au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

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Un’assenza bruciata dal sole

Foto di Feliphe Schiarolli su Unsplash

Nella mia classe del liceo, all’inizio del quarto anno, arrivò una ragazza nuova, G.. Veniva dalla classe che ci precedeva, una classe piccolissima, erano in 10 o 11 al massimo, tutte donne. Molto diverse da noi, che eravamo tanti, compositi, casinari. Quelle della quinta, stipate per via del numero insolito nell’auletta più striminzita dell’intero edificio, non si sentivano mai. Niente confusione, niente clamori di alcun genere, nessun episodio che facesse parlare di loro, chiuse lì dentro spesso anche a ricreazione. G. era così anche lei, come le sue compagne. Ma l’avevano bocciata, unica di quelle poche, e finì con noi.
Non legò praticamente con nessuno, in un’età feroce nella quale ci si annusa per riconoscersi, lei aveva un altro odore. Al nostro naso, in realtà, G. non sembrava sapere di niente. Veniva da un paese di montagna di quelli che per le scuole, l’ospedale, il lavoro confluiscono verso la mia città, uno dei borghi più distanti: tre quarti d’ora di corriera e la strada ghiacciata d’inverno. Mi ricordo che la prendevamo un po’ in giro perché da lei, lassù, la tv non prendeva il segnale di Italia Uno: adesso non saprei nemmeno dire se fosse vero o no, può darsi, o può essere che fosse solo un modo stupido di atteggiarci a cittadini davanti a lei che veniva da un paesello.
Arrivava in silenzio tra i primi, appena scesa dal pullman, rimaneva in silenzio nel suo banco, a fare cosa non me lo ricordo. Perché nemmeno io, che pure mi davo arie da leader, ero rappresentante d’istituto, mi impegnavo nell’associazionismo studentesco, e mi sforzavo di esserci, per tutti, sempre, a lei, non facevo caso quasi mai.
L’anno dopo, in quinta, era già primavera inoltrata, la maturità alle porte, arrivammo alla sesta ora e una professoressa, forse quella d’inglese, volendo interrogare, chiamò lei. Ma lei non c’era, il suo banchetto singolo (li avevamo tutti così) in fondo all’aula era vuoto, la sedia spostata, sul piano un libro chiuso, niente zaino, nient’altro. La professoressa ci chiese dove fosse finita la nostra compagna, nessuno seppe dirlo. Mandò qualcuno a cercarla in bagno, niente. Poi, dopo qualche minuto, una ragazza di quelle sedute in fondo anche lei, ebbe il coraggio di dire a voce alta: «Professore’, secondo me G. oggi non è venuta proprio». Rimanemmo muti per qualche secondo.
Aveva ragione. G., in classe, quel giorno, non c’era mai stata, il libro era rimasto lì dal giorno prima. Il docente della prima ora l’appello non l’aveva fatto, si era limitato a un «Tutti presenti?» al quale, evidentemente, avevamo risposto di sì. Sul registro, quindi, l’assenza non era stata segnata. E in testa non l’avevamo segnata nemmeno noi.
G. era a casa sua, raffreddata. Al rientro, forse, nessuno le raccontò di quello che era successo. All’esame di stato fu bocciata, l’anno dopo non si iscrisse, la maturità non la prese più, credo. Di lei non seppi più nulla.
Oggi non so dove sia, cosa faccia. Sono passati venticinque anni da quella mattina. A distanza di tanto tempo, mi sembra ancora, e in modo distinto, una delle cose più sottilmente violente di cui sia stato complice. Quel non accorgercene, quel non sentire, quel non vedere: di come cancellammo G. per un giorno, in realtà per molto più tempo, sento ancora il rimorso.
G. mi è tornata a pesare sul cuore, l’estate scorsa. Un paio di anni fa, più o meno di questi tempi, abbiamo cominciato il progetto di allargare la nostra casa, un appartamento grande, ma non più sufficiente per starci comodi tutti, mia moglie, io e i nostri tre figli. Siamo riusciti ad acquistare l’interno sopra il nostro, lo abbiamo fatto ristrutturare, e poi a giugno scorso è cominciato il ricongiungimento. Finita la scuola abbiamo sfollato i figli a casa dei nonni in Puglia, abbiamo liberato l’appartamento vecchio, e mentre tutto era ancora un cantiere, io e mia moglie ci siamo accampati nel paio di stanze già finite al piano nuovo. È stata un’esperienza di fatica rara, straniante. La polvere, la stanchezza, il viavai settimanale verso i figli distanti trecento chilometri, il pensiero dei soldi (tanti) che stavamo spendendo, gli imprevisti prevedibilissimi di ogni ristrutturazione.

Fino al buco.

A luglio, quando ormai la prostrazione era oltre i livelli di guardia, gli operai hanno iniziato a demolire il pavimento, a pochi metri dalla stanza dove dormivamo. Hanno rimosso il massetto, hanno segato il travetto e hanno aperto il foro dal quale sarebbe poi passata la scala interna per collegare i due piani. Era il momento decisivo: due anni di ansie, di sacrifici, stavano per finire: le case stavano per diventare casa, una.
E invece, davanti a quello squarcio, ho perso il sonno.
La prima notte sono rimasto in piedi sul ciglio di quel temporaneo burrone domestico, ho guardato giù, nel vuoto del cantiere sottostante, coi calcinacci ancora a terra, e dentro ci ho visto un vuoto più profondo, più pauroso. La stanchezza, l’inadeguatezza. Soprattutto, la coscienza improvvisa che la terra possa aprirsi all’improvviso sotto i tuoi piedi, senza avvisaglie, senza permesso, senza lasciarti il tempo di dire o fare niente. E farti sparire, senza lasciare segni.
Quella notte, improvvisamente, ho ripensato a G., e a come la resi assente esattamente come stavo temendo di diventare assente io in quel buio, in quel buco.

«Chi ti cerca è il sole, non ha pietà della tua assenza
il sole, ti trova anche nei luoghi casuali dove sei passata,
nei posti che hai lasciato
e in quelli dove sei inavvertitamente andata
brucia
ed equipara al nulla
tutta quanta la tua fervida giornata».

Sono i primi versi1 di una delle ultime poesie di Mario Luzi, dalla raccolta pubblicata poco prima che morisse, novantenne. Un’assenza bruciata dal sole. Mangiata dall’oblio. Digerita dal nulla.
Il pensiero del vuoto mi ha perseguitato per i dieci giorni successivi.
Poi è arrivata la scala.
L’hanno portata smontata. Due lunghe travi di metallo, sagomate a scalini, più la struttura portante, e le ringhiere, e le pedate di legno bianco da avvitare. I fabbri ci hanno messo meno di un’ora a mettere tutto insieme. Il buco si è riempito sotto i miei occhi: non c’era più. Mia moglie ha salito la scala davanti a me, ho pianto un poco. Mi sono passato il dorso della mano sul viso, poi abbiamo iniziato a pulire tutto, a rimettere tutto a posto.
Ho iniziato a salire e a scendere quella scala, una volta, tante volte, col passo incerto dell’inizio – perché è venuta un poco ripida – poi con quello più scontato dell’abitudine. Sono passate le settimane, i mesi, la quotidianità ha ripreso il sopravvento. Continuavo a pensare, ogni tanto, al vuoto di quella notte. Finché una sera, all’improvviso, in un silenzio innaturale per casa mia che è un sabba permanente di grida di bambini, in un silenzio pieno come quello di quella notte di luglio, ho sceso un gradino e un pensiero mi ci ha fermato sopra.
Mi è tornata in mente una pagina dell’Antico Testamento che da ragazzino mi aveva segnato nel profondo, una vecchia vicenda minore della Genesi. C’è Giacobbe che, per quel piatto di lenticchie diventato poi paradigmatico, compra da Esaù la primogenitura, la benedizione di loro padre Isacco. Il fratello gliela giura, e per sfuggire alla vendetta Giacobbe fugge, spinto dalla madre a cercare moglie presso parenti lontani. Sarà una lunga storia, ma prima che cominci accade un fatto: Giacobbe si addormenta e sogna una scala lunghissima, che dalle nubi scendeva fino a terra, con gli angeli di Dio che salgono e scendono. Quando si sveglia, il sognatore fuggiasco esclama: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo»2.
Non lo sapevo nemmeno io, ora, forse, lo sto comprendendo un po’ meglio. G. non l’avevo cancellata, perché G. c’era, c’era molto oltre la sua invisibilità ai nostri occhi distratti di adolescenti cinici. C’era per chi la vedeva, per chi l’amava, per chi camminava con lei. Non era assente lei: me l’ero persa io.

Come m’ero perso me stesso, fissando il buco nel pavimento senza capire che quel taglio, quel diaframma rimosso, non era un vuoto ma uno spazio liberato senza il quale non potrebbe mai trovare posto il futuro.

Uno strappo da suturare per tenere insieme quello che siamo e quello che siamo chiamati ad essere, la nostra miseria e la bellezza di cui siamo capaci. Perché l’assenza, domani, diventi “più acuta presenza”, come scrisse quasi un secolo fa Attilio Bertolucci3. Perché si possa dire, come nell’ultimo verso della poesia di Luzi, di quella “fervida giornata”: «Eppure è stata / è stata / nessuna ora sua è vanificata».

1 Mario Luzi, “Non andartene”, in Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, 2004
2 Genesi 28,11-19
3 Attilio Bertolucci, “Assenza” (da Sirio, raccolta del 1929), in Le poesie, Garzanti, 1998

Imagerie

Legami

I crediti sono nel post

Questo numero mi ha dato la possibilità, attraverso le sue voci, di rappresentare legami sentimentali, legami tra sorelle, legami con la famiglia, con la casa. Vorrei, dunque, prendere questo spazio per parlare di un legame per me fondamentale: quello con le mie passioni. Il motivo per cui scelgo di citare i miei interessi, proprio qui, proprio in questo numero è che mi rendo conto che sono tutti collegati tra loro dalla parola “immaginario”. Leggere crea nella mia mente personaggi, gesti, sfondi; i film mi danno la possibilità di ampliare il mio immaginario; ascoltare una canzone forma un’immagine. Per questo motivo, credo che il legame con quella che è una parte importante della mia vita, con l’arte in ogni sua sfaccettatura, debba essere citato in un luogo che ha come titolo Imagerie.

Le immagini:

Editoriale di Pamela Frani
Foto di Will O su Unsplash
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  • Poesie

Fosca Navarra
Foto di Phil Baum su Unsplash
https://unsplash.com/it/foto/fiore-dai-petali-viola-jVGe1bQaVzs

Eleonora Baggio Compagnucci
Foto di Patrick Hendry su Unsplash
https://unsplash.com/it/foto/silhouette-delluomo-durante-il-giorno-nebbioso-nyKJlVwKTAU

  • Articolo 

Letizia Baldioli
Foto di Ramin Talebi su Unsplash
https://unsplash.com/it/foto/foto-in-scala-di-grigi-di-una-persona-che-tiene-lo-specchio-_TSV8FZryUo

  • Racconto

Roberta Silvagni
Foto di Annie Spratt su Unsplash
https://unsplash.com/it/foto/casa-marrone-vicino-allo-specchio-dacqua-CoGIz2DJKp8

Sorellanza: la riscoperta di un legame antico

Foto di Ramin Talebi su Unsplash

“non si tratta di provare qualcosa o di pronunciare parole
si tratta solo di essere
insieme.”

Bernardine Evaristo, Ragazza, donna, altro, Edizioni SUR

Una sera, mentre camminavo spedita verso un parcheggio in una zona isolata della città, nel silenzio ho udito un rumore di passi dietro di me. Con i sensi all’erta, mi sono voltata appena per sapere chi fosse, consapevole che è più prudente evitare contatti visivi con gli sconosciuti, e ho notato con sollievo che era una donna. Senza scambiare una parola, le nostre andature si sono allineate. Quando siamo arrivate alle auto, con uno sguardo ci siamo assicurate che anche per l’altra fosse tutto a posto e poi ognuna ha preso la propria strada. Quel gesto solidale, quel legame fugace, è stato un piccolo atto di sorellanza.
La sorellanza è un legame che di solito viene associato al femminismo militante e, anche se è un accostamento corretto, quello dei collettivi e dell’attivismo non è l’unico modo di percepirlo e di viverlo.
Secondo il vocabolario Treccani la sorellanza è il “rapporto naturale tra sorelle e il vincolo d’affetto che le unisce”1, oppure il legame tra due o più cose di genere femminile che hanno la stessa origine e le stesse caratteristiche, o anche il “sentimento di reciproca solidarietà fra donne, basato su una comunanza di condizioni, esperienze, aspirazioni”2.
Si può essere sorelle in quanto figlie dei medesimi genitori, e quindi legate da un vincolo di sangue. Ma si può essere sorelle anche per scelta, perché si hanno pensieri simili, le medesime esperienze, una storia comune, breve o lunga non importa.
La sorellanza non necessariamente conduce all’amicizia, o ne deriva. Due amiche si scelgono, si piacciono, provano affetto reciproco, possono avere storie anche molto diverse tra loro, ma sentono un’affinità. Amiche si diventa, sorelle si è.
Si può stabilire un legame di sorellanza anche senza una specifica intenzionalità, senza partire da un precedente sentimento, senza bisogno che ci sia già intimità, stima o conoscenza profonda. A volte è sufficiente stare vicine per un breve tratto di strada, avere un bisogno che l’altra comprende al volo perché ne ha fatto esperienza in quanto donna, scambiare due chiacchiere in un contesto femminile o femminista. Accade qualcosa, cade il velo dell’abitudine, lo sguardo si apre e ci si riconosce simili, anche se abbiamo storie diverse e prima di quel momento non eravamo mai entrate in relazione.
Ci accomuna l’essere state educate e vivere in un contesto sociale che ci relega perlopiù in ruoli subordinati o di cura, ci fa muovere in spazi fisici e mentali progettati dagli uomini, spesso solo per le esigenze degli uomini. E questi due spazi si condizionano l’un l’altro.
La geografa Leslie Kern nel suo libro La città femminista, scrive: “le donne vivono la città con una serie di barriere […] che modellano la loro vita quotidiana attraverso dinamiche che sono profondamente (sebbene non solo) di genere”3. Sono molte le donne che si sentono in pericolo e vulnerabili quando tornano a casa da sole la sera o la notte. Il tessuto urbano attuale non è pensato per la sicurezza femminile. A questo proposito Kern afferma che “i principali responsabili delle decisioni, che sono ancora per lo più uomini, stanno facendo scelte su tutto […] senza sapere nulla, né tanto meno preoccuparsi, di come queste decisioni influenzano la vita delle donne”4. Non si tiene conto delle loro difficoltà, e del fatto che le esperienze urbane delle donne sono determinate dalla loro identità di genere.
Alla luce di ciò, ogni volta che due o più donne si trovano in una situazione, in un luogo, o vivono un’esperienza che non è pensata per loro, ciò che possono fare è unirsi per sopperire alle mancanze di una società che non le ha incluse in fase di progettazione. Kern, parlando delle sue amiche e delle loro esperienze di gioventù, scrive: “Sapevamo che nessuna sarebbe stata lasciata sola o maltrattata. L’amicizia ha fatto sì che ci sentissimo libere nella città”5. Siamo in molte a non sentirci libere di vivere la città come vorremmo ed è per questo che, ad esempio, in Italia l’associazione Donnexstrada ha creato il servizio di videochiamata Viola walk home6 attivo tutti i giorni 24 ore su 24 a cui ci si può rivolgere per essere “accompagnati” a casa in un orario e un giorno specifici. Oppure si può chiamare un’amica: sapendo che siamo sole di notte da qualche parte non le dispiacerà essere stata svegliata.
Ma non c’è solo la sicurezza di cui tenere conto. A chi non è capitato, ad esempio, di dover chiedere un assorbente a un’altra persona, persino una sconosciuta? Aiutarsi non è solo un gesto di gentilezza, è rimediare a un’assenza, in questo contesto alla mancanza di distributori di assorbenti nei bagni pubblici. Sono gesti che in tante abbiamo fatto, così naturali da non stupirci e così spontanei da non domandarsi come mai il rimedio dobbiamo trovarcelo tra di noi, quasi alla chetichella.
Di questi gesti si può leggere nei libri. Nel romanzo I doni della vita di Irène Némirovsky, che non ha particolari riferimenti alla sorellanza, una scena mi ha colpita. Una donna sta per partorire mentre è sfollata a causa della guerra, la suocera cerca di aiutarla ma la situazione intorno è drammatica: “Non c’era tempo per piangere. Bisognava occuparsi di Rose, far scaldare dell’acqua, scaricare dalla macchina i medicinali di pronto soccorso […], cercare delle fasce in paese. Questo non sarebbe stato difficile: tutte le donne della casa si stavano dando da fare.”7
Quelle donne non conoscevano la partoriente, si erano incrociate per caso e per di più mentre scappavano. Eppure senza indugio si sono date da fare per lei, per una di quelle cose da donne di cui si capisce l’urgenza o talvolta l’ineluttabilità, ma che la società ignora. Ancora una volta sembra che dobbiamo sbrigarcela tra di noi.
Sorellanza è anche credere alle parole di un’altra donna quando in molti le mettono in dubbio, e farlo perché tante volte abbiamo visto screditare una vittima di violenza con domande su com’era vestita, che cosa stava facendo, scavando nel suo passato, o sottolineando il fatto che non si era opposta, come se dire di no fosse facile in certi contesti. Ci sono studi8 che analizzano le reazioni psichiche non volontarie come il freezing, ovvero l’incapacità di pensare e agire, una paralisi fisica ed emotiva che si attiva in situazioni come la violenza sessuale. Una qualsiasi ragazza a cui uno sconosciuto si sia strusciato addosso sulla metro o sull’autobus sa che è molto più probabile trovarsi impossibilitate anche solo a muoversi che non reagire, gridare, colpire.
Sorellanza è lasciare a ognuna la libertà di essere e di definirsi9 donna come vuole, anche se noi siamo diverse e faremmo altre scelte.
Spesso si sente dire che “le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne” e sembra davvero che sia così. Michela Murgia nel suo Stai zitta scrive che “è essenziale, nei sistemi maschilisti, che le donne credano che le loro peggiori nemiche siano proprio le altre donne, diventando inconsapevolmente complici del sistema che alla fine le opprime tutte”10.
La scrittrice Roxane Gay, nel suo libro Bad feminist citato da Leslie Kern, chiede di “abbandonare il mito culturale secondo il quale tutte le amicizie femminili devono essere cattive, tossiche o competitive. Questo mito è come i tacchi e le borse: belli ma progettati per rallentare le donne”11. Scegliere di praticare la sorellanza è un modo per uscire dalla retorica patriarcale che pretende di stabilire come deve essere il rapporto tra donne, per andare a scoprirne invece le potenzialità.
Nella letteratura, finché anche le donne non hanno trovato uno spazio meno angusto all’interno della scena letteraria occidentale, si parlava poco di amicizia femminile e lo sguardo con il quale questo legame veniva analizzato era quasi sempre stato quello maschile. A questo proposito Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé, scrive: “tutte le grandi donne della letteratura erano state, fino ai tempi di Jane Austen, non soltanto viste dall’altro sesso, ma anche viste in relazione all’altro sesso”12.
Siamo state dipinte in eterna competizione le une con le altre, sempre pronte a rivaleggiare o a tradirci per conquistare un uomo, più che a sentirci sorelle o diventare amiche.
“Supponiamo per esempio che gli uomini fossero rappresentati nella letteratura in qualità di amanti delle donne” scrive ancora Woolf, “e non fossero mai amici di altri uomini, soldati, pensatori, sognatori; non resterebbe molto delle tragedie di Shakespeare; e come ne sarebbe menomata la letteratura […] incalcolabilmente impoverita dalla non partecipazione delle donne”13.
Daniela Brogi nel libro Lo spazio delle donne attualizza il pensiero di Woolf: “Cosa può fare una donna nei romanzi scritti dagli autori italiani contemporanei? In molti casi prima di tutto la morta; poi la nonna, la madre, l’amica perfida, la moglie stronza, la figlia edipica, l’amante (nuda), la ragazzetta ninfomane, la sconosciuta stupida – e in ogni caso sempre una donna eterosessuale”14. Sembra che anche oggi nella letteratura (ma anche nel cinema, in televisione) ci sia una difficoltà da parte degli uomini nel rappresentare le donne e i loro legami, amicizia e sorellanza comprese, soprattutto se non ruotano intorno a un maschio. Se poi si ha a che fare con donne che non rispecchiano i canoni estetici patriarcali, donne lesbiche, donne trans o persone queer, la strada da fare affinché siano presenti e correttamente rappresentate nelle narrazioni è ancora più lunga.
È servito di allontanarsi dall’onnipresente male gaze15 e di avere a disposizione anche sguardi diversi perché qualcosa iniziasse a cambiare e, in tema di sorellanza, se ne cominciasse a parlare smettendo di rifarsi solo ai modelli classici in cui questo legame si forgiava nella sventura e serviva per alleviare la pena16.
Nel saggio Sorelle. Storia letteraria di una relazione di Monica Farnetti, vi sono vari esempi di quelle che l’autrice definisce sorelle felici, in contrapposizione alle sorelle forti ma tragiche della classicità.
Farnetti scrive che la sorellanza fin dalle origini è il modo che le donne hanno avuto per “risollevarsi dal loro stato di soggezione culturale e politica, la condizione stessa del loro accesso alla vita sociale e intellettuale”17. Praticare la sorellanza significa quindi essere presenti e vive, come donne, nel mondo, abitandovi in modo pieno e autorevole. Ma è anche questo il motivo per cui “la prorompente energia della sorellanza è stata, fintanto che ciò è stato possibile, censurata, sminuita, parodizzata, contraddetta, bonariamente ammessa fra i valori positivi ma accessori di una cultura, sottostimata e reclusa tra gli affetti non primari”18.
E anche per sentirne parlare all’interno dei movimenti femministi si è dovuto aspettare la seconda metà del Novecento. Tra i tanti esempi e contributi su questo tema, riporto solo alcune frasi del libro Il femminismo è per tutti di bell hooks, scrittrice, studiosa, attivista americana, per accennare a che tipo di legame sia la sorellanza femminista. “Il movimento femminista” scrive bell hooks “ha creato le condizioni per la solidarietà femminile. Non ci siamo unite contro gli uomini, ci siamo unite per proteggere i nostri interessi come donne. […] La sorellanza femminista si radica nell’impegno condiviso a lottare contro l’ingiustizia patriarcale, non importa quale forma essa assuma”19.
Praticare la sorellanza è come stabilire un patto morale ed etico, o riscoprirne uno già esistente.
La sorellanza è un legame orizzontale, tra donne che si incontrano e si relazionano, ma è anche un legame verticale, un’eredità che si tramanda, un modo per passare le une alle altre quegli anticorpi che è necessario acquisire per contrastare lo sguardo patriarcale che anche le donne sono state educate a utilizzare per osservare sé stesse e le altre.
“La sorellanza fa sì che ogni donna possa incarnarla guardando, allo stesso tempo, verso il passato che gliela insegna e verso il futuro a cui la consegna, risultandone ogni giorno l’iniziatrice e l’erede.”20
Teniamoci cari, quindi, quegli esempi di sorellanza e di amicizia che la letteratura ci offre. L’amica geniale, di Elena Ferrante, dove il legame tra Lila e Lenù va oltre gli stereotipi e mostra anche le sue imperfezioni, quella terra di mezzo che esiste tra l’essere nemiche e l’essere costantemente allineate e solidali, ossia il luogo reale dove i rapporti di amicizia e sorellanza si vanno a collocare; L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, nel quale la protagonista scopre legami di sorellanza, impensati prima di sperimentarli, con le altre detenute, e il carcere può diventare il luogo dove “tutte capiscono perfettamente chi sei – e tu lo senti – in poche parole non sei sola come fuori”21; Nessuno torna indietro di Alba de Céspedes, in cui otto ragazze che vivono nel medesimo collegio femminile in attesa di iniziare a vivere le proprie vite una volta terminati gli studi, intrecciano legami dopo essersi “scelte tra tante, per affinità”22.
Questi sono solo alcuni esempi di romanzi che parlano di amicizia e sorellanza in contesti peraltro molto diversi tra loro. Ma di sorelle parla anche Jane Austen nei suoi libri. Senza una sorella, di sangue come Jane per Elizabeth, o per scelta come Miss Taylor per Emma, le protagoniste non avrebbero con chi confrontarsi, con chi dialogare oltre sé stesse23.
Possiamo cercare le storie di amicizia e di sorellanza tra le pagine delle scrittrici che amiamo o lasciarci ispirare da chi le ha già trovate e analizzate24.
“Dovremmo quindi impegnarci a destinare parte delle energie che normalmente dedichiamo a compiacere uno sguardo sconosciuto, a coccolarlo […]” ci esorta la scrittrice Carolina Capria nel suo Campo di battaglia, “per costruire legami che non solo possano sostenerci ma che ci aiutino ad acquisire una nuova prospettiva”25.
È possibile allenare lo sguardo a vedere bellezza nelle altre donne, educarci a praticare la sorellanza come forma di empatia, creando una rete di mutuo sostegno formata da un insieme di donne che lottano fianco a fianco, che alleviano le reciproche sofferenze ma che, soprattutto, sono capaci di ridere e di essere felici insieme.

Letture consigliate oltre ai testi riportati nelle note:

  • Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti, ed. Feltrinelli
  • Manuale per ragazze rivoluzionarie, di Giulia Blasi, ed. Rizzoli
  • Dovremmo essere tutti femministi, Chimamanda Ngozi Adichie, traduzione di Francesca Spinelli, Giulio Einaudi Editore
  • Sputiamo su Hegel e altri scritti, di Carla Lonzi, a cura di Annarosa Buttarelli, ed. La Tartaruga
  • Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, di Jude Ellison Sady Doyle, traduzione di Laura Fantoni, ed. Tlon

NOTE

1 https://www.treccani.it/vocabolario/sorellanza/
2 Ibidem.
3 Leslie Kern, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, trad. it.di Natascia Pennacchietti, Treccani, Roma, 2021, p. 16.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 86.
6 https://www.violawalkhome.com/it/
7 Irène Némirovsky, I doni della vita, Adelphi Edizioni, Milano, 2012, p. 211.
8 Ad esempio questo: https://www.internazionale.it/video/2021/11/25/stupro-cervello-reagire-aggressore
9 Per un approfondimento sul tema dei generi sessuali e la loro definizione, su cosa voglia dire essere donna al di là dell’aspetto biologico, si veda Jennifer Guerra, Un’altra donna, UTET, Milano, 2023.
10 Michela Murgia, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi, Torino, 2021, p. 60.
11 Leslie Kern, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, op. cit., p. 82.
12 Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, trad. it. Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, Feltrinelli Editore, Milano, 2021, p. 118.
13 Ivi, pp. 119-120.
14 Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2022, p. 98.
15 La traduzione letterale è “sguardo maschile”, inteso come sguardo sulle donne che le identifica e le mostra come oggetti sessuali. In particolare ciò avviene nel cinema, nella pubblicità e in televisione. Molto interessante a questo proposito il documentario Il corpo delle donne. L’immagine del femminile nella Tv italiana, del 2009, realizzato da Lorella Zanardo (https://www.lorellazanardo.it/il-corpo-delle-donne/documentario/).
16 Cfr. l’introduzione del volume a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, Franco Cesati Editore, Firenze, 2019.
17 Monica Farnetti, Sorelle. Storia letteraria di una relazione, Carocci Editore, Roma, 2022, p. 21.
18 Ibidem.
19 bell hooks, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, trad. it. Maria Nadotti, Tamu Edizioni, Napoli, 2021, pp. 51-53.
20 Monica Farnetti, Sorelle. Storia letteraria di una relazione, op. cit., p.24.
21 Goliarda Sapienza, L’università di Rebibbia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2016, p.138.
22 Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano, 2022, p. 20.
23 Su questo tema si veda Liliana Rampello, Le sorelle di Jane Austen: vita letteraria e vita simbolica, nel volume a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, op. cit.
24 Suggerisco a questo proposito il podcast della giornalista e scrittrice Jennifer Guerra dal titolo Nemiche geniali, Emons Record, in cui analizza alcuni film, libri e serie tv per parlare di amicizia femminile e sorellanza, contrastando l’idea che la rivalità sia una condizione immutabile del rapporto tra le donne.
25 Carolina Capria, Campo di battaglia. Le lotte dei corpi femminili, effequ, Firenze, 2021, p. 181.

Leggere la notte, tra buio, luce, paura e attesa

Foto di gryffyn m su Unsplash

Il mio gioco preferito prima
di dormire è fingermi
un sasso in mezzo
al bosco. Essere coperta
di muschio, stare
dentro l’oscurità, stare
nella pancia del lupo
sapendo che nessuno
mi mangerà1.

Silvia vecchini

«Dentro di noi dev’esserci un gran buio!» sostiene Alice, l’amica del protagonista di Io, Alice e il buio buio, un albo illustrato che narra di due bambini che giocano a catalogare i diversi tipi di buio che possono incontrare.

Buio, ombra, notte sono imparentati, uniti tutti dall’assenza della luce che rende visibile e più comprensibile il mondo. In un mondo (sia arcaico, sia rurale) privo di luce artificiale la notte diventa una durata in cui tale assenza di luce si prolunga. E assurge a simbolo, topos letterario. Riempie i miti e le fiabe popolari legandosi a quella dimensione misteriosa con cui l’uomo ha sempre a che fare. Se dentro non arriva la luce si crea spazio per le angosce e le preoccupazioni dovute al fatto che a volte non si mettono a fuoco le cose, e non si coglie la forma di quello che sta intorno.

La notte diventa pertanto l’ora dei fantasmi, il tempo della lotta con Dio2, il momento in cui i mostri escono da sotto il letto e da dentro all’armadio; è l’ora dei sogni e degli incubi, dell’inquietudine, degli imbrogli, dei voti e dei tormenti (come non pensare ai Promessi Sposi!), di quando facciamo i conti con qualcosa che non riusciamo a governare perché non è contenibile con i sensi né con la razionalità.

La notte da sempre non è solo il momento in cui si incontrano le storie, lette o raccontate (sotto le coperte con la torcia, cullati dalla voce di un genitore, attorno al fuoco in cerchio…), ma è protagonista essa stessa di storie: basta leggere quante volte questa parola entra nei titoli dei libri per trovarsi davanti a una bibliografia sterminata e tuttavia ancora parziale. Certamente molte sono storie di paura, gialli e misteri, oppure storie su fatti decisivi, di ambientazione storica o distopica, che non saranno oggetto di trattazione qui. Propongo, piuttosto, un breve percorso, tutt’altro che esaustivo, nella mia biblioteca di letteratura per ragazzi, tra romanzi, racconti, raccolte poetiche, graphic novel, albi illustrati, che letti in profondità non si limitano a parlare al target di destinatari indicati nelle quarte di copertina, ma sono portatori di nodi simbolici che insegnano che attraverso la letteratura si può conoscer parte di sé e avere nuovi sguardi sul mondo, con una scintilla di speranza.

Molti libri rivolti a piccolissimi lettori narrano di un buio personificato che esce di notte e può avere paura dei bambini o dialogare con loro e invitarli nel luogo dove vive3 e gli albi illustrati ci raccontano con le immagini questa relazione che sconvolge ma costruisce un nuovo equilibrio. Straordinario l’albo senza parole Shadow dell’illustratrice sudcoreana Suzy Lee, in cui un gioco di ombre cinesi porta al di là della soglia dove le ombre possono invadere il nostro spazio, ma con cui anche possiamo entrare in relazione e superare la paura che nasce da ciò che non si conosce.

«Stai per entrare dentro la notte come si entra dentro il mare» scrive Andrea Bajani nell’albo illustrato da Mara Cerri La pantera sotto il letto. Padre e figlia tornano a casa. «Poi arriva la notte che prende la casa e la mette in un sacco. La bambina ha paura che insieme alla casa la notte prenda anche lei». E si prosegue in un dialogo simbolico di testo silenzi e illustrazioni che parla di notte, di buio e di paura che «è un animale che ti gira attorno». Mara Cerri la dipinge come una pantera nera come la notte: entrambe fanno paura, ma entrambe si possono esplorare. La bambina guardando la pantera negli occhi, riesce ad andare dentro al buio, ad affrontare la paura e a giocarci anche; lo sa fare forse meglio del padre: a volte, infatti, non basta accendere una lampadina per dissipare le ombre che hanno inghiottito il mondo.

Un romanzo fondamentale quando si parla di notte nella letteratura per ragazzi è l’ormai celebre Sette minuti dopo la mezzanotte, ideato da Siobhan Dowd e poi scritto da Patrick Ness e vincitore nel 2012 della Carnegie Medal e della Kate Greenaway Medal. Protagonista è Conor, che vive una vita difficile tra la malattia della madre, il bullismo subito a scuola e il rapporto non facile con il resto della famiglia. Il titolo fa riferimento al momento della notte in cui viene visitato da un mostro pauroso dalle sembianze del vecchio tasso che si erge sulla collina e che torna a raccontargli storie che lo mettono di fronte alla terribile verità che lo attanaglia tutte le notti. Un libro potente, che porta i lettori di fronte alla complessità dell’essere umano, alle paure più profonde, agli inganni che la mente costruisce e che nella notte ci trovano soli con noi stessi e con le scelte tanto difficili quanto necessarie.

Ancora sogni e ancora esseri misteriosi, stavolta all’apparenza angelici ne Il Nido di Kenneth Oppel, libro che lessi subito dopo aver incontrato e amato Skellig di David Almond: storie di fratelli, di esseri volanti e di cose che succedono (anche) di notte, anche se di segno diverso.

Virando sempre più verso il fiabesco tra le pagine di Amos Oz troviamo Nimi colpito da “nitrillo” e che vive nel folto del bosco, mentre al villaggio la notte rimane silenziosa, senza animali. Le domande dei bambini restano senza risposta finché due di essi andranno alla ricerca della triste verità.

Di altro genere e diverso mood, La notte delle malombre di Manlio Castagna ci porta in una storia realmente accaduta – un viaggio della speranza in treno da Napoli a Potenza nell’inverno del ‘44 misteriosamente interrotto in una galleria – che si tinge, nella narrazione alternata tra i diversi personaggi, di toni paurosi e tinte soprannaturali.

Sempre ispirati a una vicenda realmente accaduta – il black out del 9 novembre 1965 a New York – gli otto racconti de La notte più bella, Quando l’America restò al buio, Otto storie degli anni sessanta di Daniela Palumbo (Piemme). Da varie angolature, si sottolinea come una pausa forzata rispetto alle attività di un mondo dove fa sempre giorno consente di ripensare alla propria vita e a vederla sotto una “luce” diversa.

Altre volte la notte è il teatro dei sogni, della possibilità creativa che segue altre logiche e crea mondi, scenari inediti. Il sogno in letteratura è stato oggetto di vari studi e raccolte4, e la letteratura per l’infanzia non si sottrae a questa narrazione, a partire dal classicissimo Little Nemo in Slumberland di Windsor McCay: una raccolta di strisce dei primi del Novecento sui sogni fantastici del piccolo Nemo, interrotti da ripetute cadute dal letto. Troviamo sogni fantastici nel wordless picturebook del pluripremiato David Wiesner Free Fall o in Just a Dream di Chris Van Allsburg5. I sogni, insomma, non sono sempre brutti e angoscianti, a volte perché il GGG di Roald Dahl passa nella notte a soffiarne di belli e felici nelle camere dei bambini addormentati, o perché i donatori di sogni che Lois Lowry inventa in Gossamer hanno la meglio sui “sinistrieri”.

Un classico internazionale di un altro gigante dell’illustrazione, Maurice Sendak, è In the night kitchen, del 1970, dove Mickey, durante la notte, si rifugia in una città-cucina abitata da panettieri giganti. L’autore – che riempie l’albo di riferimenti autobiografici – diceva di essere rimasto colpito dalla pubblicità di una ditta che durante l’Esposizione universale newyorkese nel ‘39 prometteva: «Cuciniamo mentre dormi» e si rammaricava che tante cose belle succedessero mentre i bambini sono a letto6. Cose belle o cose strane, come in un altro wordless di Wiesner premiato con la Caldecott Medal, Martedì, che narra con straordinarie illustrazioni di un sorprendente volo notturno.

Parole e immagini evocative e poetiche caratterizzano i libri scritti e illustrati da Jimmy Liao, tra cui Una splendida notte stellata, che racconta con suggestioni alla Van Gogh la storia dell’incontro tra una bambina in lutto per la morte del nonno e un nuovo amico con cui superare la solitudine e godere di ciò che li circonda.

La notte spesso accoglie il carico delle nostre attese, dell’incertezza che anticipa l’arrivo di un giorno importante, tra la gioia e la preoccupazione, la trepidazione bella per qualcosa che si aspetta. E qui c’è tutto il tema delle veglie e delle vigilie7, da quella di Natale, religiosa o laica, dove si attende un dono – materiale, metaforico o simbolico (la nascita del bambino Salvatore) – e l’arrivo di chi lo elargisce (chi prima chi dopo: Santa Claus in varie versioni, Gesù Bambino, Santa Lucia, la Befana, i Magi), alla vigilia di Ognissanti – All Hallow Eve, dove il dialogo è con il mondo di chi non c’è più, con tutte le declinazioni che il mondo dei morti ha assunto negli ultimi anni -, alle tante attese private e personali, a partire da quelle di leopardiana memoria. In queste e altre feste sono ambientate tantissime storie, narrate, illustrate, alcune nella forma di graphic novel. In Era il nostro patto di Ryan Andrews un gruppo di ragazzi si accorda per di seguire in bici le lanterne di carta depositate la notte dell’Equinozio d’Autunno lungo il fiume. Nella notte di ferragosto, invece, trova l’apice la vicenda narrata in 21 giorni alla fine del mondo di Silvia Vecchini e Antonio “Sualzo” Vincenti, che vede coinvolti Lisa e il suo vecchio amico Ale alle prese con i cambiamenti delle loro vite, i segreti e le paure che devono affrontare.

La notte come metafora di oscurità e buio può indicare anche un buio che arriva perché si sta per perdere la vista. E qui la lettura di Prima che sia notte di Silvia Vecchini ci racconta, in un delicato alternarsi di prosa e poesia, la storia di Carlo, che non sente e vede solo da un occhio che comincia ad avere i problemi, e della sorella che prova a sostenerlo in tutti i modi.

I bambini che hanno paura del buio lasciano accesa una luce, che tiene lontano ciò che la paura potrebbe far nascere nella testa e quindi tutto attorno. Ma se ci abituiamo al buio diamo valore a tutto ciò che anche tenue può dare luce. Una rassegna di ciò che illumina la notte è magistralmente proposto nell’albo divulgativo Luci nella notte, un catalogo di fenomeni luminosi di origini e distribuzione tra le più varie, dalle stelle alla bioluminescenza e alla biofluorescenza. L’antesignano di opere come queste è certamente in Italia Nella notte buia di Bruno Munari, edito per la prima volta nel 1956, dove l’artista fa viaggiare i lettori tra le pagine arricchite di fori, tagli, finestrelle e acetati alla ricerca di ciò potremmo incontrare di notte, nell’erba, tra le rocce, dentro una grotta con le pitture preistoriche. Molto apprezzato La notte è piena di promesse, di Jérémie Decalf: racconta, tra poesia e nonfiction, il viaggio delle sonde Voyager 1 e 2 nello spazio interstellare, portatrici di un messaggio dell’umanità a potenziali civiltà extraterrestri. La divulgazione può, dunque, essere artistica e poetica e creare meraviglia, trattando tutti gli argomenti possibili.

Siamo partiti dalla poesia e alla poesia siamo tornati, perché da sempre la notte ospita sotto lo stesso cielo conflitti interiori, domande esistenziali, silenzi di meraviglia e i poeti hanno parole precise dentro cui ritrovarsi. E nelle notti fredde e nuvolose, quando il bagliore degli astri è coperto, le voci dei libri possono accendere una luce e tenerci compagnia.

Percorso bibliografico dei libri citati nell’articolo in ordine di apparizione (edizione italiana, dove presente)

  • Silvia Vecchini e Marina Marcolin, Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, Topipittori, 2014
  • Alessandra Racca e Anna Castagnoli, Io, Alice e il buio buio, Emme edizioni, 2019.
  • Suzy Lee, Ombra, Corraini, 2010
  • Andrea Bajani e Mara Cerri, La pantera sotto il letto, Orecchio Acerbo, 2015
  • Siobhan Dowd – Patrick Ness, Sette minuti dopo la mezzanotte, Mondadori, 2012
  • Kenneth Oppel, Il nido, Rizzoli, 2015
  • David Almond, Skellig, Salani,
  • Amos Oz, D’un tratto nel folto del bosco, Feltrinelli, 2005
  • Manlio Castagna, La notte delle malombre, Mondadori, 2020
  • Daniela Palumbo, La notte più bella, Quando l’America restò al buio, Otto storie degli anni sessanta, Piemme, 2023
  • Windsor McCay, Little Nemo in Slumberland, Taschen
  • David Wiesner, Free Fall, HarperCollins, 1988
  • Chris Van Allsburg, Just a Dream, Clarion Books
  • Roald Dahl, Il GGG, Salani
  • Lois Lowry, Gossamer, 21 lettere, 2020
  • Maurice Sendak, La cucina della notte, Adelphi, 2020
  • David Wiesner, Martedì, Orecchio Acerbo, 2016
  • Jimmy Liao, Una splendida notte stellata, Edizioni Gruppo Abele, 2013
  • Ryan Andrews, Era il nostro patto, Il Castoro, 2021
  • Silvia Vecchini e Antonio “Sualzo” Vincenti, 21 giorni alla fine del mondo, Il Castoro,
  • Silvia Vecchini, Prima che sia notte, Bompiani, 2020
  • Lena Sjöberg, Luci nella notte, Camelozampa, 2020
  • Bruno Munari, Nella notte buia, Corraini, 2007
  • Jérémie Decalf, La notte è piena di promesse, Terre di Mezzo, 2021

1 in Silvia Vecchini e Marina Marcolin, Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, Topipittori, 2014. Questo e gli altri riferimenti bibliografici dei testi citati si trovano nella bibliografia in calce in ordine di apparizione, specificando, laddove presente, l’edizione italiana. La poesia e la notte, tra buio e luci, rimandano a una tradizione plurisecolare di poesia lirica e di domande che da intime si fanno esistenziali, ma si è scelto di non passarle in rassegna in questo contributo data la vastità della materia.

2 L’episodio biblico della lotta tra Giacobbe e Dio è raccontato in Gen 32, 23-33.

3 Due delle storie molto lette a casa erano Il terribile mostro buio di Silvia Forzani, in Grandi storie, ed. AVE 2006 e Il buio di Lemony Snicket e Jon Klassen, Salani 2016.

4 L’Università di Macerata curò ad es. un ampio progetto di ricerca confluito in Sogno e Racconto. Archetipi e funzioni a c. di M. Riccini e G. Cingolani, Le Monnier, 2002.

5 Per intenderci si tratta dell’autore di albi che hanno ispirato film celeberrimi: Jumanji e Polar Express, quest’ultimo incentrato su un viaggio notturno.

6 Lo racconta bene questo articolo di Andrea Fiamma: https://fumettologica.it/2020/07/cucina-notte-sendak-adelphi/

7 Andiamo dagli albi illustrati di testi poetici – le mille versioni della celeberrima ‘Twas the night before Christmas (www.poetryfoundation.org/poems/43171/a-visit-from-st-nicholas) di Clement Clark Moore oppure On a Windy night di Nancy Raines Day (Abrams Book, 2010), che ci porta nelle atmosfere di Halloween – alla vastissima produzione di racconti a tema.

Radici

Illustrazione © Francesco Abrignani

Radici. Tutte le volte che mi capita di pensare a questa parola, chiudo gli occhi e vedo mio nonno con le parole crociate in mano sotto quello che lui definiva “sommacco”. In realtà non è un sommacco, ma per me lo è e lo sarà sempre.

Le radici, ricerca dell’identità.

Foto by Pamela Frani

Dialogo con Alessio De Stefano e Gianluca Salustri

La cresta delle montagne dove il sole va a tramontare rafforza la sensazione che ho avuto prima, annullando ogni distanza cronologica e geografica.Casa non sembra così lontana nemmeno vista da qui”1

Alessio De Stefano, Vincent Massari Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni

Vincent Massari si imbarca per l’America con sua madre una settimana prima che il terremoto del 13 gennaio 1915 distrugga la Marsica. Quel viaggio lo ha reso superstite di un mondo che non c’è più. Alessio De Stefano (ADS) ci narra la sua storia nel libro pubblicato con la casa editrice di Gianluca Salustri (GS): Vincent Massari. Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni. Vediamo insieme a loro come è nato questo racconto.

Alessio, dal 2019 hai costruito la Piccola biblioteca marsicana per raccontare la Marsica e l’Abruzzo attraverso risorse e testimonianze storiche. Ti va di raccontarci cosa ti ha spinto a far partire questo progetto? Come è nato?

ADS: Il progetto nasce grazie a una particolare combinazione di eventi. Dopo essere tornato ad Avezzano nel 2016, ho avuto l’opportunità di approfondire la conoscenza dell’Abruzzo. Contestualmente, ho iniziato a collaborare con il “Laboratorio Artigiano Ennio Gentile”, un’associazione impegnata nel mantenere viva l’arte del restauro e dell’artigianato, preservando le storie degli oggetti.
È proprio all’interno dello spazio del laboratorio che ho concepito l’idea di creare un angolo dedicato alla lettura. Inizialmente avevo pensato di riempire una vecchia credenza con libri antichi, senza seguire un particolare ordine o tema. Poco dopo ho avuto l’intuizione di avviare una raccolta di volumi sulla Marsica.
Quest’idea si è poi concretizzata nel corso dei mesi, poiché c’era effettivamente una necessità di avere un punto di riferimento sulle fonti bibliografiche del territorio. È così che, dagli scaffali della vecchia credenza di via Monte Salviano, è iniziata la vita della Piccola biblioteca marsicana.
Nel 2020, con l’esplosione della pandemia, ho colto l’opportunità delle lunghe settimane di lockdown per progettare e costruire il sito web. Durante la ricerca di immagini da includere nelle pagine, ho scoperto che negli archivi digitali di tutto il mondo era conservato un autentico patrimonio di documenti e testimonianze che non avevo mai incontrato nelle pubblicazioni raccolte o nelle numerose pagine social dedicate. Da qui l’idea di ampliare le sezioni del sito per accogliere dipinti, incisioni, disegni, fotografie e mappe. Devo ammettere che è stato questo passaggio a espandere il mio orizzonte di ricerca e a conferire al progetto un taglio notevolmente più ampio e interessante.

Gianluca, anche la tua casa editrice Radici Edizioni nasce come legame con la “terra da cui veniamo, con le storie che ci hanno cresciuto e fatto diventare quello che siamo e con il passato utile e necessario a guardare il futuro con occhi sempre aperti.”. Per te le radici sono il punto da cui partire. Ci spieghi come è nato Radici Edizioni e quali sono gli obiettivi della tua casa editrice?

GS: Radici Edizioni nasce nella primissima fase post lockdown e viene al mondo – oltre che per un bisogno molto personale di rimettersi in gioco in un settore che avevo dovuto abbandonare troppo presto – perché a mio parere si era finalmente creato lo spazio per provare a “svecchiare” il racconto dei nostri luoghi. Non a caso ho sempre parlato di un progetto che voleva mettere al centro “nuove narrazioni territoriali”, pensate per rispettare gli studi fatti in passato da importanti personaggi della nostra cultura – che vanno ringraziati ancora oggi per tutto quello che hanno fatto e che continuano a fare – ma che fossero anche capaci di attirare nuovi lettori oltre a quelli che si dedicano a tali temi per professione. Da qui l’idea di puntare forte sugli albi illustrati che si ispirano alle storie del passato, su autori per lo più giovani e su una forte caratterizzazione dei progetti grafici di copertina; in modo da cercare di arrivare in maniera diretta a un pubblico forse spaventato dal troppo classicismo legato ai temi del folklore.

La figura di Vincent Massari ha fatto un po’ da trait d’union dei vostri progetti. Perché proprio Vincent? Che cosa nella sua figura vi ha conquistato?

GS: Quando Alessio, che avevo già avuto modo di apprezzare per la cura che mette in tutte le cose che fa, mi ha proposto la storia di Vincent è stato amore a prima vista. La sua partenza e l’arrivo negli Usa a ridosso del terremoto di Avezzano, le memorie dei pescatori del Fucino, i giornali pubblicati con e per gli emigranti… non avevo ancora idea di come scrivesse Alessio (tra l’altro benissimo) ma l’istinto mi ha fatto dire subito di sì, perché vedevo troppi collegamenti con l’idea che sta alla base della collana “Vite”, ossia quella di contestualizzare la biografia dei personaggi all’interno di un più ampio racconto di storia sociale dei territori da cui provengono.

ADS: La vita di Vincent Massari crea un ponte narrativo tra il periodo precedente e successivo al terremoto del 13 gennaio 1915, un momento cruciale nella storia della Marsica. Si dice che il sisma abbia raso al suolo non solo interi paesi, ma anche la memoria storica di questa regione. La vicenda di Vincent rappresenta un filo di continuità tra queste due fasi, dimostrando che, nonostante la frattura profonda causata dal terremoto, la storia non si è interrotta, ma ha invece generato molte altre storie, forse più difficili da recuperare, ma indubbiamente importanti da riscoprire.
Vincent è stato il progetto che mi ha permesso di approfondire il legame con Gianluca, di condividere con lui i chilometri di autostrade, stradine interne e strade fantasma dell’Abruzzo. Non ci siamo mai stancati di raccontare questa storia perché ad ogni presentazione c’era sempre qualcosa di interessante da approfondire, una nuova chiave di lettura o una curiosità legata al libro. L’attenzione dei lettori che seguono il progetto di Radici penso sia una grande medaglia al collo di questa avventura editoriale.

Mia madre, lo capii poco dopo, era convinta che se uno era in grado di leggere, allora poteva leggere qualsiasi cosa, in qualunque lingua2

Quanto secondo voi, il legame con le sue radici ha influenzato Vincent nella ricerca del riscatto e di una vita migliore in terra straniera? E quale è il vostro di rapporto con le radici?

ADS: Comprendere l’importanza e la necessità del senso di appartenenza per gli italiani che emigravano negli Stati Uniti ci permette di gettare luce sul contesto in cui Vincent ha combattuto e vissuto. Per coloro che intraprendevano il viaggio verso una terra così lontana, spesso senza conoscere la lingua e senza il supporto di parenti o compaesani che potessero accoglierli e orientarli, l’esperienza era permeata da un profondo senso di smarrimento, che assumeva contorni drammatici. Le radici rappresentavano un’ancora di salvezza, un’opportunità aggiuntiva per superare le numerose sfide; si manifestavano attraverso le comunità formate da compaesani che si riunivano periodicamente, le lettere ricevute da casa e smistate dai giornali italiani, e le bottiglie di vino fatte arrivare di nascosto nei circoli o nelle assemblee serali dei lavoratori.Vincent ha potuto fare affidamento sulla fiducia della Federazione Colombiana, guadagnata durante gli anni della sua presidenza e attraverso l’attività editoriale per “L’Unione”. Facendo leva su questa forza collettiva, è riuscito a entrare in politica e a ottenere risultati concreti per l’intero stato del Colorado. Questo legame non lo ha limitato, ma al contrario gli ha consentito di guardare lontano e progettare grandi imprese. È a questa idea che desidero associare anche il mio senso di appartenenza.

GS: C’è un passaggio importante nel libro, in cui Alessio si sofferma sulla frase “United we stand. Divided we fall”, utilizzata come sottotitolo della testata di uno dei giornali di Massari. Vincent mise in pratica questo motto con i suoi “paesani”, vicini e lontani, per affrontare le sfide che gli si stavano proponendo davanti e gli è servito senz’altro a farsi forza e a dare sostegno a tutti gli emigranti che leggevano le sue pagine. Ecco, facendo bene le dovute proporzioni, mi piace paragonare la sua esperienza alla mia, perché quello che sto cercando di costruire attorno a Radici è una comunità di persone che non siano per noi solo autori o autrici, ma che riescano a contribuire a una crescita costante del progetto attraverso la condivisione di idee e narrazioni e in questo, nonostante le esperienze vissute al di fuori della mia comfort zone, devo dire che i legami saldi costruiti nel tempo nella mia terra d’origine si stanno rilevando molto utili.

E dopo Vincent, quali progetti avete in serbo?

ADS: Personalmente sto ancora raccogliendo i frutti che la ricerca su Vincent mi ha regalato. Ho in programma di riordinare il materiale archiviato durante la ricerca sul campo negli Stati Uniti per renderlo accessibile agli appassionati. Poi c’è da continuare a far crescere la Piccola biblioteca marsicana, con nuovi contenuti che ho messo da parte in questi mesi e che aspettano solo di essere approfonditi. E poi chissà che durante le nuove ricerche non esca fuori una storia interessante da raccontare tra le pagine di un libro.

GS: Oltre a quello di sopravvivere in questo bellissimo ma maledetto settore editoriale intendi? Scherzi a parte, il piano editoriale per il 2024 è ormai praticamente chiuso e speriamo che l’anno prossimo possa rappresentare il momento giusto per provare a uscire un po’ dai confini regionali. Per questo vado di spoiler e annuncio qui che il nostro titolo di punta dell’anno prossimo sarà una raccolta di racconti di diciotto scrittrici americane contemporanee, tutte però con origini italiane. Diciotto donne che faranno i conti con il proprio passato familiare, in un vero e proprio viaggio attraverso il loro patrimonio identitario, sulle tracce della propria esperienza migratoria e all’interno delle due comunità, quella americana e quella italiana d’origine.

In qualche modo mi è sembrato che un lunghissimo filo ripercorresse il cammino all’indietro e attraversasse il tempo e lo spazio per riavvolgersi lungo il contorno del Fucino e abbracciare i pescatori.3

1 Alessio De Stefano, Vincent Massari Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni 2023 p.17

2 Idem, p.133

3 Idem, p. 157

Profumo, chiave della realtà

Photo by Vicky Ng on Unsplash

Odora di menta. Questo in Liguria è il massimo insulto che si può rivolgere ad una piantina di basilico, come spiega Laurel Evans in Liguria The Cookbook1. L’odore di menta indica che la pianta è troppo matura, che le foglie tenere hanno perso il dolce, delicato aroma della loro giovinezza e hanno assunto quel sapore pungente, più simile alla menta, tipico delle piante più vecchie2. Le nonne liguri, dedite alla preparazione del pesto, riconoscono questa caratteristica alla prima annusata e riescono così a selezionare le migliori foglie per ottenere una salsa con un gusto perfettamente bilanciato.

Nonostante la sua evidente utilità, in cucina come in altri ambiti, l’olfatto ha sempre avuto una cattiva reputazione, come se fosse la minore tra le facoltà umane, pur essendo, in realtà, un senso fondamentale, che ci mette in connessione con la realtà che ci circonda, rivelandone i dettagli intangibili. È stato senza dubbio il virus Covid-19, a causa del quale molte persone sono state colpite da anosmia (perdita dell’olfatto) a riportare l’attenzione sull’importanza di questo senso, come veicolo per la comprensione del mondo che ci circonda.

Harold McGee, famosissimo storico dell’alimentazione, vincitore del James Beard Award per il suo indispensabile trattato On Food & Cooking3, è rimasto talmente affascinato dall’esplorazione dell’olfatto da dedicargli il saggio Nose Dive. A Field Guide to the World’s Smell4 in cui compie una ricerca ben al di là del cibo, portando i suoi lettori in una vera e propria storia degli odori. McGee sottolinea la potenza dell’olfatto, che ci consente di percepire le molecole volatili: minuscoli pezzetti di mondo, così piccoli da riuscire ad allontanarsi dalla loro fonte e volare invisibili nell’aria che raggiunge il nostro naso.

Ciò che è subito evidente è che crescendo nel tardo ventesimo secolo, nel nostro mondo pre-impacchettato, sanificato e deodorato5 prestare attenzione agli odori è un’attività che compiamo molto di rado. Ma l’olfatto è uno strumento necessario per la nostra conoscenza della realtà, è un veicolo dei ricordi e, soprattutto, è un aspetto cardine della nostra esperienza del cibo. E questo a causa di un particolarissimo fenomeno biologico chiamato olfatto retronasale: la percezione olfattiva che avviene quando gli odori vengono trasportati dalla bocca al naso mentre si espira.

La verità è che noi esercitiamo l’olfatto in due modi. Annusiamo ciò che è all’esterno attraverso il nostro naso, ma percepiamo anche l’odore di quello che stiamo masticando nel retro della gola. Durante la masticazione e la deglutizione alcune molecole vengono rilasciate nell’aria presente nella bocca e sospinte nella cavità nasale, stimolando i recettori olfattivi: queste sono le sensazioni olfattive retronasali, che il nostro cervello collega a quelle gustative6. E l’unione di questi stimoli sensoriali di gusto e olfatto crea una meta-sensazione, quella che gli inglesi identificano come flavour, sostantivo la cui traduzione è sapore, ma anche gusto e aroma.

Pensiamo al pane. Il più semplice dei cibi al mondo: acqua, farina e un po’ di sale, con infinite possibilità, infiniti gusti e profumi. Per chi è caduto vittima della schiavitù della panificazione durante il lockdown, allenare l’olfatto è diventata una pratica quotidiana. Riconosciamo l’odore dolce, caldo, di banana del lievito madre in piena forma, pronto per essere usato; quello pungente, acido, di un lievito sofferente, collassato, che ha bisogno di un rapido rinfresco e l’odore invadente del pane che finalmente cuoce in forno, che riempie tutta la casa, ed è il profumo dell’orgoglio, della soddisfazione di aver creato da zero qualcosa di così atavicamente buono.

Ma perché percepiamo il gusto del pane come nettamente superiore a quello di altri prodotti che hanno gli stessi ingredienti, come i cracker ad esempio? È tutta una questione di aria e di olfatto retronasale e lo spiega perfettamente Michael Pollan nella puntata dedicata proprio all’aria7 della serie Cooked, tratta dal suo omonimo libro8. Tutte le bolle d’aria [del pane] contengono gas dice Pollan quindi c’è un aroma che sale attraverso il retro della bocca fino alle cavità nasali e lì viene assaporato. L’aria, e la fisiologia del nostro olfatto, rendono un semplice boccone di pane un’esperienza complessa, capace di imprimersi nella memoria come la madeleine di Proust.

Il pane mi piace che abbia un “naso” (un profumo) deciso, che la mollica accarezzi le papille gustative come una serie di onde che lambiscono la spiaggia lasciando un poi di schiuma ogni volta che si ritirano scrive Laura Lazzaroni ne La formula del pane9, confermando poeticamente come odorare il pane sia un passaggio obbligato per apprezzarne il gusto.

La particolarità dell’odore retronasale, che viene assimilato dal nostro cervello come sapore, è stata concretamente sfruttata nel 2016 da due ragazzi tedeschi, Tim e Lena, che per un progetto universitario10, in cui si richiedeva di unire design e neuroscienza, hanno creato il prototipo di una elegantissima e colorata borraccia. Una borraccia che eleva la semplice acqua con cui viene riempita attraverso dei pod aromatici, da posizionare nella parte superiore, vicino alla cannuccia. Bevendo si crea un’aspirazione per cui il pod rilascia il suo profumo e questa aria aromatizzata viene percepita dal nostro cervello come un sapore, ingannandolo e facendogli credere che stiamo bevendo un succo di frutta o un cocktail, quando si tratta invece di salutare acqua senza alcun additivo.

Mi viene in mente la scena di French Kiss11 in cui Kevin Kline fa annusare a Meg Ryan, in una stanza polverosa di un romantico casale nella campagna francese, alcune boccette contenenti bacche, erbe e terra, prima di farle degustare un bicchiere di vino rosso. Gli aromi appena odorati le consentono di ritrovare gli stessi sapori nel vino, come un’esperta sommelier. Da tutti questi esempi è chiaro come gli odori siano un collegamento con la realtà e con l’immaginazione, un ponte tra la nostra quotidianità e l’immenso mondo che ci circonda.

1 Laurel Evans, Liguria: The Cookbook. Recipes from the Italian Riviera, Rizzoli USA, 2021
2 idem, p. 63
3 Harold McGee, McGee on Food and Cooking: an Encyclopedia of Kitchen Science, History and Culture, Hodder & Stoughton, 2004. Traduzione italiana: Harold McGee, Il cibo e la cucina. Scienza, storia e cultura degli alimenti, traduzione di Federico Rapuano, Ricca Editore, 2016
4 Harold Mcgee, Nose Dive: A Field Guide to the World’s Smell, John Murray, 2020
5 Harold Mcgee, Nose Dive: A Field Guide to the World’s Smell, John Murray, 2020
6 Carlo Gibertini, Post-covid, la riscoperta dell’importanza dell’olfatto su La Cucina Italiana online, 2 marzo 2022
7 Cooked, stagione 1, episodio 3, Aria su Netflix
8 Michael Pollan, Cotto, traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi, 2020
9 Laura Lazzaroni, La formula del pane. Il metodo per imparare l’arte della panificazione domestica, Giunti, 2021
10 https://it.air-up.com/pages/air-up-infos
11 French Kiss di Lawrence Kasdan, 1995

Luce e piante

Foto di Barbara Bernardini

Forse la più antica manifestazione della magia sulla terra è la fotosintesi o così dovrebbe apparire, a dei mammiferi come noi, la capacità delle piante di ricavare il proprio nutrimento, e quello di tutte le altre forme di vita, a partire dall’anidride carbonica e dall’acqua col solo innesco della luce.
Ecco, ma io, oltre a rimanerne stupefatta e ammirata, non so dire altro, quindi chissà perché sia partita proprio da questo aspetto per parlare di luce e piante, quando in realtà sarebbe stato più preciso dire un’altra cosa: la più antica manifestazione della bellezza sulla terra riguarda le piante e la luce.
Chissà quante paia d’occhi (e anche qualche occhio singolo) siano rimaste incantate davanti a come la luce riflette sulle foglie e come le attraversa; come illumina e rende attraenti i fiori; come stimola e indirizza la crescita dei rami e dei fusti, verso l’alto, alla ricerca del sole, in forme spesso così intricate e affascinanti; come filtra attraverso le chiome, illuminando il sottobosco con pochi, netti raggi che tagliano l’ombra buia.
Noi animali non siamo altrettanto belli, al sole. Forse giusto quelli con le piume, loro un poco – perfino le galline acquisiscono un leggero fascino al sole, quando si accendono i riflessi nascosti del piumaggio e creste e bargigli diventano rosso fuoco –, gli insetti iridescenti, i pesci con le squame dai riflessi metallici; ma gli animali pelosi, umani compresi, un po’ ne soffrono.

Foto di Barbara Bernardini

Tranne al tramonto: i tramonti sono indulgenti con chiunque e con qualunque cosa, anche con un sasso, e rendono d’oro quel che rimane del giorno, e della nostra pelliccia di scimmie. A guardarle da vicino, queste pelurie sono così simili a quelle dei fusti e delle foglie dei pomodori, o delle melanzane: donano un contorno luminoso alle sagome, come fossimo vestiti dell’abito migliore a nostra disposizione.
Mi piace starmene nell’orto al tramonto e aspettare lì che faccia sera: guardando rasoterra, con i raggi del sole sempre più bassi e quasi paralleli al terreno, che passano attraverso le foglie dei piselli, illuminando i fasci vascolari, o attraverso i fiori, rendendo giustizia alla perfezione anche di quelli più minuti. È in quel momento che capisci che è vero quanto dice Michael Pollan: Non penso che sia possibile comprendere la forza gravitazionale della bellezza senza aver capito il fiore, perché è stato il fiore a introdurre nel mondo l’idea di bellezza1.
Aggiungerei: non penso sia possibile capire la forza gravitazionale della bellezza finché non si osserva attentamente un fiore controluce, al tramonto, o meglio: finché non si osserva il tramonto, attraverso un fiore.

Foto di Barbara Bernardini

Durante il giorno, soprattutto ora al principio dell’estate, la luce del sole è quell’impietosa presenza a picco sulle nostre teste e il tempo sempre più lungo in cui aspetto la sera è impegnato nel trovare riparo: l’ombra più accogliente, d’estate, è quella delle chiome degli alberi. Durante il giorno, la luce è roba da boschi il più fitti possibile.
Ma anche d’estate arriva il tramonto: è la tregua.
Man mano che il sole diventa meno crudele si concede anche alle pianticine più minute accendendo dei dettagli che altrimenti ci sfuggono; alle graminacee già secche nei prati, poco più che erbacce che all’improvviso diventano d’oro; agli ulivi, con le loro chiome che poca ombra possono fare, durante il giorno, soprattutto negli anni come questo in cui li potiamo in modo più invasivo, ma che a quest’ora sfoderano il lato argenteo delle foglie, piccole e strette, lucide come alici che si muovono in branco, cambiando direzione tutte insieme a ogni colpo di vento.
Poi pian piano il sole scompare del tutto sotto l’orizzonte, rimane la luce del crepuscolo, sempre più rosa e finalmente delicata da questo lato della terra: è l’atmosfera a darle colore, mentre la tiene sospesa ancora un po’, fra aria, vapore e pulviscolo. Le sagome degli alberi che finora avevano dato riparo diventeranno nere, i piccoli fiori bianchi dei fagiolini conserveranno un loro bagliore notturno, li vedo, ancora, fra le foglie scure. Le cicale e i colombi che tacciono dopo una lunga giornata di insistenza, e i merli che invece diventano improvvisamente ciarlieri – chissà poi se succede così solo a quelli che vivono qui o se è un’abitudine di tutti questi neri pennuti: ecco una cosa che vorrei sapere e che non so, mentre mi trovo sempre a conoscere opinioni di cui farei a meno, che piccola ingiustizia, questa, in un mucchio di grandi ingiustizie.
Infine, quando del sole resta solo il riflesso sulla luna e su Venere – eccolo lì, è già nel cielo poco più su nella direzione in cui è appena scomparso il sole, sempre a ovest –, diventano visibili anche le prime stelle: la loro luce che per millenni ha attraversato lo spazio vuoto, più buio e freddo pensabile – Una luce che da lontano entra negli occhi / Dove inizia prima che lei possa vederla / Arde attraverso le parole a cui nessuno ha creduto, c’è scritto in una poesia di W.S. Merwin2 – per poi arrivare qui flebile e soccombere vicino al lampeggiare di qualche insegna.
Di notte è ancora la luce a dare un senso di casa: so riconoscere poche costellazioni, ma quando appare l’orsa maggiore sento come di aver ritrovato la via dopo un lungo vagare senza direzione, questa sagoma materna, così semplice da individuare anche per me, che poi confondo tutto il resto.
È dall’orsa maggiore che parto per trovare poi la stella polare: la luce che vedo quando la guardo è nata da un suo respiro di quattrocentocinquanta anni prima. E non è un modo poetico di raccontarla: Polaris, gigante gialla, respira, pulsa, si espande e poi si contrae nuovamente, aumentando massa e luminosità ogni circa quattro giorni.
La luce degli astri è qualcosa per cui ho una sorta di rispetto religioso, la riverenza del trovarmi di fronte a forze fuori dalla nostra portata, indifferenti ai nostri errori, lontanissime e intoccabili, a cui possiamo avvicinarci solo con la speculazione matematica.
Su tutte, certo, è la luce del sole a stupirmi di più: il privilegio di essere capitata su un pianeta così vicino a una stella, non troppo da bruciare, ma abbastanza affinché prendessero vita le forme vegetali, dalle più minuscole a quelle più complesse, tutte in grado di ricavare dal sole nutrimento e meraviglia. L’alternativa era il nulla, vuoti e pieni di sola materia senza vita: a proteggerci da qualcosa che somiglia così tanto alla morte c’è un sottile guscio composto dall’elemento più impalpabile che esiste, l’atmosfera, un leggerissimo involucro di gas che separa questa palla di roccia dal nulla.

Foto di Barbara Bernardini

Non è solo stupore, è anche la fiducia, finora sempre ben riposta, che questa immutabile forza che parte dal sole, e in circa otto minuti e mezzo arriva ai miei occhi, continuerà a farlo almeno finché avrò un minimo di capacità visiva o di sensibilità per sentirla sulla pelle: quali altri eventi potrebbero mai darmi un conforto così assoluto, se non i tramonti, quei momenti in cui la luce del sole festeggia la sua presenza?
Cosa può andare storto quando in giro c’è così tanto splendore? Cosa può accadere di irrecuperabile finché so di poter aspettare la sera con questo rituale affidabile, prevedibile nel progredire delle stagioni? Arriveranno i tramonti d’autunno, i miei preferiti, quelle sere in cui nell’aria si muoverà l’odore di terra bagnata a dire di stare tranquilli, tutti, perché da qualche parte starà piovendo. E poi ancora un giro completo, attraverso inverno e primavera e di nuovo estate. In un clima con delle stagioni così impazzite, l’arco del sole e il mutare della sua luce durante l’anno rimane un punto fermo mentre tutto il resto vacilla.
Mi rassicura il tramonto perché è una festa della bellezza, questo scintillare del giorno proprio mentre ti sta dicendo addio, che inevitabilmente porta al culmine della meraviglia qualcosa solo quando stai per perderlo: un’atmosfera gioiosa ma già nostalgica, già consapevole del distacco. Io sono una che si strugge nei ricordi, capita, eh, è che nel tramonto succede per davvero quanto scrive Gianni Celati, quando dice che Le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per avere luogo nei nostri occhi3: le cose del mondo esistono in quel momento in una loro forma perfetta, aurea, sono lì fuori che navigano nella luce e, insieme, dentro di me, dando anche a queste mie retine e a questa mia testa un momento di perfezione in cui posso essere indulgente con tutte le mie mancanze, in cui posso ritrovare anche in me una bellezza sfolgorante, un mio stare fra le cose del mondo finalmente sensato. Prima di scomparire, lentamente, con il procedere del buio.

1 Michael Pollan, La botanica del desiderio, trad. di Giuditta Ghio, il Saggiatore, Milano 2005

2 W.S. Merwin, L’essenziale , trad. di Chandra Candiani, Ubiliber 2022

3 Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989

Mappare ciò che resta: un viaggio sentimentale nel paesaggio in rovina

Photo by Gabriella Clare Marino on Unsplash

Spesso mi capita di restare incantata a osservare un paesaggio, come rapita da forze indefinibili originate da un qualche tipo di sortilegio. In questi momenti, mi ritrovo a pensare che ciò che si apre davanti a me – può essere uno scenario naturale o urbano, non importa – possieda un’emotività propria, viva e consapevole. Non si tratta solo di una banale proiezione del mio stato d’animo sull’ambiente circostante (quello che nelle ore di lettere a scuola ci hanno insegnato a identificare come paesaggio-specchio); piuttosto, mi pare di essere coinvolta in uno scambio di sguardi tra me e il paesaggio, come se questo si appropriasse del mio modo di vedere le cose e lo trasformasse. A quel punto, la pienezza di un luogo si manifesta alla stregua di un’apparizione, riuscendo a penetrare la mia sensibilità in una maniera talmente intensa da risultare, in alcuni casi, persino dolorosa.
Questo genere di esperienza, così personale e insieme piuttosto comune, configura quello che in psicoanalisi è stato definito come mindscape1: un’idea di paesaggio-psiche per cui i luoghi non sono solo articolazioni spaziali e percettive, ma disegnano una dimensione del pensiero che richiede un ordine simbolico, fatto di tempo, memoria e oblio.
Non è raro che tale forma di compenetrazione venga innescata dall’osservazione di un paesaggio in disfacimento, da un luogo abbandonato o che è sul punto di diventarlo. Al paesaggio in rovina fa spesso eco un dissesto interiore, tanto più profondo quanto più è forte il senso di appartenenza che ci tiene legati a quel luogo specifico.
Lo straniamento che ne deriva, genera in me una doppia urgenza: da un lato decodificare quelle sensazioni così inafferrabili, cercandone il riverbero nella poesia e nella letteratura; dall’altro, avviare una riflessione sul come (e sul se) sia possibile riempire di nuovi significati i luoghi in rovina, e ricostruire, di conseguenza, anche l’interiorità di chi li abita o li attraversa.

Il terremoto disegna la geografia del dolore

Le catastrofi hanno da sempre tracciato una mappa ben estesa di territori devastati e di città morte, configurando una sorta di geografia del dolore per cui, al senso di precarietà e malinconia sperimentato delle comunità coinvolte, si aggiunge un presagio di fine, imminente e sempre possibile.
La violenza di un terremoto, ad esempio, genera detriti e polvere, ma può anche allargare crepe interiori preesistenti fino ad aprire delle voragini insanabili.
La letteratura delle macerie diventa a quel punto uno strumento indispensabile per addentrarsi in quegli interstizi – anche temporali – in cui il disfacimento fisico diventa rottura di coscienza. Ma esplorare le zone d’ombra e tentare una ricomposizione del sé, passa per lo stabilire un legame di tensione continua tra le impressioni che popolano la mente.
Difatti, uno dei corollari naturali dell’idea di mindscape è che un paesaggio non è solo un luogo geografico, ma è espressione di una complessità sinestetica. Colline, colori, case, odori, acque, oggetti, fratture, rumori: la totalità della percezione si fa proiezione mentale. Potrebbe dunque non essere un caso che il paesaggio del terremoto venga spesso descritto con la semantica del suono, anticipatrice dell’oscillazione, preludio al crollo.
È quanto accade in Rombo di Esther Kinsky2, dove il racconto del terremoto che colpì il Friuli nel 1976 si dipana attraverso una narrativa frantumata, che posa lo sguardo su ciascun momento del fenomeno sismico al ritmo e all’intensità dei suoi movimenti sussultori. Il racconto si dilata e si comprime, anche stilisticamente, esattamente come accade alla terra sollecitata dalle scosse. Le descrizioni del paesaggio carsico, tagliente e azzurro, si propagano come onde e si intervallano a richiami mitologici, alla memoria storica e ai racconti di frontiera. I personaggi vengono colti come testimoni sopraffatti da una foto istantanea, che però resta scolpita nel tempo, come un’incisione sulle rocce preistoriche. Essi vengono dislocati tra le pagine quasi come se fossero brandelli di loro stessi, sollecitati da premonizioni o da reminiscenze sfumate. Il rumore che anticipa il terremoto accompagna il lettore per tutta la lunghezza del racconto, viene descritto comeun accumulo di suoni in crescendo, come la conclusione sorda e smorzata di un movimento cominciato molto lontano3 con cui tutto è iniziato e che tutto ha cambiato:

«In seguito, tutti parleranno del rumore. Del rombo. […] Sibilo, ronzio, brontolio, sussurro, tuono, strepito, fruscio, stridore, borbottio, fischio, rimbombo, boato. E così via. Ma sempre cupo. Nessuno l’ha avvertito come stridulo, squillante, limpido.»4.

Il boato del terremoto, occulto e indifferente, si fa poi voce tra le voci nel romanzo di Remo Rapino Cronache dalle terre di Scarciafratta5.
Tra gli abitanti delle terre di Scarciafratta – luoghi dell’anima corrispondenti alle colline erbose e ferite dell’Abruzzo – una voce da trombone sfiatato prende la parola, e presentandosi come la “Cosa Brutta” descrive in prima persona l’atrocità, ineluttabile, di cui è capace:

«Dal sottosuolo ho fatto salire un rantolare sordo come un grosso lupo mannaro, per inquietare corpi e anime. In ultimo ho tirato l’esplosione di grido, un urlo rabbioso, una ferita lancinante. Facevo urlare la terra tutta, che sembrava farsi come una polenta, acqua e fango sotto le scarpe, le pareti gemevano di un dolore quasi umano, i tetti s’aprivano con furia, solo qualche architrave reggeva a malapena, tutto sbriciolava come biscotti acqua e farina, intanto che mille voci gridavano ad un cielo indifferente Il terremoto, il terremoto! […] » 6

Il dolore è qui talmente pervasivo da occupare tutto il paesaggio: si inserisce nelle pieghe dell’umano, invade la memoria. Un attimo dopo, le immagini della distruzione si fanno già ricordo e uno squarcio si apre su quello che rimane: la vita salvata dalle macerie e che popolerà le rovine.
Tra le cose che restano c’è la lingua, quella parlata e quella della poesia, territorio intangibile dove si origina il senso di appartenenza e si cura l’anima. La lingua diventa intima e preziosa, perché chiama ciò che si è perduto.

Spopolamento e desolazione emotiva: partire o restare?

Tragedie come quelle provocate dai terremoti accelerano i processi di spopolamento delle aree colpite dalle catastrofi e incentivano i flussi migratori.
I movimenti umani di massa trasfigurano il paesaggio al pari di una sciagura naturale, lacerando ulteriormente territori già tramortiti. È quanto accade, nei paesi doppi che si originano quando un centro abitato si sposta verso un luogo non distante da quello colpito dalla calamità.
In situazioni come queste, all’esodo delle comunità, si affianca una desolazione emotiva: i vuoti si manifestano e acquistano consistenza, i paesi abbandonati diventano cumuli di pietre, e vengono talvolta idealizzati in una nuova retorica dei borghi fantasma che non fa altro che accentuare il senso di spaesamento già provato da chi sente ancora di appartenere a quei luoghi ma è costretto ad abitare altrove.
Restare o partire infatti non è una scelta che si compie in maniera indolore, spesso non è nemmeno una scelta. E se, da un lato, si è abituati alle dinamiche dell’andare via (una necessità che, seppure dolorosa, contiene in fondo una promessa), meno esplorate sono invece le implicazioni del restare.
In questo senso, il saggio La Restanza7 di Vito Teti può considerarsi un valido punto di riferimento per mettere a fuoco il restare in contrapposizione al partire. Un corpus concettuale che riguarda anche le città, le metropoli, le periferie.
Partendo da una lettura critica del territorio in continuo cambiamento, Teti immagina e descrive nuove pratiche dell’abitare. La prospettiva è molteplice: all’indagine dell’antropologo-letterato, si affianca l’insofferenza tutta umana di chi sa di appartenere a un paesaggio in rovina secolare – quello nostro, peninsulare – e che ancora fatica a trovare una dimensione propria nella contemporaneità.
La restanza non è infatti una forma di nostalgia o una vocazione malinconica, spesso apatica nei confronti del posto in cui si è nati, tutt’altro: ha a che fare con la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi, attraverso processi creativi e conflittuali, che possono risultare rigenerativi tanto per il territorio in sé, quanto per i suoi abitanti. Restare, in fondo, non è che un ulteriore modo di affermare la presenza e riempire i vuoti.

Il Terzo Paesaggio come fondamento per una topologia comune

Ri-abitare i luoghi significa principalmente impegnarsi a costruire comunità senza cadere nella retorica dell’esasperazione identitaria8. Vuol dire anche uscire da visioni ristrette, e soprattutto, superare quella ripartizione rigida a cui sembra assoggettato il paesaggio contemporaneo, che vede da un lato il prorompere di luoghi imbalsamati e turistificati (come i borghi prettified o i centri storici ormai gentrificati) e dall’altro, l’addensarsi di spazi ai margini e in stato di abbandono, dove povertà, migrazioni e guerre sociali si sedimentano come rifiuti in una discarica.
Per ridare significato al paesaggio in rovina si rivela allora fondamentale costruire una topologia comune: elaborare cioè, delle coordinate condivise di lettura del paesaggio con l’obiettivo di costruire un pensiero critico, che possa fare da motore per un cambiamento rigenerativo.
Proprio da questa esigenza sembrerebbe partire il paesaggista e filosofo Gilles Clément nel suo Manifesto del Terzo Paesaggio9, un pamphlet tecnico che spiana la strada alla riflessione sul paesaggio in abbandono.
Clément identifica il Terzo Paesaggio come l’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo, che appaiono per sottrazione ai territori antropizzati10. Recita il manifesto:

«Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre […] una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. […] Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata.»11

Appare chiaro dunque che la diversità, intesa nel senso più largo come convivenza nelle differenze, diventa la lente attraverso cui avviare una nuova lettura degli spazi di indecisione, di quei frammenti condivisi di una coscienza collettiva12 che contraddistinguono il paesaggio in rovina. Rieducare lo sguardo all’osservazione del paesaggio, abituandolo a cogliere l’invisibile nascosto nel visibile, potrebbe allora non essere un affare puramente personale, legato all’unicità emotiva di ciascuno. Al contrario, potrebbe invece rivelarsi fondamentale per maturare, a livello collettivo, quella consapevolezza da cui muove la possibilità di cambiamento. Una presa di coscienza che, a ben vedere, trova fondamento nel senso di meraviglia, inteso non tanto come stupore di fronte a una bellezza codificata, ma come un ritorno alla capacità di sorprendersi di fronte al possibile.

1 Vittorio Lingiardi, Mindscapes, Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina 2017

2 Esther Kinsky, Rombo, Iperborea, 2023

3 ivi, p. 46

4 ivi, p.46

5 Remo Rapino, Cronache dalle terre di Scarciafratta, minimum fax, 2021

6 ivi, pp.149-150

7 Vito Teti, La Restanza, Einaudi, 2022

8 ivi, p. 49

9 Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, 2005

10 ivi, p. 13

11 ivi, p. 16

12 ivi, p. 30

I prigionieri

foto di Pamela Frani

La dedica che Pierluigi Vito ha fatto sulla nostra copia de “I prigionieri” si rivolge a persone “che sanno ben capire quale amore ci sia tra queste pagine”. I sentimenti, le relazioni, la paura, l’inconnu che però è presagio, l’amore: tutto questo nel libro è maneggiato con cura, con la delicatezza di chi ha tra le mani una porcellana antica.

Pierluigi, ci racconti del tuo libro “I prigionieri”? Come mai hai scelto questa storia?

Avevo intenzione di cimentarmi con una vicenda situata negli Anni di Piombo mentre ancora scrivevo il mio primo romanzo, “Quelli che stanno nelle tenebre” (Robin, 2016). Lì affrontavo una storia ambientata nell’Italia degli anni ’50 e già terminando la stesura sentivo che c’era bisogno di un “secondo tempo”, della necessità di recuperare degli spunti che avevo cominciato ad affrontare. Come ad esempio la dissimulazione della propria identità, il peso esistenziale che comporta, le ragioni che la determinano. Insieme a ciò mi interessava affrontare il tema della libertà: cosa voglia dire essere liberi e, di converso, cosa accade nel momento in cui la libertà viene meno. All’inizio mi ero concentrato sulla vicenda di Aldo Moro, cercavo una via nuova per affrontare questa pagina di storia cruciale per l’Italia contemporanea, ma poi mi sono casualmente imbattuto in una vicenda molto meno nota, quella di Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse. Mi pareva inconcepibile che un evento del genere fosse quasi scomparso dalla memoria nazionale; e studiando gli avvenimenti, leggendo le sentenze, incontrando i familiari della vittima e uno dei terroristi che partecipò all’azione, mi sono convinto che fosse necessario dedicarmi a questo lavoro.

Nel tuo libro si parla del rapimento di Giuseppe Taliercio, ma il titolo è al plurale: qual è il motivo?

Come dicevo, uno dei temi che mi interessava trattare era la perdita della libertà. E se nel caso di chi si ritrova incatenato a una brandina dentro una soffitta, guardato a vista da carcerieri armati, il fenomeno è eclatante; nondimeno anche gli aguzzini devono fare i conti con gli effetti della situazione. Per motivi di lavoro e per interesse umanitario mi sono trovato ad avere a che fare con la realtà carceraria. Mi sono reso conto che una prigione fa del male non solo a chi vi è rinchiuso, ma pure a chi detiene le chiavi delle celle. Bastino i dati: nel 2022 si sono tolte la vita 84 persone detenute nelle carceri italiane; e, secondo recenti statistiche, mentre il tasso dei suicidi in Italia è dello 0.60 per mille nella popolazione, questo sale all’1 per mille tra gli agenti di Polizia e all’1.30 per mille tra gli agenti di Polizia Penitenziaria1.

Per questo volevo dare conto del dolore patito dalla vittima, ma pure del conflitto che si genera in chi si ritrova a contatto con un altro essere umano a cui impone una sofferenza prolungata. Non a caso, a un certo punto tra i miei personaggi si crea un dissidio: c’è chi comprende chiaramente che ucciderlo subito sarebbe stato meno straziante per l’ostaggio, ma soprattutto per loro, chiamati a fare i conti giorno per giorno con il crimine che stavano compiendo. E perciò anche i terroristi sono prigionieri: dell’azione scellerata che hanno messo in piedi, dell’ideologia che li ha accecati, della loro vigliaccheria nel non ribellarsi a una condotta che scorgono come inutile e controproducente per la causa della lotta armata, e contraria a ogni briciolo di umanità.

Sembra infatti che in alcuni momenti della narrazione i brigatisti siano a disagio con gli aspetti più difficili del sequestro e che emerga l’umanità, comune al prigioniero e ai carcerieri, rispetto alle ragioni che li vedono ostili. Vorresti commentare la tua rappresentazione di questo aspetto del rapporto fra i personaggi?

Quello che mi premeva prima di tutto era mettere in scena proprio questo conflitto di umanità. Che si articola su tanti livelli: quello politico, un uomo dai saldi valori democratici di fronte a dei militanti armati comunisti; quello di classe, il dirigente di una grande industria di fronte ai rappresentanti del proletariato; quello generazionale, un uomo ultracinquantenne di fronte a dei giovani che potrebbero essere suoi figli. Sono tutte contrapposizioni che giorno dopo giorno (ricordiamo che il sequestro di Taliercio durò 47 giorni, solo 8 in meno rispetto a Moro) entrano in crisi, perché l’uno e gli altri scoprono brecce nei muri che li dividono. Taliercio è cosciente della necessità di riformare lo Stato per garantire più giustizia sociale; ha conservato la consapevolezza delle proprie umili origini e conduce un’esistenza morigerata allevando 5 figli con un solo stipendio (tutt’altro che faraonico); e comprende le istanze dei giovani perché riesce a vedere in chi lo ha sequestrato le ansie dei suoi ragazzi.

Tutto ciò finisce per inquietare i brigatisti, sgretolando le loro certezze, come emerge anche dagli atti del processo. Ma, appunto, essendo prigionieri di un’ideologia perversa, compresa la militaresca obbedienza al vertice dell’organizzazione terroristica, non si ribellano alla decisione di uccidere l’uomo che aveva mostrato loro la possibilità di una diversa umanità.

Tu sai che uno dei punti del tuo romanzo che mi ha colpito di più sono le lettere di Taliercio alla moglie. Lettere immaginate, intrise di un sentimento semplice ma intenso. Come mai hai scelto questo tipo di narrazione per descrivere l’amore tra i due?

La scelta è nata mettendo insieme alcuni dati di fatto. A partire dalle numerose lettere scritte da Aldo Moro durante il suo rapimento: materiale che fu sfruttato a scopo propagandistico dalle BR. Ragion per cui mi aspettavo, accostandomi alla vicenda di Taliercio, di trovare altrettanta corrispondenza dalla sua prigionia. Al contrario! Durante i giorni del sequestro uscì dal covo brigatista solo una lettera, scritta al segretario del Sindacato Dirigenti d’Azienda. Una missiva dai toni anche formali, senza particolare pathos che potesse giovare agli obiettivi dei brigatisti. I quali, d’altronde, avevano lasciato carta e penna a Taliercio per scrivere. Pare tuttavia che questi stracciasse quello che scriveva. Ecco, questa è stata l’illuminazione. Mi sono fatto l’idea che, per sopportare quelle lunghe settimane di prigionia, Taliercio aveva bisogno di cercare sostegno in quanto aveva di più caro al mondo: da un lato c’era la sua fede cristiana e non dall’altro ma sempre dallo stesso lato c’era l’amore per la sua famiglia, in primis per Gabriella, Lella, la sua sposa. E allora l’ho immaginato giorno dopo giorno mettere su carta i suoi pensieri, la sua devozione, le sue paure e le sue speranze in un colloquio incessante con Lella. Ma per evitare che i suoi sentimenti più puri venissero anch’essi sequestrati dai terroristi, ecco che Taliercio si preoccupa di stracciare i fogli carichi di quell’amore che doveva preservare.

Quanto incide secondo te, l’Assoluto nella creazione del legame d’amore di questi sposi?

Tantissimo. Non possiamo dimenticare che Pino e Lella si erano conosciuti da ragazzi in parrocchia, nell’Azione Cattolica: erano due sposi cristiani che avevano scelto di legare le proprie esistenze indissolubilmente per tutta la vita. E non è stata una vita semplice: il loro primogenito muore appena nato, in circostanze drammatiche; hanno dovuto affrontare prove non indifferenti per la salute di Lella; e poi dal momento in cui Pino è diventato direttore del Petrolchimico sono cominciate ad arrivare a casa minacce delle Br, fino al tragico epilogo. Eppure dalle lettere che si scambiavano da fidanzati e dalle testimonianze dei figli e di chi li ha conosciuti emerge evidente la passione tenace che li univa e che si radicava in un Oltre sconfinato.

Come l’amore degli sposi Taliercio è descritto in maniera spirituale, quello fra Marcello e Nadia, i brigatisti, è intriso di fisicità: ci spieghi le analogie e differenze di queste coppie?

In realtà ci sono tante coppie in questo romanzo, anche per questo ho voluto in copertina Gli amanti di René Magritte (pittore che amo), sovrastati dalla stella a cinque punte delle Brigate Rosse: per trasmettere il concetto di relazioni amorose schiacciate dalla violenza terroristica. Ci sono Pino e Lella su tutti; poi, come giustamente notavate, Marcello e Nadia; ma pure Emilio e Martina, coppia spezzata nei sentimenti ma rimasta forzatamente unita dalla militanza armata; c’è Andrea, che alla sua Roberta non ha detto di essere entrato nelle Br, e deve tenerla lontana dal loro covo; c’è Sara che si ritrova a capo dell’Esecutivo brigatista dopo che Maurizio, il suo uomo, era stato arrestato. Sono tutte coppie separate nei giorni del rapimento, tranne Marcello e Nadia. Ed è proprio la loro fisicità, insieme a quel barlume di appagamento e di comunione di intenti – pur nella diversità di caratteri – che renderanno alla fine impossibile per Emilio lasciarsi trascinare dalla loro parte e magari salvare la vita al prigioniero. A questo proposito credo giusto sottolineare che il mio Taliercio, pur privilegiando il legame spirituale con Lella, nelle sue lettere manifesta anche pensieri legati al corpo di lei. In una arriva a chiedersi “Quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore?”. Perché quello che gli manca, quello di cui ha bisogno è di sua moglie nella piena interezza. Ciò vale pure per Emilio, che si ritrova l’anima infestata dal pensiero di Martina: in questo senso anch’egli è prigioniero, nei giorni del sequestro, di una smania che non trova pace.

Tutti i personaggi di questa storia vivono di grandi passioni e quella amorosa è tra le principali; pur se può sembrare strano in un romanzo dalle forti tinte politiche. Ma in fondo, come scrive Robert McLiam Wilson in Eureka Street, “ogni storia è una storia d’amore”.

Oh Lella cara, comincia a perdonarmi di tutto e quando ci ritroveremo faremo i conti con questa storia e ce la lasceremo alle spalle.[…]pensa al vuoto accanto a te come all’attesa di una felicità più grande, quando dentro al prossimo abbraccio troveremo il porto sicuro dopo la tempesta. Buonanotte amore mio, vivi e spera!

Pierluigi Vito, I prigionieri, Augh!, 2021 pag.27

1Il dato viene dall’Osservatorio Suicidi in Divisa (OSD) aggiornato per il 2022 ai primi di agosto: https://www.poliziapenitenziaria.it/suicidi-tra-le-forze-dellordine-e-una-strage-quasi-sessanta-dallinizio-dellanno-2022/

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