puzzolente, croccantini che si frantumano sotto i piedi e peli sul cuscino. Questa sarà anche l’ultima sera in cui la vedrà. Ammesso che ci sia, è chiaro. La speranza di poterle finalmente parlare si sta affievolendo. È come fosse già con un piede su al Nord. Solo, senza Tilde, con gli amici ancora in vacanza e l’immagine di lei sempre più distante. Come un vecchio cartone animato visto su Youtube. 
La voce dello zio gli arriva come una scoppola sul collo.
«Dai, muoviti. Non vorrai mangiarlo a mezzanotte, il gelato!»
«Arrivooo!!!»
Enrico stringe i pugni, si dà una mossa e raggiunge Leo nell’entrata. In casa persiste l’odore dolceamaro delle melanzane fritte.
Escono nella notte calda. Una brezza lieve arriva dal mare. Il cielo sgombro dalle nubi è pieno di stelle. «Sono nei della notte», gli aveva detto la madre quando era più piccolo.
«Non sei contento che ci siamo quasi?» 
Leo gli sorride tenendo una sigaretta spenta in bocca. Sta cercando di smettere.
Enrico si stringe nelle spalle e alza gli occhi al cielo, incantato. Da qualche parte dell’universo, forse, esiste un mondo parallelo. In quel mondo Tilde è ancora viva e la ragazzina misteriosa gli offre un po’ del suo gelato.
«Ehi, ti sei imbambolato?»
Leo ride e lo scuote per schernirlo. La testa calva riluce nella sera stellata.
«Scusa, zio. Tutto ok. Sì, sono contento». Il tono di voce lo tradisce.
«Sei sicuro, Enrico? Non sembra proprio, guardandoti»
«Hai ragione. È che la mamma è diventata insopportabile, ultimamente». 
«Lo sarebbe chiunque nelle sue condizioni, dovresti avere pazienza».
Enrico sospira e ripensa all’eccitazione che ha riempito casa sua negli ultimi mesi. Alla madre che si gonfiava come una mongolfiera, che rideva e piangeva nel giro di un minuto.
In realtà anche lui non vede l’ora, ma prova una punta di rancore per la sua famiglia. Nessuno lo ha capito, o consolato davvero, dopo la morte improvvisa di Tilde.
Al mattino, la madre non faceva che correre in bagno per la nausea. O usciva presto con il padre per andare dal medico. Quando doveva andare a scuola, Enrico non aveva il tempo per pensarci. Beveva in fretta il latte di avena e, con un gesto rapido, spalmava le fette con la marmellata di arance. Tornando a casa, però, fissava il tappetino vuoto senza le ciotole sopra. Ripensava a tutte le volte in cui Tilde rompeva con i denti i croccantini, a quel rumore ritmico e rassicurante. Ricordava come lo accogliesse ogni volta che lui varcava la porta di casa. Il corpo che le si allungava. Le fusa che riempivano il silenzio. Lui la seguiva nella stanza dei genitori e la guardava arrampicarsi sulla pancia della madre, per poi impastarla come un pizzaiolo.  
Non si rassegna al fatto che un giorno Tilde abbia smesso di muoversi. Che in clinica, mentre il padre era impegnato a messaggiare, sia stato lui a guardare il suo corpo afflosciarsi per sempre. Certo, la madre non poteva sottoporsi a un’emozione così forte. Enrico lo sa, eppure la morte di Tilde è una cosa ancora troppo grande per lui.
Intanto, sul lungomare, il chiacchiericcio dei turisti s’infittisce. Si mescola alle risate e al rumore delle onde. Ci sono persone di tutte le età. Stanno sedute sui muretti che dividono la spiaggia dalle strade del paese. Stringono bicchieri di plastica vuoti, reggono coni semi-sciolti o passeggiano tranquilli. L’odore del doposole si mescola a quello salmastro del mare.
Giunti di fronte alla solita gelateria illuminata, mentre Leo si sporge sulle vaschette, Enrico la vede. Sotto un lampione accanto al muretto: frangetta chiara, spalle piccole e occhi tondi. Ha in mano un gelato intatto. La crema bianca è fluorescente sotto la luce del lampione. 
La ragazzina lo fissa. Sembra sorrida, in modo quasi serio. Malinconico.
Enrico vorrebbe l’attenzione dello zio, gli sfiora un braccio e alla fine rinuncia. Lo ha già fatto altre volte. Non appena Leo alzava lo sguardo, lei scompariva nel nulla. Come non fosse mai apparsa. 
Mentre lo zio riflette a voce alta sui gusti da scegliere, Enrico sostiene lo sguardo della ragazzina, finché lei non si volta e prosegue verso la spiaggia.
Ora o mai più.
Approfitta dell’indecisione di Leo per sgattaiolare e seguirla.
Scavalca il muretto e la segue. La sabbia è umida e compatta sotto le suole. Il mare è un’ampia distesa oscura e sciabordante. Più nero di un cielo senza stelle. 
La ragazzina si ferma sul bagnasciuga. Enrico si blocca qualche passo indietro.
Lei si volta. Il gelato è scomparso. Lo avrà gettato? Gli occhi le rilucono sinistri nella notte. C’è qualcosa di strano, in loro, e al tempo stesso di familiare.
La ragazzina si siede sulla sabbia e con un gesto lo invita a fare altrettanto. Enrico si lascia scivolare accanto a lei. Guarda il cielo stellato che all’orizzonte tocca il mare nerissimo.
Vorrebbe parlare, ma ha un nodo in gola, come se il pelo di Tilde gli fosse rimasto in bocca. Prova un grande senso di nostalgia. E anche di felicità. Lì, accanto alla ragazzina silenziosa, si sente minuscolo eppure in pace.
A un tratto, una virgola di luce attraversa il cielo. Senza pensarci due volte, Enrico esprime un desiderio confuso. In realtà sono due, i desideri. Uno più assurdo dell’altro. Scuote la testa, afferra una manciata di sabbia e la scaglia contro il mare. A settembre farà la seconda media ed è alto quasi un metro e cinquantacinque. Non dovrebbe più credere alle favole.
«Non devi essere arrabbiato».
Le labbra di Enrico si spalancano per lo stupore. Si volta a guardarla. È la prima volta che ascolta la sua voce. Gli pare di riconoscerne il timbro, sebbene non ricordi dove l’abbia già sentito.
«Ciò a cui teniamo trova sempre il modo di ritornare».
Incredulo, Enrico chiude gli occhi per trattenere quella scena che gli sembra un sogno. Quando li riapre, la spiaggia è scomparsa. Le voci urlanti dei bambini hanno scalzato via il rumore dolce del mare. La luce della gelateria gli arriva come uno schiaffo sul viso. Leo gli sta porgendo un cono. Lunghe gocce di cioccolato strabordano e scivolano sulla cialda. 
«Dai, che si scioglie!»
Enrico afferra il cono e non sa che farsene. Ne assaggia un po’ e lascia che il resto gli imbratti le dita.
Non stanno fuori a lungo. La mattina dopo andranno all’aeroporto per tornare a casa. Manca poco, ormai. Sua madre dovrebbe partorire a breve.

***

Si sveglia di soprassalto, sudato e con il cuore in gola. Ha sognato gli occhi di Tilde che si chiudevano per sempre. 
C’è silenzio in casa. Enrico si alza e va con cautela nella stanza in cui dorme la sorella. Cammina sulle punte, a piedi nudi. La notte è tiepida. 
Si sporge oltre il bordo della culla. La sorella è stesa su un fianco. I pugnetti chiusi e la boccuccia umida. 
D’un tratto lei spalanca gli occhi o lo fissa. Enrico trasalisce. Nello sguardo della neonata c’è un riflesso strano, sinistro. Un luccichio che non gli sembra umano. Gli si rizzano i peli sulle braccia. Il sudore gli gela la schiena.  Ricorda gli occhi di Tilde sveglia ogni notte alla solita ora. Gli stessi occhi della ragazzina sul lungomare. 
Gli torna in mente la stella cadente e sorride al pensiero dei desideri che ha espresso.
Non appena la sorella abbassa le palpebre e si riaddormenta, senza un lamento né un mugolio, Enrico lascia la stanza e torna in camera sua. Stanotte non avrà gli incubi. 

Ciò a cui teniamo trova sempre il modo di ritornare.

Imagerie

Notte

I crediti alle immagini sono nell’articolo

«Amo questo mondo fisico. Amo questa vita insieme a te.
E il vento e la campagna. Il cortile. La ghiaia sul vialetto. L’erba.
Le notti fresche. Stare a letto al buio a parlare con te»

Kent Haruf, Le nostre anime di notte, Nn editore

Ricordo di nottate passate a leggere, a guardare film. Ricordo nottate passate con gli amici, in cui abbiamo condiviso sogni, speranze, preoccupazioni, gioie. Non c’è niente che mi fa pensare che tutto sia possibile quanto le ore notturne: è il momento in cui, prima di addormentarmi, riesco a mettere ordine nella mia testa. Per questo motivo, quando ho saputo che il primo tema al quale avrei lavorato era proprio “la notte” non potevo essere più felice: l’immaginario che si apre nella mia mente è sterminato. Il lavoro che ho cercato di fare si è rivelato una sfida: per la prima volta qualcuno mi chiedeva di leggere qualcosa e di mostrare visivamente a cosa pensavo in quel momento. Spero di essere riuscita a riportare quello che questi pezzi mi hanno trasmesso. 

Ecco le scelte:

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