au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

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Tutti i rumori dell’universo, più uno.

Foto di Namroud Gorguis su Unsplash

C’è un disco che viene pubblicato nel 1975: nella sua versione originale è composto da due vinili su cui sono incise distorsioni che non seguono alcun ritmo o melodia, una cacofonia che non lascia scampo e che sembra una provocazione fine a sé stessa. Per dirla con le parole di Lester Bangs, critico musicale tra i più bizzarri e influenti del periodo, “stiamo parlando di due dischi che durano un’ora e non contengono altro che rumori di feedback a palla registrati a varie frequenze, messi come sottofondo di altri strati di rumore, divisi a metà in due canali totalmente separati di strilli e sibili del tutto inumani e venduti a un pubblico che, per dirla all’acqua di rose, non era preparato a una cosa del genere.” [1]

Quel disco è Metal Machine Music di Lou Reed: lo stesso di Perfect day, Walk on the wild side o Sally can’t dance, ma anche dei Velvet Underground, che col loro suono sporco e dissonante hanno aperto la strada a decine di band punk, noise e shoegaze. Come suona? Le parole di Lester Bangs sono ancora perfette, riuscendo benissimo a mettere per iscritto un’imitazione fedele di tutto quel frastuono: “ZZZZZZZRRRRRRRREEEEEEEEEEGGGGGGGGGRRRRRAAAAARRRRRRRRGGGGGGGGHHHHHNNNNNNNNNNNIIIIIIIIIIEEEEEEEERRRRRRRRRRRRRR…” [2] – e così a oltranza, per un’ora circa.

Ecco, quando penso al rumore questo è il primo riferimento che mi viene in mente: qualcosa che infastidisce, una frequenza che si insinua nella testa e butta all’aria pensieri e concentrazione; un rimbalzo sonoro che richiama tutta l’attenzione su di sé, al solo scopo di farsi detestare dal malcapitato ascoltatore.

Andando indietro nel tempo, già in uno scritto di Claude Lévi-Strauss di metà anni Sessanta si parlava degli strumenti del rumore come di “strumenti delle tenebre” [3], mettendo in opposizione baccano e fetore nello studio di miti e rituali del Sud America, dell’Europa e fino alla Cina.

Ma proseguire in questa direzione sarebbe ingiusto. Quest’introduzione a effetto è esagerata: qualche riferimento musicale di nicchia, qualche citazione altisonante. Pensare al rumore solamente a questo livello di percezione sarebbe troppo superficiale. Per provare a fare un salto di qualità sfrutto ancora una frase tratta da una recensione del solito Metal Machine Music, stavolta apparsa sulla rivista Rolling Stone al momento dell’uscita del disco: quei suoni atroci venivano descritti come qualcosa di paragonabile al “gemito di un frigorifero galattico” [4].

Qui è l’aggettivo “galattico” che mi colpisce e attiva connessioni con rumori altri: da una visione (o audizione?) assordante, terrena e terrestre mi proietta in un universo etereo e stellare, appartenente allo spazio più profondo. Che rumore fanno i pianeti? I buchi neri? I satelliti? Il sole? Una risposta parziale la trovo nello Space Project, una raccolta musicale in cui alcuni artisti sono stati chiamati a scrivere canzoni a partire da materiale registrato dalle sonde spaziali Voyager 1 e Voyager 2, lanciate in orbita dalla NASA nel 1977. La sorpresa è scoprire che il rumore della galassia è un rumore immaginato: le frequenze udibili non possono propagarsi nel vuoto dello spazio, per cui le registrazioni delle sonde Voyager non sono suoni in senso convenzionale, ma sono prodotte “dalle fluttuazioni della radiazione elettromagnetica nella magnetosfera dei corpi celesti studiati dalle sonde” [5][6]. Che vuol dire? Che fruscii, sibili, sfrigolii, soffi di vento non sono altro che riverberazioni dell’esistenza fisica di pianeti e stelle. Come fossero un rumore radioattivo, l’intermittenza di un neon, il tremolio dell’aria intorno a una centrale elettrica.

Questo rumore cosmico lo immagino agli antipodi rispetto a quello terrestre: è un rumore che si muove sullo sfondo, si insinua nella mente e si stende come un tappeto sonoro sulle pareti del cranio, un po’ ovatta e un po’ rimbombo. È il rumore di un immaginario intergalattico che ha trovato nel tempo numerose incarnazioni terrestri, ma che per me avrà sempre le sembianze di Sun Ra: un ragazzone nero cresciuto nell’Alabama di fine anni Quaranta, con un talento per la musica jazz d’avanguardia e l’estetica di un mistico afrofuturista. “«Rumore» era una delle prime parole che venivano in mente a chi ascoltava l’Arkestra di Sun Ra negli anni Sessanta” [7], si legge nella sua biografia: il rumore come connessione ancestrale tra le persone, siano esse provenienti da una provincia statunitense o da un anello di Saturno.

E come suonava questo rumore? Prendo ancora in prestito parole altrui per provare a rendere l’idea di un’esperienza sensoriale totalizzante. “Lo spazio era il luogo. Rumore e silenzio si scontravano nel vuoto; gli strumenti delle tenebre strillavano, rimbombavano, pulsavano: multifonici di oboe e ottavino, rulli di timpano, piatti a spirale campane tamburi-drago tamburi-tuono distorti dall’eco, agglomerati di flauti tremolanti ed eterodinanti, celestiali passi elettronici di angeli che danzavano su una marimba bassa, violoncello-colibrì, sassofoni e clarinetti bassi che eruttavano ruggiti da scimmie urlatrici, plastica estrusa per esplorare lo spazio cosmico, cabine di pilotaggio efficienti e aerodinamiche di Clavioline, Rocksichord, organo Farfisa, piano elettrico Fender Rhodes, Hohner Clavinet e sintetizzatore Moog. Una colonna sonora per letture pentadimensionali di fumetti e riviste di fantascienza di metà Novecento come «Fantastic Adventures», «From Unknown Worlds», «Wonders of the Spaceways» e «Tales of Tomorrow».” [8]

Livello di confusione: elevato. Livello di estasi: ancora di più, se possibile.

La cosa buffa del rumore è che diventa tale sfruttando i nostri corpi: una musica ad altissimo volume, un rombo, un’esplosione, un tonfo sordo: il rumore ci attraversa, ci facciamo per lui cassa di risonanza, e poi… cosa rimane? A volte un leggero giramento di testa, altre volte un disorientamento diffuso, altre ancora un senso di sintonia con il tempo e lo spazio che ci circondano. Ci restano addosso delle tracce fisiche, come con le bolle di sapone che ci scoppiano in faccia. Il mio preferito è il fischio nelle orecchie. Mi piace pensare che quel fischio sinusoidale sia un qualcosa che emettiamo a nostra volta verso l’esterno: come se il rumore che ci ha attraversato fosse rimasto impigliato nel nostro corpo, e poco alla volta se ne uscisse soffiando e sfregolando e frusciando, tentando di assomigliare alla scia bavosa di una lumaca o alle nuvolette di vapore davanti alla bocca che si formano quando parliamo e l’aria è troppo fredda.

Ma torno a ripensare al cosmo, e a tutto questo rumore che si muove dallo spazio profondo fino alla Terra come fosse una specie aliena, un virus a forma di suono in cerca di un ambiente in cui installarsi. Nuove fascinazioni che alimentano un volo pindarico che mi fa atterrare su certa musica elettronica ambient, in cui la ricerca della riproduzione della natura passa attraverso le macchine: non più le macchine generatrici di suoni metallici come in Metal Machine Music, ma macchine che masticano frammenti digitali di polvere, vento, acqua, e li mescolano dentro bit, algoritmi, progressioni matematiche. È in certa musica ambient che il rumore diventa artefatto digitale, e in un certo senso alieno.

Per scrollarmi di dosso mille suggestioni non posso fare altro che nominare il trittico composto da Aphex Twin, Autechre e Boards of Canada, un triangolo perfetto di artisti che incarnano, parafrasando in una riga tutto ciò che straborda da Exmachina di Valerio Mattioli: giochi di prestigio e bizze istrioniche; austerità digitale e progressioni generative; tepore analogico e umanesimo nebuloso. [9]

C’è rumore? Oh, sì. Tutto quello che uno può desiderare – oppure evitare, a seconda dello stato d’animo del momento: cosmico, anarchico, fastidioso, aritmico, ripetitivo, sintonizzante, naturale nella sua artificiosità.

Perché il rumore, come un organismo alieno o naturale che sia, si attacca e si adatta: a persone diverse; a esperienze diverse; a contesti diversi. Ed è capace di nascondere armonia e pace all’interno della propria apparente dissonanza.

Fin qui ho deciso che il rumore è prerogativa dell’udito. Ma chi lo dice? Tutti i sensi possono essere agitati da qualcosa di anomalo e inaspettato: un glitch in un’immagine digitale o un graffio in una pellicola; una superficie irregolare che si fa estranea al tatto; un’interferenza odorosa tra un respiro e l’altro; un sapore inaspettato che inquina un’armonia gustativa. Questo stesso articolo, in fondo, è imperniato di rumore: non scorre liscio, la lettura non è lineare, si salta di palo in frasca creando connessioni precarie e pretestuose. Dove sta la linea di demarcazione tra fastidio e sintonia? Cosa ce ne facciamo di tutti questi rumori? Li abbracciamo o li repelliamo? E come si esce da questa successione sconclusionata di pensieri?

Potrei usare un piccolo stratagemma, rivelando un segreto. Io di solito mi appello a un mantra, inteso come pensiero che offre protezione, che mi ripeto mentalmente ogni volta che le domande diventano troppo rumorose e che le interferenze sono a un passo dal mandare in tilt l’intero sistema. Sono le parole di una canzone di Nicolas Jaar [10]. Space is only noise if you can see. Grab a calculator and fix yourself. Grab a calculator and fix yourself. Sintonizzano il rumore con lo spazio, con la memoria, con la vista, con il corpo. Space is only noise if you can see. Mettono insieme suono terreno e riverbero cosmico. Space is only noise if you can see. Soffiano via la foschia e rendono docili tutti i rumori dell’universo. Space is only noise if you can see. Tengono i nostri piedi ben piantati a terra, prima che la gravità sparisca di nuovo. Space is only noise if you can see.

Note bibliografiche

[1] Lester Bangs, “Guida ragionevole al frastuono più atroce”. Trad. it. Anna Mioni. minimum fax, 2018.

[2] Idem.

[3] Claude Lévi-Strauss, “Dal miele alle ceneri”. Trad. it. Andrea Bonomi. Il Saggiatore, ed. 2023.

[4] James Wolcott, “Metal Machine Music”. Recensione su Rolling Stone, 1975. Link: https://www.rollingstone.com/music/music-album-reviews/metal-machine-music-99547/

[5] NASA, “Voyager. Interstellar Messengers”. Link: https://science.nasa.gov/mission/voyager 

[6] Nick Neyland, “Space Project”. Recensione su Pitchfork, 2014. Link: https://pitchfork.com/reviews/albums/19271-space-project/ 

[7] John F. Szwed, “Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra”. Trad. it. Michele Piumini. minimum fax, ed. 2024.

[8] David Toop, “Oceano di suono. Musica ambient e ascolto radicale nell’era della comunicazione”. Trad. it. Michele Piumini. add editore, 2023.

[9] Valerio Mattioli, “Exmachina. Storia musicale della nostra estinzione 1992 → ∞”. minimum fax, 2022.

[10] Nicolas Jaar, “Space is only noise if you can see”. Brano tratto dall’album “Space is only noise”, Circus Company, 2011. La parte del testo citata, tradotta in Italiano, fa più o meno così: “Prendi una calcolatrice e sistemati / Lo spazio è solo rumore se si può vedere”. Ma l’interpretazione può andare in una direzione più o meno evocativa: “fix yourself” si può intendere anche come “aggiustati, riparati, mettiti a posto”, e il “calculator” può essere più genericamente una “macchina”; “if you can see”, d’altro canto, può indicare un’attitudine: “se riesci a vedere, se ne sei capace”.

Altri suggerimenti di lettura

Mariana Branca, “Non nella Enne non nella A ma nella Esse”. Wojtek edizioni, 2022.

Don DeLillo, “Rumore bianco”. Trad. it. Mario Biondi. Giulio Einaudi editore, ed. 2014.

Mark Fisher, “Scegli le tue armi. Scritti sulla musica K-Punk/3”. Trad. it. Vincenzo Perna. minimum fax, 2021.

Pauline Oliveros, “Deep Listening. La pratica sonora di una compositrice”. Trad. it. Diana Lola Posani. Timeo, 2023.

Orizzonte

Foto di Amy Humphries su Unsplash

Orizzonte

La mia insegnante di lettere del liceo era considerata una zitella un po’ inacidita ma ancora irrimediabilmente romantica. Era vicina alla pensione e alla ricerca dell’amore nonostante ogni evidenza della sua vita le dicesse che era ora di arrendersi. Questo almeno era quello che vedevamo noi, sciocchi adolescenti che della vita non avevano ancora sperimentato granché e sicuramente capito niente. La vita di quella donna traboccava d’amore. Quanto ad arrendersi, non ne aveva la minima intenzione. Affrontava ogni giorno con un coraggio che a ripensarci oggi mi abbaglia.

Scoprimmo la sua storia una mattina che in classe entrò un supplente. Lei aveva accompagnato il nipote in ospedale la notte precedente, non voleva lasciarlo e aveva chiesto un permesso. Venimmo a sapere allora che si occupava da sola del figlio tetraplegico della sorella, che era mancata, vivendo insieme ai genitori anziani di cui pure si prendeva cura con una dedizione che ai nostri occhi rasentava il martirio. Ripenso spesso a lei oggi che il lavoro di cura di una persona amata consuma buona parte del mio tempo.

Da maggio 2019 l’OMS ha inserito il burnout nell’International Classification of Disease (ICD)1 definendolo una sindrome da stress cronico associato al contesto lavorativo, con particolare riferimento alle professioni di cura ma esteso a ogni contesto professionale. Del lavoro di cura privato che avviene nelle case, non meno logorante, nessuno mi aveva mai fatto cenno. La comunicazione pubblica italiana non affronta la questione in maniera efficace. Esistono associazioni sul territorio che se ne occupano ma bisogna cercarle da sé. La sensazione iniziale è di essere soli.

La definizione di burnout prevede quattro fasi.2
La prima è un senso di potenza derivato dal desiderio di fare e dall’impegno profuso.
Subentra la stagnazione quando ci si scontra con le difficoltà della situazione.
È seguita dalla frustrazione e da una profonda sensazione di impotenza
La quarta fase è il distacco, che si porta dietro sentimenti di intolleranza e indifferenza, sensi di colpa, cinismo e sensazione di fallimento.

Sul limite della terza ho chiesto aiuto. Il reparto oncologico che ha in cura mio padre offre un servizio di supporto psicologico gratuito sia ai pazienti che ai familiari. Sulle prime non pensavo di averne bisogno, ero convinta di poter attingere alle mie sole risorse, e poi dove potevo mai trovare il tempo per occuparmi di me con tutto quello che mi gravava sulle spalle? Mi sbagliavo, pure sul tempo. Si trova per tutto, anche per l’impensabile. Soprattutto non c’è aiuto che si possa dare ad alcuno se non si è in grado di aiutare se stessi, e lasciarsi aiutare.

Come faceva la mia insegnante a sopportare tanto ed essere comunque sorridente in classe? Io spesso mi sono sentita mancare: la terra sotto i piedi, il coraggio, la determinazione, la voglia, me stessa. Ho ripescato una foto di classe. Sorrideva pure lì. Mi sembra curva sotto un peso che non si vede ma si intuisce. Forse lo scorgo perché adesso lo riconosco. Non ho più saputo cosa ne sia stato di lei né del nipote. Non posso più chiederle niente. Le risposte arrivano nella nostra vita sempre disallineate : quando potevo avere una risposta non avevo ancora formulato la domanda.

L’ospedale ha definito mio padre “malato terminale”. Quando mi sento schiacciata da questa sentenza inappellabile mi risuona nella testa La cura di Battiato:

E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te3

So di non poter fare questa promessa e sto provando a farci pace. Ho ripensato di recente alla mia insegnante guardando un film di Bong Joon-ho, regista del più noto Parasite del 2019. Si intitola Madre4, è del 2009 ma in Italia è arrivato nel 2021. Racconta la storia di una madre che lotta con ferocia per salvare il figlio. Nella scena di apertura c’è solo lei, che non ha nome ed è chiamata solo madre. La interpreta Kim Hye-ja che avanza a fatica tra l’erba alta in uno spazio immenso, sola e smarrita sotto un cielo plumbeo, circondata da montagne. Poi comincia a danzare. Lo spazio è vasto e aperto solo in apparenza, a me è sembrato una prigione.

Ho iniziato a guardare il film senza saperne nulla e ho scoperto presto che la sua prigione è il figlio. Ha un disturbo mentale e quando viene arrestato lei fa della sua sopravvivenza ragione di vita, missione e condanna insieme. La sua danza è uno straziante lamento. Non dice una parola, spesso non guarda neanche in camera. Ma so come si sente. Sperduta e sola in un vasto campo riarso, si arrende a danzare una musica che non può cambiare. C’è un tamburo che batte e impone il suo ritmo. A un certo punto sembra che si lasci andare alla musica, nasconde lo sguardo, accenna persino un sorriso. Poi scopre gli occhi, li riapre sulla realtà, il sorriso sparisce. Ora è la bocca che nasconde con la mano. Infine si volta, continua a danzare dandoci le spalle, rinuncia all’orizzonte.

Quanto il mondo si contrae dentro una stanza e si riduce a una persona su un letto, l’orizzonte si fa stretto e il resto diventa opaco. In alcuni momenti ho avvertito un abisso tra il dentro e il fuori. Ma anche tra le mie risorse che si assottigliavano e quello che la situazione richiedeva: presenza, attenzione, perenne allerta. La cura può essere logorante ma non sono io a portare il peso più grande.

Nona Fernández nel memoir Voyager5 racconta una visita neurologica a cui accompagna la madre: “Usciamo dallo studio del neurologo e guardo mia madre con altri occhi. Ora so che sulle spalle porta il peso del cosmo intero. Le racconto cosa ho visto sul monitor assieme al dottore. Le parlo della somiglianza del suo cervello col firmamento. Dell’attività elettrica dei suoi neuroni, della luce del suo ricordo, della costellazione che si è accesa mentre lei lo rievocava, del riflesso luminoso del suo passato. Le domando qual è la scena felice che ho visto luccicare sul monitor, lei sorride e risponde di aver ricordato il momento della mia nascita.

Da quando ha scoperto di avere un tumore al quarto stadio mio padre pensa continuamente a quando eravamo piccoli. Lui e io. Mi racconta pezzi della sua infanzia e li mescola a frammenti della mia, dimentica di avermi già raccontato un episodio che lo riguarda e la volta dopo ne divento io la protagonista. Non sono sicura che tutto quello che racconta sia ricordo autentico o solo una narrazione che costruisce per colmare i vuoti di memoria che gli stanno svuotando il cuore. È così che mi ha detto di sentirsi, col cuore vuoto. Il mio è colmo di paura.

In certi momenti, al buio, quando ho più paura, cerco di convincermi che sto vegliando il delirio di una sconosciuta” scrive Julián Herbert in Ballata per mia madre.6 Chi è sua madre, si chiede l’autore mentre siede accanto al letto e si interroga sul suo rapporto con lei, pieno di rabbia ma anche di dolcezza, contraddittorio com’è ogni cuore, com’è la vita stessa. Chi è mio padre, mi domando anch’io mentre lo guardo dormire e mi sembra già morto. Una volta mi sono sorpresa a desiderare che fosse già accaduto, poi ho pianto per ore. Volevo che fosse oltre il dolore, trarre fuori anche me stessa dal pantano della sofferenza, ma non sapevo perdonarmi un desiderio tanto atroce. Un momento dopo già speravo di avere più tempo da passare con lui. I desideri si contraddicono quando ci si prende cura di qualcuno sulla soglia tra l’ora e il mai più.

Ci siamo detti abbastanza? Ho mai capito chi fosse, oltre a essere mio padre? Aggiungo lo sforzo di comprensione alla fatica della cura quotidiana. Non ero pronta a fargli da genitore, lo sto imparando mio malgrado. Sono sua figlia e mi è difficile accettare che sia debole, spezzato, che non sia lui a proteggere me da paura e dolore.

Non c’è altro da fare se non provare quel che c’è da provare” scrive Marco Peano in L’invenzione della madre.7 Mattia, il protagonista del romanzo, sa che non potrà salvare sua madre dalla malattia e decide di non sprecare un solo istante. Ridisegna la sua vita, le dà la forma di lei. I suoi giorni diventano attesa ma anche memoria, un viaggio da fermo, un esercizio d’addio.

Si può imparare a dire addio? Anche a volerci provare non se ne ha il tempo, risucchiato dalle incombenze pratiche: punture, colloqui con l’oncologa, rimedi per gli effetti collaterali della chemioterapia, cosa gli do da mangiare, che mi invento oggi per distrarlo, cosa farmi raccontare perché pensi di avere ancora un posto a questo mondo, nella mia vita, nella sua? E poi la domanda che se ne sta acquattata in fondo alle altre: sto facendo abbastanza? Qualche mese fa la mia risposta sarebbe stata no. Ero in un gorgo da cui non vedevo uscita se non la fine. Adesso è sì. La sola uscita possibile è ancora quella di prima, ma io ho attuato un cambio di prospettiva radicale. Mi ha aiutato a crederci la psicologa che ci segue e pure uscire da quella stanza e tornare nel mondo, a viverlo.

Quando morirà sprofonderò nella colpa che mi vado costruendo giorno per giorno. Sarà pronta per il suo funerale.” È Donatella Di Pietrantonio in Mia madre è un fiume.8 Pure io indosso ancora quella colpa quando mi sento troppo stanca per offrirgli un sorriso oppure ho modi spicci perché non vedo l’ora di fare ciò che devo e scappare via per qualche ora. Per concedermi aria e spazio, ricaricarmi, coltivare la vita fuori da quella stanza. Non posso metterla in attesa, tanto meno spegnerla. Ora lo so. È giusto così. Quando rientro ho qualcosa di nuovo da dirgli. Gli piace ascoltarmi mentre gli racconto per quanti chilometri ho corso la domenica, se è stato pubblicato un mio pezzo che gli avevo letto, un’avventura con le sue nipoti, quell’escursione che volevamo fare insieme.

La preoccupazione è ancora lì, bene incistata. È paura che accada qualcosa mentre non ci sono e terrore che accada invece davanti a me. È timore di non reagire abbastanza in fretta nell’emergenza. È non sapere come sarà dopo che lui avrà oltrepassato quella soglia. Ma ho cominciato a credere che il coraggio bisogna fabbricarselo, non esiste già da qualche parte, da tirare fuori. Il mio lo sto costruendo un giorno per volta, uno spavento dietro l’altro. È impastato con la fatica della cura ma pure con la vita, quella che c’è stata, che c’è ancora e che anche dopo, in qualche modo, continuerà.

Questo articolo è il racconto di un’esperienza personale. Se hai dubbi sull’argomento, consulta un professionista per informazioni, una diagnosi o un percorso terapeutico.

1 Per l’inserimento del burnout nell’ICD dell’OMS https://www.who.int/news/item/28-05-2019-burn-out-an-occupational-phenomenon-international-classification-of-diseases
2 https://www.centromoses.it/benessere-sul-lavoro/articoli/burn-out-lavorativo
3 Franco Battiato, La cura, in L’imboscata, PolyGram, 1996
4 Bong Joon-ho, Madre (Madeo), Corea del Sud, 2009
5 Nona Fernandez, Voyager, traduzione Carlo Alberto Montalto, gran vía, 2021, p. 18
6 Julián Herbert, Ballata per mia madre, traduzione Maria Cristina Secci, gran vía, 2014
7 Marco Peano, L’invenzione della madre, Minimum Fax, 2015, p. 188
8 Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, Einaudi, 2022, p. 68

Un’assenza bruciata dal sole

Foto di Feliphe Schiarolli su Unsplash

Nella mia classe del liceo, all’inizio del quarto anno, arrivò una ragazza nuova, G.. Veniva dalla classe che ci precedeva, una classe piccolissima, erano in 10 o 11 al massimo, tutte donne. Molto diverse da noi, che eravamo tanti, compositi, casinari. Quelle della quinta, stipate per via del numero insolito nell’auletta più striminzita dell’intero edificio, non si sentivano mai. Niente confusione, niente clamori di alcun genere, nessun episodio che facesse parlare di loro, chiuse lì dentro spesso anche a ricreazione. G. era così anche lei, come le sue compagne. Ma l’avevano bocciata, unica di quelle poche, e finì con noi.
Non legò praticamente con nessuno, in un’età feroce nella quale ci si annusa per riconoscersi, lei aveva un altro odore. Al nostro naso, in realtà, G. non sembrava sapere di niente. Veniva da un paese di montagna di quelli che per le scuole, l’ospedale, il lavoro confluiscono verso la mia città, uno dei borghi più distanti: tre quarti d’ora di corriera e la strada ghiacciata d’inverno. Mi ricordo che la prendevamo un po’ in giro perché da lei, lassù, la tv non prendeva il segnale di Italia Uno: adesso non saprei nemmeno dire se fosse vero o no, può darsi, o può essere che fosse solo un modo stupido di atteggiarci a cittadini davanti a lei che veniva da un paesello.
Arrivava in silenzio tra i primi, appena scesa dal pullman, rimaneva in silenzio nel suo banco, a fare cosa non me lo ricordo. Perché nemmeno io, che pure mi davo arie da leader, ero rappresentante d’istituto, mi impegnavo nell’associazionismo studentesco, e mi sforzavo di esserci, per tutti, sempre, a lei, non facevo caso quasi mai.
L’anno dopo, in quinta, era già primavera inoltrata, la maturità alle porte, arrivammo alla sesta ora e una professoressa, forse quella d’inglese, volendo interrogare, chiamò lei. Ma lei non c’era, il suo banchetto singolo (li avevamo tutti così) in fondo all’aula era vuoto, la sedia spostata, sul piano un libro chiuso, niente zaino, nient’altro. La professoressa ci chiese dove fosse finita la nostra compagna, nessuno seppe dirlo. Mandò qualcuno a cercarla in bagno, niente. Poi, dopo qualche minuto, una ragazza di quelle sedute in fondo anche lei, ebbe il coraggio di dire a voce alta: «Professore’, secondo me G. oggi non è venuta proprio». Rimanemmo muti per qualche secondo.
Aveva ragione. G., in classe, quel giorno, non c’era mai stata, il libro era rimasto lì dal giorno prima. Il docente della prima ora l’appello non l’aveva fatto, si era limitato a un «Tutti presenti?» al quale, evidentemente, avevamo risposto di sì. Sul registro, quindi, l’assenza non era stata segnata. E in testa non l’avevamo segnata nemmeno noi.
G. era a casa sua, raffreddata. Al rientro, forse, nessuno le raccontò di quello che era successo. All’esame di stato fu bocciata, l’anno dopo non si iscrisse, la maturità non la prese più, credo. Di lei non seppi più nulla.
Oggi non so dove sia, cosa faccia. Sono passati venticinque anni da quella mattina. A distanza di tanto tempo, mi sembra ancora, e in modo distinto, una delle cose più sottilmente violente di cui sia stato complice. Quel non accorgercene, quel non sentire, quel non vedere: di come cancellammo G. per un giorno, in realtà per molto più tempo, sento ancora il rimorso.
G. mi è tornata a pesare sul cuore, l’estate scorsa. Un paio di anni fa, più o meno di questi tempi, abbiamo cominciato il progetto di allargare la nostra casa, un appartamento grande, ma non più sufficiente per starci comodi tutti, mia moglie, io e i nostri tre figli. Siamo riusciti ad acquistare l’interno sopra il nostro, lo abbiamo fatto ristrutturare, e poi a giugno scorso è cominciato il ricongiungimento. Finita la scuola abbiamo sfollato i figli a casa dei nonni in Puglia, abbiamo liberato l’appartamento vecchio, e mentre tutto era ancora un cantiere, io e mia moglie ci siamo accampati nel paio di stanze già finite al piano nuovo. È stata un’esperienza di fatica rara, straniante. La polvere, la stanchezza, il viavai settimanale verso i figli distanti trecento chilometri, il pensiero dei soldi (tanti) che stavamo spendendo, gli imprevisti prevedibilissimi di ogni ristrutturazione.

Fino al buco.

A luglio, quando ormai la prostrazione era oltre i livelli di guardia, gli operai hanno iniziato a demolire il pavimento, a pochi metri dalla stanza dove dormivamo. Hanno rimosso il massetto, hanno segato il travetto e hanno aperto il foro dal quale sarebbe poi passata la scala interna per collegare i due piani. Era il momento decisivo: due anni di ansie, di sacrifici, stavano per finire: le case stavano per diventare casa, una.
E invece, davanti a quello squarcio, ho perso il sonno.
La prima notte sono rimasto in piedi sul ciglio di quel temporaneo burrone domestico, ho guardato giù, nel vuoto del cantiere sottostante, coi calcinacci ancora a terra, e dentro ci ho visto un vuoto più profondo, più pauroso. La stanchezza, l’inadeguatezza. Soprattutto, la coscienza improvvisa che la terra possa aprirsi all’improvviso sotto i tuoi piedi, senza avvisaglie, senza permesso, senza lasciarti il tempo di dire o fare niente. E farti sparire, senza lasciare segni.
Quella notte, improvvisamente, ho ripensato a G., e a come la resi assente esattamente come stavo temendo di diventare assente io in quel buio, in quel buco.

«Chi ti cerca è il sole, non ha pietà della tua assenza
il sole, ti trova anche nei luoghi casuali dove sei passata,
nei posti che hai lasciato
e in quelli dove sei inavvertitamente andata
brucia
ed equipara al nulla
tutta quanta la tua fervida giornata».

Sono i primi versi1 di una delle ultime poesie di Mario Luzi, dalla raccolta pubblicata poco prima che morisse, novantenne. Un’assenza bruciata dal sole. Mangiata dall’oblio. Digerita dal nulla.
Il pensiero del vuoto mi ha perseguitato per i dieci giorni successivi.
Poi è arrivata la scala.
L’hanno portata smontata. Due lunghe travi di metallo, sagomate a scalini, più la struttura portante, e le ringhiere, e le pedate di legno bianco da avvitare. I fabbri ci hanno messo meno di un’ora a mettere tutto insieme. Il buco si è riempito sotto i miei occhi: non c’era più. Mia moglie ha salito la scala davanti a me, ho pianto un poco. Mi sono passato il dorso della mano sul viso, poi abbiamo iniziato a pulire tutto, a rimettere tutto a posto.
Ho iniziato a salire e a scendere quella scala, una volta, tante volte, col passo incerto dell’inizio – perché è venuta un poco ripida – poi con quello più scontato dell’abitudine. Sono passate le settimane, i mesi, la quotidianità ha ripreso il sopravvento. Continuavo a pensare, ogni tanto, al vuoto di quella notte. Finché una sera, all’improvviso, in un silenzio innaturale per casa mia che è un sabba permanente di grida di bambini, in un silenzio pieno come quello di quella notte di luglio, ho sceso un gradino e un pensiero mi ci ha fermato sopra.
Mi è tornata in mente una pagina dell’Antico Testamento che da ragazzino mi aveva segnato nel profondo, una vecchia vicenda minore della Genesi. C’è Giacobbe che, per quel piatto di lenticchie diventato poi paradigmatico, compra da Esaù la primogenitura, la benedizione di loro padre Isacco. Il fratello gliela giura, e per sfuggire alla vendetta Giacobbe fugge, spinto dalla madre a cercare moglie presso parenti lontani. Sarà una lunga storia, ma prima che cominci accade un fatto: Giacobbe si addormenta e sogna una scala lunghissima, che dalle nubi scendeva fino a terra, con gli angeli di Dio che salgono e scendono. Quando si sveglia, il sognatore fuggiasco esclama: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo»2.
Non lo sapevo nemmeno io, ora, forse, lo sto comprendendo un po’ meglio. G. non l’avevo cancellata, perché G. c’era, c’era molto oltre la sua invisibilità ai nostri occhi distratti di adolescenti cinici. C’era per chi la vedeva, per chi l’amava, per chi camminava con lei. Non era assente lei: me l’ero persa io.

Come m’ero perso me stesso, fissando il buco nel pavimento senza capire che quel taglio, quel diaframma rimosso, non era un vuoto ma uno spazio liberato senza il quale non potrebbe mai trovare posto il futuro.

Uno strappo da suturare per tenere insieme quello che siamo e quello che siamo chiamati ad essere, la nostra miseria e la bellezza di cui siamo capaci. Perché l’assenza, domani, diventi “più acuta presenza”, come scrisse quasi un secolo fa Attilio Bertolucci3. Perché si possa dire, come nell’ultimo verso della poesia di Luzi, di quella “fervida giornata”: «Eppure è stata / è stata / nessuna ora sua è vanificata».

1 Mario Luzi, “Non andartene”, in Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, 2004
2 Genesi 28,11-19
3 Attilio Bertolucci, “Assenza” (da Sirio, raccolta del 1929), in Le poesie, Garzanti, 1998

Imagerie

Legami

I crediti sono nel post

Questo numero mi ha dato la possibilità, attraverso le sue voci, di rappresentare legami sentimentali, legami tra sorelle, legami con la famiglia, con la casa. Vorrei, dunque, prendere questo spazio per parlare di un legame per me fondamentale: quello con le mie passioni. Il motivo per cui scelgo di citare i miei interessi, proprio qui, proprio in questo numero è che mi rendo conto che sono tutti collegati tra loro dalla parola “immaginario”. Leggere crea nella mia mente personaggi, gesti, sfondi; i film mi danno la possibilità di ampliare il mio immaginario; ascoltare una canzone forma un’immagine. Per questo motivo, credo che il legame con quella che è una parte importante della mia vita, con l’arte in ogni sua sfaccettatura, debba essere citato in un luogo che ha come titolo Imagerie.

Le immagini:

Editoriale di Pamela Frani
Foto di Will O su Unsplash
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  • Poesie

Fosca Navarra
Foto di Phil Baum su Unsplash
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Eleonora Baggio Compagnucci
Foto di Patrick Hendry su Unsplash
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  • Articolo 

Letizia Baldioli
Foto di Ramin Talebi su Unsplash
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  • Racconto

Roberta Silvagni
Foto di Annie Spratt su Unsplash
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Sorellanza: la riscoperta di un legame antico

Foto di Ramin Talebi su Unsplash

“non si tratta di provare qualcosa o di pronunciare parole
si tratta solo di essere
insieme.”

Bernardine Evaristo, Ragazza, donna, altro, Edizioni SUR

Una sera, mentre camminavo spedita verso un parcheggio in una zona isolata della città, nel silenzio ho udito un rumore di passi dietro di me. Con i sensi all’erta, mi sono voltata appena per sapere chi fosse, consapevole che è più prudente evitare contatti visivi con gli sconosciuti, e ho notato con sollievo che era una donna. Senza scambiare una parola, le nostre andature si sono allineate. Quando siamo arrivate alle auto, con uno sguardo ci siamo assicurate che anche per l’altra fosse tutto a posto e poi ognuna ha preso la propria strada. Quel gesto solidale, quel legame fugace, è stato un piccolo atto di sorellanza.
La sorellanza è un legame che di solito viene associato al femminismo militante e, anche se è un accostamento corretto, quello dei collettivi e dell’attivismo non è l’unico modo di percepirlo e di viverlo.
Secondo il vocabolario Treccani la sorellanza è il “rapporto naturale tra sorelle e il vincolo d’affetto che le unisce”1, oppure il legame tra due o più cose di genere femminile che hanno la stessa origine e le stesse caratteristiche, o anche il “sentimento di reciproca solidarietà fra donne, basato su una comunanza di condizioni, esperienze, aspirazioni”2.
Si può essere sorelle in quanto figlie dei medesimi genitori, e quindi legate da un vincolo di sangue. Ma si può essere sorelle anche per scelta, perché si hanno pensieri simili, le medesime esperienze, una storia comune, breve o lunga non importa.
La sorellanza non necessariamente conduce all’amicizia, o ne deriva. Due amiche si scelgono, si piacciono, provano affetto reciproco, possono avere storie anche molto diverse tra loro, ma sentono un’affinità. Amiche si diventa, sorelle si è.
Si può stabilire un legame di sorellanza anche senza una specifica intenzionalità, senza partire da un precedente sentimento, senza bisogno che ci sia già intimità, stima o conoscenza profonda. A volte è sufficiente stare vicine per un breve tratto di strada, avere un bisogno che l’altra comprende al volo perché ne ha fatto esperienza in quanto donna, scambiare due chiacchiere in un contesto femminile o femminista. Accade qualcosa, cade il velo dell’abitudine, lo sguardo si apre e ci si riconosce simili, anche se abbiamo storie diverse e prima di quel momento non eravamo mai entrate in relazione.
Ci accomuna l’essere state educate e vivere in un contesto sociale che ci relega perlopiù in ruoli subordinati o di cura, ci fa muovere in spazi fisici e mentali progettati dagli uomini, spesso solo per le esigenze degli uomini. E questi due spazi si condizionano l’un l’altro.
La geografa Leslie Kern nel suo libro La città femminista, scrive: “le donne vivono la città con una serie di barriere […] che modellano la loro vita quotidiana attraverso dinamiche che sono profondamente (sebbene non solo) di genere”3. Sono molte le donne che si sentono in pericolo e vulnerabili quando tornano a casa da sole la sera o la notte. Il tessuto urbano attuale non è pensato per la sicurezza femminile. A questo proposito Kern afferma che “i principali responsabili delle decisioni, che sono ancora per lo più uomini, stanno facendo scelte su tutto […] senza sapere nulla, né tanto meno preoccuparsi, di come queste decisioni influenzano la vita delle donne”4. Non si tiene conto delle loro difficoltà, e del fatto che le esperienze urbane delle donne sono determinate dalla loro identità di genere.
Alla luce di ciò, ogni volta che due o più donne si trovano in una situazione, in un luogo, o vivono un’esperienza che non è pensata per loro, ciò che possono fare è unirsi per sopperire alle mancanze di una società che non le ha incluse in fase di progettazione. Kern, parlando delle sue amiche e delle loro esperienze di gioventù, scrive: “Sapevamo che nessuna sarebbe stata lasciata sola o maltrattata. L’amicizia ha fatto sì che ci sentissimo libere nella città”5. Siamo in molte a non sentirci libere di vivere la città come vorremmo ed è per questo che, ad esempio, in Italia l’associazione Donnexstrada ha creato il servizio di videochiamata Viola walk home6 attivo tutti i giorni 24 ore su 24 a cui ci si può rivolgere per essere “accompagnati” a casa in un orario e un giorno specifici. Oppure si può chiamare un’amica: sapendo che siamo sole di notte da qualche parte non le dispiacerà essere stata svegliata.
Ma non c’è solo la sicurezza di cui tenere conto. A chi non è capitato, ad esempio, di dover chiedere un assorbente a un’altra persona, persino una sconosciuta? Aiutarsi non è solo un gesto di gentilezza, è rimediare a un’assenza, in questo contesto alla mancanza di distributori di assorbenti nei bagni pubblici. Sono gesti che in tante abbiamo fatto, così naturali da non stupirci e così spontanei da non domandarsi come mai il rimedio dobbiamo trovarcelo tra di noi, quasi alla chetichella.
Di questi gesti si può leggere nei libri. Nel romanzo I doni della vita di Irène Némirovsky, che non ha particolari riferimenti alla sorellanza, una scena mi ha colpita. Una donna sta per partorire mentre è sfollata a causa della guerra, la suocera cerca di aiutarla ma la situazione intorno è drammatica: “Non c’era tempo per piangere. Bisognava occuparsi di Rose, far scaldare dell’acqua, scaricare dalla macchina i medicinali di pronto soccorso […], cercare delle fasce in paese. Questo non sarebbe stato difficile: tutte le donne della casa si stavano dando da fare.”7
Quelle donne non conoscevano la partoriente, si erano incrociate per caso e per di più mentre scappavano. Eppure senza indugio si sono date da fare per lei, per una di quelle cose da donne di cui si capisce l’urgenza o talvolta l’ineluttabilità, ma che la società ignora. Ancora una volta sembra che dobbiamo sbrigarcela tra di noi.
Sorellanza è anche credere alle parole di un’altra donna quando in molti le mettono in dubbio, e farlo perché tante volte abbiamo visto screditare una vittima di violenza con domande su com’era vestita, che cosa stava facendo, scavando nel suo passato, o sottolineando il fatto che non si era opposta, come se dire di no fosse facile in certi contesti. Ci sono studi8 che analizzano le reazioni psichiche non volontarie come il freezing, ovvero l’incapacità di pensare e agire, una paralisi fisica ed emotiva che si attiva in situazioni come la violenza sessuale. Una qualsiasi ragazza a cui uno sconosciuto si sia strusciato addosso sulla metro o sull’autobus sa che è molto più probabile trovarsi impossibilitate anche solo a muoversi che non reagire, gridare, colpire.
Sorellanza è lasciare a ognuna la libertà di essere e di definirsi9 donna come vuole, anche se noi siamo diverse e faremmo altre scelte.
Spesso si sente dire che “le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne” e sembra davvero che sia così. Michela Murgia nel suo Stai zitta scrive che “è essenziale, nei sistemi maschilisti, che le donne credano che le loro peggiori nemiche siano proprio le altre donne, diventando inconsapevolmente complici del sistema che alla fine le opprime tutte”10.
La scrittrice Roxane Gay, nel suo libro Bad feminist citato da Leslie Kern, chiede di “abbandonare il mito culturale secondo il quale tutte le amicizie femminili devono essere cattive, tossiche o competitive. Questo mito è come i tacchi e le borse: belli ma progettati per rallentare le donne”11. Scegliere di praticare la sorellanza è un modo per uscire dalla retorica patriarcale che pretende di stabilire come deve essere il rapporto tra donne, per andare a scoprirne invece le potenzialità.
Nella letteratura, finché anche le donne non hanno trovato uno spazio meno angusto all’interno della scena letteraria occidentale, si parlava poco di amicizia femminile e lo sguardo con il quale questo legame veniva analizzato era quasi sempre stato quello maschile. A questo proposito Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé, scrive: “tutte le grandi donne della letteratura erano state, fino ai tempi di Jane Austen, non soltanto viste dall’altro sesso, ma anche viste in relazione all’altro sesso”12.
Siamo state dipinte in eterna competizione le une con le altre, sempre pronte a rivaleggiare o a tradirci per conquistare un uomo, più che a sentirci sorelle o diventare amiche.
“Supponiamo per esempio che gli uomini fossero rappresentati nella letteratura in qualità di amanti delle donne” scrive ancora Woolf, “e non fossero mai amici di altri uomini, soldati, pensatori, sognatori; non resterebbe molto delle tragedie di Shakespeare; e come ne sarebbe menomata la letteratura […] incalcolabilmente impoverita dalla non partecipazione delle donne”13.
Daniela Brogi nel libro Lo spazio delle donne attualizza il pensiero di Woolf: “Cosa può fare una donna nei romanzi scritti dagli autori italiani contemporanei? In molti casi prima di tutto la morta; poi la nonna, la madre, l’amica perfida, la moglie stronza, la figlia edipica, l’amante (nuda), la ragazzetta ninfomane, la sconosciuta stupida – e in ogni caso sempre una donna eterosessuale”14. Sembra che anche oggi nella letteratura (ma anche nel cinema, in televisione) ci sia una difficoltà da parte degli uomini nel rappresentare le donne e i loro legami, amicizia e sorellanza comprese, soprattutto se non ruotano intorno a un maschio. Se poi si ha a che fare con donne che non rispecchiano i canoni estetici patriarcali, donne lesbiche, donne trans o persone queer, la strada da fare affinché siano presenti e correttamente rappresentate nelle narrazioni è ancora più lunga.
È servito di allontanarsi dall’onnipresente male gaze15 e di avere a disposizione anche sguardi diversi perché qualcosa iniziasse a cambiare e, in tema di sorellanza, se ne cominciasse a parlare smettendo di rifarsi solo ai modelli classici in cui questo legame si forgiava nella sventura e serviva per alleviare la pena16.
Nel saggio Sorelle. Storia letteraria di una relazione di Monica Farnetti, vi sono vari esempi di quelle che l’autrice definisce sorelle felici, in contrapposizione alle sorelle forti ma tragiche della classicità.
Farnetti scrive che la sorellanza fin dalle origini è il modo che le donne hanno avuto per “risollevarsi dal loro stato di soggezione culturale e politica, la condizione stessa del loro accesso alla vita sociale e intellettuale”17. Praticare la sorellanza significa quindi essere presenti e vive, come donne, nel mondo, abitandovi in modo pieno e autorevole. Ma è anche questo il motivo per cui “la prorompente energia della sorellanza è stata, fintanto che ciò è stato possibile, censurata, sminuita, parodizzata, contraddetta, bonariamente ammessa fra i valori positivi ma accessori di una cultura, sottostimata e reclusa tra gli affetti non primari”18.
E anche per sentirne parlare all’interno dei movimenti femministi si è dovuto aspettare la seconda metà del Novecento. Tra i tanti esempi e contributi su questo tema, riporto solo alcune frasi del libro Il femminismo è per tutti di bell hooks, scrittrice, studiosa, attivista americana, per accennare a che tipo di legame sia la sorellanza femminista. “Il movimento femminista” scrive bell hooks “ha creato le condizioni per la solidarietà femminile. Non ci siamo unite contro gli uomini, ci siamo unite per proteggere i nostri interessi come donne. […] La sorellanza femminista si radica nell’impegno condiviso a lottare contro l’ingiustizia patriarcale, non importa quale forma essa assuma”19.
Praticare la sorellanza è come stabilire un patto morale ed etico, o riscoprirne uno già esistente.
La sorellanza è un legame orizzontale, tra donne che si incontrano e si relazionano, ma è anche un legame verticale, un’eredità che si tramanda, un modo per passare le une alle altre quegli anticorpi che è necessario acquisire per contrastare lo sguardo patriarcale che anche le donne sono state educate a utilizzare per osservare sé stesse e le altre.
“La sorellanza fa sì che ogni donna possa incarnarla guardando, allo stesso tempo, verso il passato che gliela insegna e verso il futuro a cui la consegna, risultandone ogni giorno l’iniziatrice e l’erede.”20
Teniamoci cari, quindi, quegli esempi di sorellanza e di amicizia che la letteratura ci offre. L’amica geniale, di Elena Ferrante, dove il legame tra Lila e Lenù va oltre gli stereotipi e mostra anche le sue imperfezioni, quella terra di mezzo che esiste tra l’essere nemiche e l’essere costantemente allineate e solidali, ossia il luogo reale dove i rapporti di amicizia e sorellanza si vanno a collocare; L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, nel quale la protagonista scopre legami di sorellanza, impensati prima di sperimentarli, con le altre detenute, e il carcere può diventare il luogo dove “tutte capiscono perfettamente chi sei – e tu lo senti – in poche parole non sei sola come fuori”21; Nessuno torna indietro di Alba de Céspedes, in cui otto ragazze che vivono nel medesimo collegio femminile in attesa di iniziare a vivere le proprie vite una volta terminati gli studi, intrecciano legami dopo essersi “scelte tra tante, per affinità”22.
Questi sono solo alcuni esempi di romanzi che parlano di amicizia e sorellanza in contesti peraltro molto diversi tra loro. Ma di sorelle parla anche Jane Austen nei suoi libri. Senza una sorella, di sangue come Jane per Elizabeth, o per scelta come Miss Taylor per Emma, le protagoniste non avrebbero con chi confrontarsi, con chi dialogare oltre sé stesse23.
Possiamo cercare le storie di amicizia e di sorellanza tra le pagine delle scrittrici che amiamo o lasciarci ispirare da chi le ha già trovate e analizzate24.
“Dovremmo quindi impegnarci a destinare parte delle energie che normalmente dedichiamo a compiacere uno sguardo sconosciuto, a coccolarlo […]” ci esorta la scrittrice Carolina Capria nel suo Campo di battaglia, “per costruire legami che non solo possano sostenerci ma che ci aiutino ad acquisire una nuova prospettiva”25.
È possibile allenare lo sguardo a vedere bellezza nelle altre donne, educarci a praticare la sorellanza come forma di empatia, creando una rete di mutuo sostegno formata da un insieme di donne che lottano fianco a fianco, che alleviano le reciproche sofferenze ma che, soprattutto, sono capaci di ridere e di essere felici insieme.

Letture consigliate oltre ai testi riportati nelle note:

  • Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti, ed. Feltrinelli
  • Manuale per ragazze rivoluzionarie, di Giulia Blasi, ed. Rizzoli
  • Dovremmo essere tutti femministi, Chimamanda Ngozi Adichie, traduzione di Francesca Spinelli, Giulio Einaudi Editore
  • Sputiamo su Hegel e altri scritti, di Carla Lonzi, a cura di Annarosa Buttarelli, ed. La Tartaruga
  • Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, di Jude Ellison Sady Doyle, traduzione di Laura Fantoni, ed. Tlon

NOTE

1 https://www.treccani.it/vocabolario/sorellanza/
2 Ibidem.
3 Leslie Kern, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, trad. it.di Natascia Pennacchietti, Treccani, Roma, 2021, p. 16.
4 Ibidem.
5 Ivi, p. 86.
6 https://www.violawalkhome.com/it/
7 Irène Némirovsky, I doni della vita, Adelphi Edizioni, Milano, 2012, p. 211.
8 Ad esempio questo: https://www.internazionale.it/video/2021/11/25/stupro-cervello-reagire-aggressore
9 Per un approfondimento sul tema dei generi sessuali e la loro definizione, su cosa voglia dire essere donna al di là dell’aspetto biologico, si veda Jennifer Guerra, Un’altra donna, UTET, Milano, 2023.
10 Michela Murgia, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi, Torino, 2021, p. 60.
11 Leslie Kern, La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, op. cit., p. 82.
12 Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, trad. it. Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, Feltrinelli Editore, Milano, 2021, p. 118.
13 Ivi, pp. 119-120.
14 Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2022, p. 98.
15 La traduzione letterale è “sguardo maschile”, inteso come sguardo sulle donne che le identifica e le mostra come oggetti sessuali. In particolare ciò avviene nel cinema, nella pubblicità e in televisione. Molto interessante a questo proposito il documentario Il corpo delle donne. L’immagine del femminile nella Tv italiana, del 2009, realizzato da Lorella Zanardo (https://www.lorellazanardo.it/il-corpo-delle-donne/documentario/).
16 Cfr. l’introduzione del volume a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, Franco Cesati Editore, Firenze, 2019.
17 Monica Farnetti, Sorelle. Storia letteraria di una relazione, Carocci Editore, Roma, 2022, p. 21.
18 Ibidem.
19 bell hooks, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, trad. it. Maria Nadotti, Tamu Edizioni, Napoli, 2021, pp. 51-53.
20 Monica Farnetti, Sorelle. Storia letteraria di una relazione, op. cit., p.24.
21 Goliarda Sapienza, L’università di Rebibbia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2016, p.138.
22 Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano, 2022, p. 20.
23 Su questo tema si veda Liliana Rampello, Le sorelle di Jane Austen: vita letteraria e vita simbolica, nel volume a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu, L’eredità di Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, op. cit.
24 Suggerisco a questo proposito il podcast della giornalista e scrittrice Jennifer Guerra dal titolo Nemiche geniali, Emons Record, in cui analizza alcuni film, libri e serie tv per parlare di amicizia femminile e sorellanza, contrastando l’idea che la rivalità sia una condizione immutabile del rapporto tra le donne.
25 Carolina Capria, Campo di battaglia. Le lotte dei corpi femminili, effequ, Firenze, 2021, p. 181.

Leggere la notte, tra buio, luce, paura e attesa

Foto di gryffyn m su Unsplash

Il mio gioco preferito prima
di dormire è fingermi
un sasso in mezzo
al bosco. Essere coperta
di muschio, stare
dentro l’oscurità, stare
nella pancia del lupo
sapendo che nessuno
mi mangerà1.

Silvia vecchini

«Dentro di noi dev’esserci un gran buio!» sostiene Alice, l’amica del protagonista di Io, Alice e il buio buio, un albo illustrato che narra di due bambini che giocano a catalogare i diversi tipi di buio che possono incontrare.

Buio, ombra, notte sono imparentati, uniti tutti dall’assenza della luce che rende visibile e più comprensibile il mondo. In un mondo (sia arcaico, sia rurale) privo di luce artificiale la notte diventa una durata in cui tale assenza di luce si prolunga. E assurge a simbolo, topos letterario. Riempie i miti e le fiabe popolari legandosi a quella dimensione misteriosa con cui l’uomo ha sempre a che fare. Se dentro non arriva la luce si crea spazio per le angosce e le preoccupazioni dovute al fatto che a volte non si mettono a fuoco le cose, e non si coglie la forma di quello che sta intorno.

La notte diventa pertanto l’ora dei fantasmi, il tempo della lotta con Dio2, il momento in cui i mostri escono da sotto il letto e da dentro all’armadio; è l’ora dei sogni e degli incubi, dell’inquietudine, degli imbrogli, dei voti e dei tormenti (come non pensare ai Promessi Sposi!), di quando facciamo i conti con qualcosa che non riusciamo a governare perché non è contenibile con i sensi né con la razionalità.

La notte da sempre non è solo il momento in cui si incontrano le storie, lette o raccontate (sotto le coperte con la torcia, cullati dalla voce di un genitore, attorno al fuoco in cerchio…), ma è protagonista essa stessa di storie: basta leggere quante volte questa parola entra nei titoli dei libri per trovarsi davanti a una bibliografia sterminata e tuttavia ancora parziale. Certamente molte sono storie di paura, gialli e misteri, oppure storie su fatti decisivi, di ambientazione storica o distopica, che non saranno oggetto di trattazione qui. Propongo, piuttosto, un breve percorso, tutt’altro che esaustivo, nella mia biblioteca di letteratura per ragazzi, tra romanzi, racconti, raccolte poetiche, graphic novel, albi illustrati, che letti in profondità non si limitano a parlare al target di destinatari indicati nelle quarte di copertina, ma sono portatori di nodi simbolici che insegnano che attraverso la letteratura si può conoscer parte di sé e avere nuovi sguardi sul mondo, con una scintilla di speranza.

Molti libri rivolti a piccolissimi lettori narrano di un buio personificato che esce di notte e può avere paura dei bambini o dialogare con loro e invitarli nel luogo dove vive3 e gli albi illustrati ci raccontano con le immagini questa relazione che sconvolge ma costruisce un nuovo equilibrio. Straordinario l’albo senza parole Shadow dell’illustratrice sudcoreana Suzy Lee, in cui un gioco di ombre cinesi porta al di là della soglia dove le ombre possono invadere il nostro spazio, ma con cui anche possiamo entrare in relazione e superare la paura che nasce da ciò che non si conosce.

«Stai per entrare dentro la notte come si entra dentro il mare» scrive Andrea Bajani nell’albo illustrato da Mara Cerri La pantera sotto il letto. Padre e figlia tornano a casa. «Poi arriva la notte che prende la casa e la mette in un sacco. La bambina ha paura che insieme alla casa la notte prenda anche lei». E si prosegue in un dialogo simbolico di testo silenzi e illustrazioni che parla di notte, di buio e di paura che «è un animale che ti gira attorno». Mara Cerri la dipinge come una pantera nera come la notte: entrambe fanno paura, ma entrambe si possono esplorare. La bambina guardando la pantera negli occhi, riesce ad andare dentro al buio, ad affrontare la paura e a giocarci anche; lo sa fare forse meglio del padre: a volte, infatti, non basta accendere una lampadina per dissipare le ombre che hanno inghiottito il mondo.

Un romanzo fondamentale quando si parla di notte nella letteratura per ragazzi è l’ormai celebre Sette minuti dopo la mezzanotte, ideato da Siobhan Dowd e poi scritto da Patrick Ness e vincitore nel 2012 della Carnegie Medal e della Kate Greenaway Medal. Protagonista è Conor, che vive una vita difficile tra la malattia della madre, il bullismo subito a scuola e il rapporto non facile con il resto della famiglia. Il titolo fa riferimento al momento della notte in cui viene visitato da un mostro pauroso dalle sembianze del vecchio tasso che si erge sulla collina e che torna a raccontargli storie che lo mettono di fronte alla terribile verità che lo attanaglia tutte le notti. Un libro potente, che porta i lettori di fronte alla complessità dell’essere umano, alle paure più profonde, agli inganni che la mente costruisce e che nella notte ci trovano soli con noi stessi e con le scelte tanto difficili quanto necessarie.

Ancora sogni e ancora esseri misteriosi, stavolta all’apparenza angelici ne Il Nido di Kenneth Oppel, libro che lessi subito dopo aver incontrato e amato Skellig di David Almond: storie di fratelli, di esseri volanti e di cose che succedono (anche) di notte, anche se di segno diverso.

Virando sempre più verso il fiabesco tra le pagine di Amos Oz troviamo Nimi colpito da “nitrillo” e che vive nel folto del bosco, mentre al villaggio la notte rimane silenziosa, senza animali. Le domande dei bambini restano senza risposta finché due di essi andranno alla ricerca della triste verità.

Di altro genere e diverso mood, La notte delle malombre di Manlio Castagna ci porta in una storia realmente accaduta – un viaggio della speranza in treno da Napoli a Potenza nell’inverno del ‘44 misteriosamente interrotto in una galleria – che si tinge, nella narrazione alternata tra i diversi personaggi, di toni paurosi e tinte soprannaturali.

Sempre ispirati a una vicenda realmente accaduta – il black out del 9 novembre 1965 a New York – gli otto racconti de La notte più bella, Quando l’America restò al buio, Otto storie degli anni sessanta di Daniela Palumbo (Piemme). Da varie angolature, si sottolinea come una pausa forzata rispetto alle attività di un mondo dove fa sempre giorno consente di ripensare alla propria vita e a vederla sotto una “luce” diversa.

Altre volte la notte è il teatro dei sogni, della possibilità creativa che segue altre logiche e crea mondi, scenari inediti. Il sogno in letteratura è stato oggetto di vari studi e raccolte4, e la letteratura per l’infanzia non si sottrae a questa narrazione, a partire dal classicissimo Little Nemo in Slumberland di Windsor McCay: una raccolta di strisce dei primi del Novecento sui sogni fantastici del piccolo Nemo, interrotti da ripetute cadute dal letto. Troviamo sogni fantastici nel wordless picturebook del pluripremiato David Wiesner Free Fall o in Just a Dream di Chris Van Allsburg5. I sogni, insomma, non sono sempre brutti e angoscianti, a volte perché il GGG di Roald Dahl passa nella notte a soffiarne di belli e felici nelle camere dei bambini addormentati, o perché i donatori di sogni che Lois Lowry inventa in Gossamer hanno la meglio sui “sinistrieri”.

Un classico internazionale di un altro gigante dell’illustrazione, Maurice Sendak, è In the night kitchen, del 1970, dove Mickey, durante la notte, si rifugia in una città-cucina abitata da panettieri giganti. L’autore – che riempie l’albo di riferimenti autobiografici – diceva di essere rimasto colpito dalla pubblicità di una ditta che durante l’Esposizione universale newyorkese nel ‘39 prometteva: «Cuciniamo mentre dormi» e si rammaricava che tante cose belle succedessero mentre i bambini sono a letto6. Cose belle o cose strane, come in un altro wordless di Wiesner premiato con la Caldecott Medal, Martedì, che narra con straordinarie illustrazioni di un sorprendente volo notturno.

Parole e immagini evocative e poetiche caratterizzano i libri scritti e illustrati da Jimmy Liao, tra cui Una splendida notte stellata, che racconta con suggestioni alla Van Gogh la storia dell’incontro tra una bambina in lutto per la morte del nonno e un nuovo amico con cui superare la solitudine e godere di ciò che li circonda.

La notte spesso accoglie il carico delle nostre attese, dell’incertezza che anticipa l’arrivo di un giorno importante, tra la gioia e la preoccupazione, la trepidazione bella per qualcosa che si aspetta. E qui c’è tutto il tema delle veglie e delle vigilie7, da quella di Natale, religiosa o laica, dove si attende un dono – materiale, metaforico o simbolico (la nascita del bambino Salvatore) – e l’arrivo di chi lo elargisce (chi prima chi dopo: Santa Claus in varie versioni, Gesù Bambino, Santa Lucia, la Befana, i Magi), alla vigilia di Ognissanti – All Hallow Eve, dove il dialogo è con il mondo di chi non c’è più, con tutte le declinazioni che il mondo dei morti ha assunto negli ultimi anni -, alle tante attese private e personali, a partire da quelle di leopardiana memoria. In queste e altre feste sono ambientate tantissime storie, narrate, illustrate, alcune nella forma di graphic novel. In Era il nostro patto di Ryan Andrews un gruppo di ragazzi si accorda per di seguire in bici le lanterne di carta depositate la notte dell’Equinozio d’Autunno lungo il fiume. Nella notte di ferragosto, invece, trova l’apice la vicenda narrata in 21 giorni alla fine del mondo di Silvia Vecchini e Antonio “Sualzo” Vincenti, che vede coinvolti Lisa e il suo vecchio amico Ale alle prese con i cambiamenti delle loro vite, i segreti e le paure che devono affrontare.

La notte come metafora di oscurità e buio può indicare anche un buio che arriva perché si sta per perdere la vista. E qui la lettura di Prima che sia notte di Silvia Vecchini ci racconta, in un delicato alternarsi di prosa e poesia, la storia di Carlo, che non sente e vede solo da un occhio che comincia ad avere i problemi, e della sorella che prova a sostenerlo in tutti i modi.

I bambini che hanno paura del buio lasciano accesa una luce, che tiene lontano ciò che la paura potrebbe far nascere nella testa e quindi tutto attorno. Ma se ci abituiamo al buio diamo valore a tutto ciò che anche tenue può dare luce. Una rassegna di ciò che illumina la notte è magistralmente proposto nell’albo divulgativo Luci nella notte, un catalogo di fenomeni luminosi di origini e distribuzione tra le più varie, dalle stelle alla bioluminescenza e alla biofluorescenza. L’antesignano di opere come queste è certamente in Italia Nella notte buia di Bruno Munari, edito per la prima volta nel 1956, dove l’artista fa viaggiare i lettori tra le pagine arricchite di fori, tagli, finestrelle e acetati alla ricerca di ciò potremmo incontrare di notte, nell’erba, tra le rocce, dentro una grotta con le pitture preistoriche. Molto apprezzato La notte è piena di promesse, di Jérémie Decalf: racconta, tra poesia e nonfiction, il viaggio delle sonde Voyager 1 e 2 nello spazio interstellare, portatrici di un messaggio dell’umanità a potenziali civiltà extraterrestri. La divulgazione può, dunque, essere artistica e poetica e creare meraviglia, trattando tutti gli argomenti possibili.

Siamo partiti dalla poesia e alla poesia siamo tornati, perché da sempre la notte ospita sotto lo stesso cielo conflitti interiori, domande esistenziali, silenzi di meraviglia e i poeti hanno parole precise dentro cui ritrovarsi. E nelle notti fredde e nuvolose, quando il bagliore degli astri è coperto, le voci dei libri possono accendere una luce e tenerci compagnia.

Percorso bibliografico dei libri citati nell’articolo in ordine di apparizione (edizione italiana, dove presente)

  • Silvia Vecchini e Marina Marcolin, Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, Topipittori, 2014
  • Alessandra Racca e Anna Castagnoli, Io, Alice e il buio buio, Emme edizioni, 2019.
  • Suzy Lee, Ombra, Corraini, 2010
  • Andrea Bajani e Mara Cerri, La pantera sotto il letto, Orecchio Acerbo, 2015
  • Siobhan Dowd – Patrick Ness, Sette minuti dopo la mezzanotte, Mondadori, 2012
  • Kenneth Oppel, Il nido, Rizzoli, 2015
  • David Almond, Skellig, Salani,
  • Amos Oz, D’un tratto nel folto del bosco, Feltrinelli, 2005
  • Manlio Castagna, La notte delle malombre, Mondadori, 2020
  • Daniela Palumbo, La notte più bella, Quando l’America restò al buio, Otto storie degli anni sessanta, Piemme, 2023
  • Windsor McCay, Little Nemo in Slumberland, Taschen
  • David Wiesner, Free Fall, HarperCollins, 1988
  • Chris Van Allsburg, Just a Dream, Clarion Books
  • Roald Dahl, Il GGG, Salani
  • Lois Lowry, Gossamer, 21 lettere, 2020
  • Maurice Sendak, La cucina della notte, Adelphi, 2020
  • David Wiesner, Martedì, Orecchio Acerbo, 2016
  • Jimmy Liao, Una splendida notte stellata, Edizioni Gruppo Abele, 2013
  • Ryan Andrews, Era il nostro patto, Il Castoro, 2021
  • Silvia Vecchini e Antonio “Sualzo” Vincenti, 21 giorni alla fine del mondo, Il Castoro,
  • Silvia Vecchini, Prima che sia notte, Bompiani, 2020
  • Lena Sjöberg, Luci nella notte, Camelozampa, 2020
  • Bruno Munari, Nella notte buia, Corraini, 2007
  • Jérémie Decalf, La notte è piena di promesse, Terre di Mezzo, 2021

1 in Silvia Vecchini e Marina Marcolin, Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno, Topipittori, 2014. Questo e gli altri riferimenti bibliografici dei testi citati si trovano nella bibliografia in calce in ordine di apparizione, specificando, laddove presente, l’edizione italiana. La poesia e la notte, tra buio e luci, rimandano a una tradizione plurisecolare di poesia lirica e di domande che da intime si fanno esistenziali, ma si è scelto di non passarle in rassegna in questo contributo data la vastità della materia.

2 L’episodio biblico della lotta tra Giacobbe e Dio è raccontato in Gen 32, 23-33.

3 Due delle storie molto lette a casa erano Il terribile mostro buio di Silvia Forzani, in Grandi storie, ed. AVE 2006 e Il buio di Lemony Snicket e Jon Klassen, Salani 2016.

4 L’Università di Macerata curò ad es. un ampio progetto di ricerca confluito in Sogno e Racconto. Archetipi e funzioni a c. di M. Riccini e G. Cingolani, Le Monnier, 2002.

5 Per intenderci si tratta dell’autore di albi che hanno ispirato film celeberrimi: Jumanji e Polar Express, quest’ultimo incentrato su un viaggio notturno.

6 Lo racconta bene questo articolo di Andrea Fiamma: https://fumettologica.it/2020/07/cucina-notte-sendak-adelphi/

7 Andiamo dagli albi illustrati di testi poetici – le mille versioni della celeberrima ‘Twas the night before Christmas (www.poetryfoundation.org/poems/43171/a-visit-from-st-nicholas) di Clement Clark Moore oppure On a Windy night di Nancy Raines Day (Abrams Book, 2010), che ci porta nelle atmosfere di Halloween – alla vastissima produzione di racconti a tema.

Radici

Illustrazione © Francesco Abrignani

Radici. Tutte le volte che mi capita di pensare a questa parola, chiudo gli occhi e vedo mio nonno con le parole crociate in mano sotto quello che lui definiva “sommacco”. In realtà non è un sommacco, ma per me lo è e lo sarà sempre.

Le radici, ricerca dell’identità.

Foto by Pamela Frani

Dialogo con Alessio De Stefano e Gianluca Salustri

La cresta delle montagne dove il sole va a tramontare rafforza la sensazione che ho avuto prima, annullando ogni distanza cronologica e geografica.Casa non sembra così lontana nemmeno vista da qui”1

Alessio De Stefano, Vincent Massari Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni

Vincent Massari si imbarca per l’America con sua madre una settimana prima che il terremoto del 13 gennaio 1915 distrugga la Marsica. Quel viaggio lo ha reso superstite di un mondo che non c’è più. Alessio De Stefano (ADS) ci narra la sua storia nel libro pubblicato con la casa editrice di Gianluca Salustri (GS): Vincent Massari. Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni. Vediamo insieme a loro come è nato questo racconto.

Alessio, dal 2019 hai costruito la Piccola biblioteca marsicana per raccontare la Marsica e l’Abruzzo attraverso risorse e testimonianze storiche. Ti va di raccontarci cosa ti ha spinto a far partire questo progetto? Come è nato?

ADS: Il progetto nasce grazie a una particolare combinazione di eventi. Dopo essere tornato ad Avezzano nel 2016, ho avuto l’opportunità di approfondire la conoscenza dell’Abruzzo. Contestualmente, ho iniziato a collaborare con il “Laboratorio Artigiano Ennio Gentile”, un’associazione impegnata nel mantenere viva l’arte del restauro e dell’artigianato, preservando le storie degli oggetti.
È proprio all’interno dello spazio del laboratorio che ho concepito l’idea di creare un angolo dedicato alla lettura. Inizialmente avevo pensato di riempire una vecchia credenza con libri antichi, senza seguire un particolare ordine o tema. Poco dopo ho avuto l’intuizione di avviare una raccolta di volumi sulla Marsica.
Quest’idea si è poi concretizzata nel corso dei mesi, poiché c’era effettivamente una necessità di avere un punto di riferimento sulle fonti bibliografiche del territorio. È così che, dagli scaffali della vecchia credenza di via Monte Salviano, è iniziata la vita della Piccola biblioteca marsicana.
Nel 2020, con l’esplosione della pandemia, ho colto l’opportunità delle lunghe settimane di lockdown per progettare e costruire il sito web. Durante la ricerca di immagini da includere nelle pagine, ho scoperto che negli archivi digitali di tutto il mondo era conservato un autentico patrimonio di documenti e testimonianze che non avevo mai incontrato nelle pubblicazioni raccolte o nelle numerose pagine social dedicate. Da qui l’idea di ampliare le sezioni del sito per accogliere dipinti, incisioni, disegni, fotografie e mappe. Devo ammettere che è stato questo passaggio a espandere il mio orizzonte di ricerca e a conferire al progetto un taglio notevolmente più ampio e interessante.

Gianluca, anche la tua casa editrice Radici Edizioni nasce come legame con la “terra da cui veniamo, con le storie che ci hanno cresciuto e fatto diventare quello che siamo e con il passato utile e necessario a guardare il futuro con occhi sempre aperti.”. Per te le radici sono il punto da cui partire. Ci spieghi come è nato Radici Edizioni e quali sono gli obiettivi della tua casa editrice?

GS: Radici Edizioni nasce nella primissima fase post lockdown e viene al mondo – oltre che per un bisogno molto personale di rimettersi in gioco in un settore che avevo dovuto abbandonare troppo presto – perché a mio parere si era finalmente creato lo spazio per provare a “svecchiare” il racconto dei nostri luoghi. Non a caso ho sempre parlato di un progetto che voleva mettere al centro “nuove narrazioni territoriali”, pensate per rispettare gli studi fatti in passato da importanti personaggi della nostra cultura – che vanno ringraziati ancora oggi per tutto quello che hanno fatto e che continuano a fare – ma che fossero anche capaci di attirare nuovi lettori oltre a quelli che si dedicano a tali temi per professione. Da qui l’idea di puntare forte sugli albi illustrati che si ispirano alle storie del passato, su autori per lo più giovani e su una forte caratterizzazione dei progetti grafici di copertina; in modo da cercare di arrivare in maniera diretta a un pubblico forse spaventato dal troppo classicismo legato ai temi del folklore.

La figura di Vincent Massari ha fatto un po’ da trait d’union dei vostri progetti. Perché proprio Vincent? Che cosa nella sua figura vi ha conquistato?

GS: Quando Alessio, che avevo già avuto modo di apprezzare per la cura che mette in tutte le cose che fa, mi ha proposto la storia di Vincent è stato amore a prima vista. La sua partenza e l’arrivo negli Usa a ridosso del terremoto di Avezzano, le memorie dei pescatori del Fucino, i giornali pubblicati con e per gli emigranti… non avevo ancora idea di come scrivesse Alessio (tra l’altro benissimo) ma l’istinto mi ha fatto dire subito di sì, perché vedevo troppi collegamenti con l’idea che sta alla base della collana “Vite”, ossia quella di contestualizzare la biografia dei personaggi all’interno di un più ampio racconto di storia sociale dei territori da cui provengono.

ADS: La vita di Vincent Massari crea un ponte narrativo tra il periodo precedente e successivo al terremoto del 13 gennaio 1915, un momento cruciale nella storia della Marsica. Si dice che il sisma abbia raso al suolo non solo interi paesi, ma anche la memoria storica di questa regione. La vicenda di Vincent rappresenta un filo di continuità tra queste due fasi, dimostrando che, nonostante la frattura profonda causata dal terremoto, la storia non si è interrotta, ma ha invece generato molte altre storie, forse più difficili da recuperare, ma indubbiamente importanti da riscoprire.
Vincent è stato il progetto che mi ha permesso di approfondire il legame con Gianluca, di condividere con lui i chilometri di autostrade, stradine interne e strade fantasma dell’Abruzzo. Non ci siamo mai stancati di raccontare questa storia perché ad ogni presentazione c’era sempre qualcosa di interessante da approfondire, una nuova chiave di lettura o una curiosità legata al libro. L’attenzione dei lettori che seguono il progetto di Radici penso sia una grande medaglia al collo di questa avventura editoriale.

Mia madre, lo capii poco dopo, era convinta che se uno era in grado di leggere, allora poteva leggere qualsiasi cosa, in qualunque lingua2

Quanto secondo voi, il legame con le sue radici ha influenzato Vincent nella ricerca del riscatto e di una vita migliore in terra straniera? E quale è il vostro di rapporto con le radici?

ADS: Comprendere l’importanza e la necessità del senso di appartenenza per gli italiani che emigravano negli Stati Uniti ci permette di gettare luce sul contesto in cui Vincent ha combattuto e vissuto. Per coloro che intraprendevano il viaggio verso una terra così lontana, spesso senza conoscere la lingua e senza il supporto di parenti o compaesani che potessero accoglierli e orientarli, l’esperienza era permeata da un profondo senso di smarrimento, che assumeva contorni drammatici. Le radici rappresentavano un’ancora di salvezza, un’opportunità aggiuntiva per superare le numerose sfide; si manifestavano attraverso le comunità formate da compaesani che si riunivano periodicamente, le lettere ricevute da casa e smistate dai giornali italiani, e le bottiglie di vino fatte arrivare di nascosto nei circoli o nelle assemblee serali dei lavoratori.Vincent ha potuto fare affidamento sulla fiducia della Federazione Colombiana, guadagnata durante gli anni della sua presidenza e attraverso l’attività editoriale per “L’Unione”. Facendo leva su questa forza collettiva, è riuscito a entrare in politica e a ottenere risultati concreti per l’intero stato del Colorado. Questo legame non lo ha limitato, ma al contrario gli ha consentito di guardare lontano e progettare grandi imprese. È a questa idea che desidero associare anche il mio senso di appartenenza.

GS: C’è un passaggio importante nel libro, in cui Alessio si sofferma sulla frase “United we stand. Divided we fall”, utilizzata come sottotitolo della testata di uno dei giornali di Massari. Vincent mise in pratica questo motto con i suoi “paesani”, vicini e lontani, per affrontare le sfide che gli si stavano proponendo davanti e gli è servito senz’altro a farsi forza e a dare sostegno a tutti gli emigranti che leggevano le sue pagine. Ecco, facendo bene le dovute proporzioni, mi piace paragonare la sua esperienza alla mia, perché quello che sto cercando di costruire attorno a Radici è una comunità di persone che non siano per noi solo autori o autrici, ma che riescano a contribuire a una crescita costante del progetto attraverso la condivisione di idee e narrazioni e in questo, nonostante le esperienze vissute al di fuori della mia comfort zone, devo dire che i legami saldi costruiti nel tempo nella mia terra d’origine si stanno rilevando molto utili.

E dopo Vincent, quali progetti avete in serbo?

ADS: Personalmente sto ancora raccogliendo i frutti che la ricerca su Vincent mi ha regalato. Ho in programma di riordinare il materiale archiviato durante la ricerca sul campo negli Stati Uniti per renderlo accessibile agli appassionati. Poi c’è da continuare a far crescere la Piccola biblioteca marsicana, con nuovi contenuti che ho messo da parte in questi mesi e che aspettano solo di essere approfonditi. E poi chissà che durante le nuove ricerche non esca fuori una storia interessante da raccontare tra le pagine di un libro.

GS: Oltre a quello di sopravvivere in questo bellissimo ma maledetto settore editoriale intendi? Scherzi a parte, il piano editoriale per il 2024 è ormai praticamente chiuso e speriamo che l’anno prossimo possa rappresentare il momento giusto per provare a uscire un po’ dai confini regionali. Per questo vado di spoiler e annuncio qui che il nostro titolo di punta dell’anno prossimo sarà una raccolta di racconti di diciotto scrittrici americane contemporanee, tutte però con origini italiane. Diciotto donne che faranno i conti con il proprio passato familiare, in un vero e proprio viaggio attraverso il loro patrimonio identitario, sulle tracce della propria esperienza migratoria e all’interno delle due comunità, quella americana e quella italiana d’origine.

In qualche modo mi è sembrato che un lunghissimo filo ripercorresse il cammino all’indietro e attraversasse il tempo e lo spazio per riavvolgersi lungo il contorno del Fucino e abbracciare i pescatori.3

1 Alessio De Stefano, Vincent Massari Cronache di un abruzzese d’America, Radici Edizioni 2023 p.17

2 Idem, p.133

3 Idem, p. 157

Profumo, chiave della realtà

Photo by Vicky Ng on Unsplash

Odora di menta. Questo in Liguria è il massimo insulto che si può rivolgere ad una piantina di basilico, come spiega Laurel Evans in Liguria The Cookbook1. L’odore di menta indica che la pianta è troppo matura, che le foglie tenere hanno perso il dolce, delicato aroma della loro giovinezza e hanno assunto quel sapore pungente, più simile alla menta, tipico delle piante più vecchie2. Le nonne liguri, dedite alla preparazione del pesto, riconoscono questa caratteristica alla prima annusata e riescono così a selezionare le migliori foglie per ottenere una salsa con un gusto perfettamente bilanciato.

Nonostante la sua evidente utilità, in cucina come in altri ambiti, l’olfatto ha sempre avuto una cattiva reputazione, come se fosse la minore tra le facoltà umane, pur essendo, in realtà, un senso fondamentale, che ci mette in connessione con la realtà che ci circonda, rivelandone i dettagli intangibili. È stato senza dubbio il virus Covid-19, a causa del quale molte persone sono state colpite da anosmia (perdita dell’olfatto) a riportare l’attenzione sull’importanza di questo senso, come veicolo per la comprensione del mondo che ci circonda.

Harold McGee, famosissimo storico dell’alimentazione, vincitore del James Beard Award per il suo indispensabile trattato On Food & Cooking3, è rimasto talmente affascinato dall’esplorazione dell’olfatto da dedicargli il saggio Nose Dive. A Field Guide to the World’s Smell4 in cui compie una ricerca ben al di là del cibo, portando i suoi lettori in una vera e propria storia degli odori. McGee sottolinea la potenza dell’olfatto, che ci consente di percepire le molecole volatili: minuscoli pezzetti di mondo, così piccoli da riuscire ad allontanarsi dalla loro fonte e volare invisibili nell’aria che raggiunge il nostro naso.

Ciò che è subito evidente è che crescendo nel tardo ventesimo secolo, nel nostro mondo pre-impacchettato, sanificato e deodorato5 prestare attenzione agli odori è un’attività che compiamo molto di rado. Ma l’olfatto è uno strumento necessario per la nostra conoscenza della realtà, è un veicolo dei ricordi e, soprattutto, è un aspetto cardine della nostra esperienza del cibo. E questo a causa di un particolarissimo fenomeno biologico chiamato olfatto retronasale: la percezione olfattiva che avviene quando gli odori vengono trasportati dalla bocca al naso mentre si espira.

La verità è che noi esercitiamo l’olfatto in due modi. Annusiamo ciò che è all’esterno attraverso il nostro naso, ma percepiamo anche l’odore di quello che stiamo masticando nel retro della gola. Durante la masticazione e la deglutizione alcune molecole vengono rilasciate nell’aria presente nella bocca e sospinte nella cavità nasale, stimolando i recettori olfattivi: queste sono le sensazioni olfattive retronasali, che il nostro cervello collega a quelle gustative6. E l’unione di questi stimoli sensoriali di gusto e olfatto crea una meta-sensazione, quella che gli inglesi identificano come flavour, sostantivo la cui traduzione è sapore, ma anche gusto e aroma.

Pensiamo al pane. Il più semplice dei cibi al mondo: acqua, farina e un po’ di sale, con infinite possibilità, infiniti gusti e profumi. Per chi è caduto vittima della schiavitù della panificazione durante il lockdown, allenare l’olfatto è diventata una pratica quotidiana. Riconosciamo l’odore dolce, caldo, di banana del lievito madre in piena forma, pronto per essere usato; quello pungente, acido, di un lievito sofferente, collassato, che ha bisogno di un rapido rinfresco e l’odore invadente del pane che finalmente cuoce in forno, che riempie tutta la casa, ed è il profumo dell’orgoglio, della soddisfazione di aver creato da zero qualcosa di così atavicamente buono.

Ma perché percepiamo il gusto del pane come nettamente superiore a quello di altri prodotti che hanno gli stessi ingredienti, come i cracker ad esempio? È tutta una questione di aria e di olfatto retronasale e lo spiega perfettamente Michael Pollan nella puntata dedicata proprio all’aria7 della serie Cooked, tratta dal suo omonimo libro8. Tutte le bolle d’aria [del pane] contengono gas dice Pollan quindi c’è un aroma che sale attraverso il retro della bocca fino alle cavità nasali e lì viene assaporato. L’aria, e la fisiologia del nostro olfatto, rendono un semplice boccone di pane un’esperienza complessa, capace di imprimersi nella memoria come la madeleine di Proust.

Il pane mi piace che abbia un “naso” (un profumo) deciso, che la mollica accarezzi le papille gustative come una serie di onde che lambiscono la spiaggia lasciando un poi di schiuma ogni volta che si ritirano scrive Laura Lazzaroni ne La formula del pane9, confermando poeticamente come odorare il pane sia un passaggio obbligato per apprezzarne il gusto.

La particolarità dell’odore retronasale, che viene assimilato dal nostro cervello come sapore, è stata concretamente sfruttata nel 2016 da due ragazzi tedeschi, Tim e Lena, che per un progetto universitario10, in cui si richiedeva di unire design e neuroscienza, hanno creato il prototipo di una elegantissima e colorata borraccia. Una borraccia che eleva la semplice acqua con cui viene riempita attraverso dei pod aromatici, da posizionare nella parte superiore, vicino alla cannuccia. Bevendo si crea un’aspirazione per cui il pod rilascia il suo profumo e questa aria aromatizzata viene percepita dal nostro cervello come un sapore, ingannandolo e facendogli credere che stiamo bevendo un succo di frutta o un cocktail, quando si tratta invece di salutare acqua senza alcun additivo.

Mi viene in mente la scena di French Kiss11 in cui Kevin Kline fa annusare a Meg Ryan, in una stanza polverosa di un romantico casale nella campagna francese, alcune boccette contenenti bacche, erbe e terra, prima di farle degustare un bicchiere di vino rosso. Gli aromi appena odorati le consentono di ritrovare gli stessi sapori nel vino, come un’esperta sommelier. Da tutti questi esempi è chiaro come gli odori siano un collegamento con la realtà e con l’immaginazione, un ponte tra la nostra quotidianità e l’immenso mondo che ci circonda.

1 Laurel Evans, Liguria: The Cookbook. Recipes from the Italian Riviera, Rizzoli USA, 2021
2 idem, p. 63
3 Harold McGee, McGee on Food and Cooking: an Encyclopedia of Kitchen Science, History and Culture, Hodder & Stoughton, 2004. Traduzione italiana: Harold McGee, Il cibo e la cucina. Scienza, storia e cultura degli alimenti, traduzione di Federico Rapuano, Ricca Editore, 2016
4 Harold Mcgee, Nose Dive: A Field Guide to the World’s Smell, John Murray, 2020
5 Harold Mcgee, Nose Dive: A Field Guide to the World’s Smell, John Murray, 2020
6 Carlo Gibertini, Post-covid, la riscoperta dell’importanza dell’olfatto su La Cucina Italiana online, 2 marzo 2022
7 Cooked, stagione 1, episodio 3, Aria su Netflix
8 Michael Pollan, Cotto, traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi, 2020
9 Laura Lazzaroni, La formula del pane. Il metodo per imparare l’arte della panificazione domestica, Giunti, 2021
10 https://it.air-up.com/pages/air-up-infos
11 French Kiss di Lawrence Kasdan, 1995

Luce e piante

Foto di Barbara Bernardini

Forse la più antica manifestazione della magia sulla terra è la fotosintesi o così dovrebbe apparire, a dei mammiferi come noi, la capacità delle piante di ricavare il proprio nutrimento, e quello di tutte le altre forme di vita, a partire dall’anidride carbonica e dall’acqua col solo innesco della luce.
Ecco, ma io, oltre a rimanerne stupefatta e ammirata, non so dire altro, quindi chissà perché sia partita proprio da questo aspetto per parlare di luce e piante, quando in realtà sarebbe stato più preciso dire un’altra cosa: la più antica manifestazione della bellezza sulla terra riguarda le piante e la luce.
Chissà quante paia d’occhi (e anche qualche occhio singolo) siano rimaste incantate davanti a come la luce riflette sulle foglie e come le attraversa; come illumina e rende attraenti i fiori; come stimola e indirizza la crescita dei rami e dei fusti, verso l’alto, alla ricerca del sole, in forme spesso così intricate e affascinanti; come filtra attraverso le chiome, illuminando il sottobosco con pochi, netti raggi che tagliano l’ombra buia.
Noi animali non siamo altrettanto belli, al sole. Forse giusto quelli con le piume, loro un poco – perfino le galline acquisiscono un leggero fascino al sole, quando si accendono i riflessi nascosti del piumaggio e creste e bargigli diventano rosso fuoco –, gli insetti iridescenti, i pesci con le squame dai riflessi metallici; ma gli animali pelosi, umani compresi, un po’ ne soffrono.

Foto di Barbara Bernardini

Tranne al tramonto: i tramonti sono indulgenti con chiunque e con qualunque cosa, anche con un sasso, e rendono d’oro quel che rimane del giorno, e della nostra pelliccia di scimmie. A guardarle da vicino, queste pelurie sono così simili a quelle dei fusti e delle foglie dei pomodori, o delle melanzane: donano un contorno luminoso alle sagome, come fossimo vestiti dell’abito migliore a nostra disposizione.
Mi piace starmene nell’orto al tramonto e aspettare lì che faccia sera: guardando rasoterra, con i raggi del sole sempre più bassi e quasi paralleli al terreno, che passano attraverso le foglie dei piselli, illuminando i fasci vascolari, o attraverso i fiori, rendendo giustizia alla perfezione anche di quelli più minuti. È in quel momento che capisci che è vero quanto dice Michael Pollan: Non penso che sia possibile comprendere la forza gravitazionale della bellezza senza aver capito il fiore, perché è stato il fiore a introdurre nel mondo l’idea di bellezza1.
Aggiungerei: non penso sia possibile capire la forza gravitazionale della bellezza finché non si osserva attentamente un fiore controluce, al tramonto, o meglio: finché non si osserva il tramonto, attraverso un fiore.

Foto di Barbara Bernardini

Durante il giorno, soprattutto ora al principio dell’estate, la luce del sole è quell’impietosa presenza a picco sulle nostre teste e il tempo sempre più lungo in cui aspetto la sera è impegnato nel trovare riparo: l’ombra più accogliente, d’estate, è quella delle chiome degli alberi. Durante il giorno, la luce è roba da boschi il più fitti possibile.
Ma anche d’estate arriva il tramonto: è la tregua.
Man mano che il sole diventa meno crudele si concede anche alle pianticine più minute accendendo dei dettagli che altrimenti ci sfuggono; alle graminacee già secche nei prati, poco più che erbacce che all’improvviso diventano d’oro; agli ulivi, con le loro chiome che poca ombra possono fare, durante il giorno, soprattutto negli anni come questo in cui li potiamo in modo più invasivo, ma che a quest’ora sfoderano il lato argenteo delle foglie, piccole e strette, lucide come alici che si muovono in branco, cambiando direzione tutte insieme a ogni colpo di vento.
Poi pian piano il sole scompare del tutto sotto l’orizzonte, rimane la luce del crepuscolo, sempre più rosa e finalmente delicata da questo lato della terra: è l’atmosfera a darle colore, mentre la tiene sospesa ancora un po’, fra aria, vapore e pulviscolo. Le sagome degli alberi che finora avevano dato riparo diventeranno nere, i piccoli fiori bianchi dei fagiolini conserveranno un loro bagliore notturno, li vedo, ancora, fra le foglie scure. Le cicale e i colombi che tacciono dopo una lunga giornata di insistenza, e i merli che invece diventano improvvisamente ciarlieri – chissà poi se succede così solo a quelli che vivono qui o se è un’abitudine di tutti questi neri pennuti: ecco una cosa che vorrei sapere e che non so, mentre mi trovo sempre a conoscere opinioni di cui farei a meno, che piccola ingiustizia, questa, in un mucchio di grandi ingiustizie.
Infine, quando del sole resta solo il riflesso sulla luna e su Venere – eccolo lì, è già nel cielo poco più su nella direzione in cui è appena scomparso il sole, sempre a ovest –, diventano visibili anche le prime stelle: la loro luce che per millenni ha attraversato lo spazio vuoto, più buio e freddo pensabile – Una luce che da lontano entra negli occhi / Dove inizia prima che lei possa vederla / Arde attraverso le parole a cui nessuno ha creduto, c’è scritto in una poesia di W.S. Merwin2 – per poi arrivare qui flebile e soccombere vicino al lampeggiare di qualche insegna.
Di notte è ancora la luce a dare un senso di casa: so riconoscere poche costellazioni, ma quando appare l’orsa maggiore sento come di aver ritrovato la via dopo un lungo vagare senza direzione, questa sagoma materna, così semplice da individuare anche per me, che poi confondo tutto il resto.
È dall’orsa maggiore che parto per trovare poi la stella polare: la luce che vedo quando la guardo è nata da un suo respiro di quattrocentocinquanta anni prima. E non è un modo poetico di raccontarla: Polaris, gigante gialla, respira, pulsa, si espande e poi si contrae nuovamente, aumentando massa e luminosità ogni circa quattro giorni.
La luce degli astri è qualcosa per cui ho una sorta di rispetto religioso, la riverenza del trovarmi di fronte a forze fuori dalla nostra portata, indifferenti ai nostri errori, lontanissime e intoccabili, a cui possiamo avvicinarci solo con la speculazione matematica.
Su tutte, certo, è la luce del sole a stupirmi di più: il privilegio di essere capitata su un pianeta così vicino a una stella, non troppo da bruciare, ma abbastanza affinché prendessero vita le forme vegetali, dalle più minuscole a quelle più complesse, tutte in grado di ricavare dal sole nutrimento e meraviglia. L’alternativa era il nulla, vuoti e pieni di sola materia senza vita: a proteggerci da qualcosa che somiglia così tanto alla morte c’è un sottile guscio composto dall’elemento più impalpabile che esiste, l’atmosfera, un leggerissimo involucro di gas che separa questa palla di roccia dal nulla.

Foto di Barbara Bernardini

Non è solo stupore, è anche la fiducia, finora sempre ben riposta, che questa immutabile forza che parte dal sole, e in circa otto minuti e mezzo arriva ai miei occhi, continuerà a farlo almeno finché avrò un minimo di capacità visiva o di sensibilità per sentirla sulla pelle: quali altri eventi potrebbero mai darmi un conforto così assoluto, se non i tramonti, quei momenti in cui la luce del sole festeggia la sua presenza?
Cosa può andare storto quando in giro c’è così tanto splendore? Cosa può accadere di irrecuperabile finché so di poter aspettare la sera con questo rituale affidabile, prevedibile nel progredire delle stagioni? Arriveranno i tramonti d’autunno, i miei preferiti, quelle sere in cui nell’aria si muoverà l’odore di terra bagnata a dire di stare tranquilli, tutti, perché da qualche parte starà piovendo. E poi ancora un giro completo, attraverso inverno e primavera e di nuovo estate. In un clima con delle stagioni così impazzite, l’arco del sole e il mutare della sua luce durante l’anno rimane un punto fermo mentre tutto il resto vacilla.
Mi rassicura il tramonto perché è una festa della bellezza, questo scintillare del giorno proprio mentre ti sta dicendo addio, che inevitabilmente porta al culmine della meraviglia qualcosa solo quando stai per perderlo: un’atmosfera gioiosa ma già nostalgica, già consapevole del distacco. Io sono una che si strugge nei ricordi, capita, eh, è che nel tramonto succede per davvero quanto scrive Gianni Celati, quando dice che Le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per avere luogo nei nostri occhi3: le cose del mondo esistono in quel momento in una loro forma perfetta, aurea, sono lì fuori che navigano nella luce e, insieme, dentro di me, dando anche a queste mie retine e a questa mia testa un momento di perfezione in cui posso essere indulgente con tutte le mie mancanze, in cui posso ritrovare anche in me una bellezza sfolgorante, un mio stare fra le cose del mondo finalmente sensato. Prima di scomparire, lentamente, con il procedere del buio.

1 Michael Pollan, La botanica del desiderio, trad. di Giuditta Ghio, il Saggiatore, Milano 2005

2 W.S. Merwin, L’essenziale , trad. di Chandra Candiani, Ubiliber 2022

3 Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989

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