au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

Categoria: Racconto

Giura

Foto di Annie Spratt su Unsplash

Il falso è l’unica cosa che sono in grado di giurare, l’ho imparato da bambina.
E dire che mamma si è sbattuta un sacco per insegnarmi a non dire le bugie, si è sforzata proprio tanto per assicurarsi che imparassi a dire sempre solo e soltanto le cose come stanno. Si è sforzata tanto che spesso, dopo lo sforzo, le veniva l’emicrania, un’emicrania soffocante diceva lei, e spariva in camera da letto, al buio. Ogni volta mi diceva che non era colpa mia, ma dello sforzo di tenere lontane le bugie. «Giura», le rispondevo io, ma lei rimaneva in silenzio e non giurava. Mi accarezzava la faccia dalla fronte scendendo verso il naso mi si chiudevano gli occhi e lei si ritirava nel buio. 
Ci ho ripensato decine di volte e sono certa che non potesse essere altro che colpa mia.
Mi ricordo di quella volta che mamma si sforzò affinché io fossi in grado di dire solo e soltanto le cose come stavano, pur di non dire una bugia alla nonna. Era pomeriggio, faceva caldo ma non troppo e c’era quel vento tiepido che spira dal mare e fa strofinare le tapparelle di plastica dentro le guide metalliche che stanno sui tre lati delle finestre. Quella volta papà era uscito presto, poco dopo pranzo. 
«Esci presto?»
«Sì, ho da fare in studio».
«Torni a cena?»
«No, non vedi che ho il borsone?»
«Vedo che hai il borsone ma torni per la cena?»
«No! Ho il calcetto, non torno per cena». Parlò, ma con me. «Dove ha la testa tua madre?» Mi salutò pure e non sorrise, né a me né tantomeno a lei.
«Torna presto», ma tanto la porta dell’ascensore già stava cigolando.
Il rubinetto rimase aperto per tutto il tempo e, per tutto il tempo, mamma parlò e ascoltò tenendo le mani sotto il getto fitto dell’acqua bollente. Restò a guardarsi la macchia rosata che si allargava sulla pelle bagnata, ma non fece niente. E allora mi avvicinai io al lavandino, chiusi in fretta il rubinetto e le coprii le mani con uno strofinaccio da cucina, morbido.
«Faccio io, lascia lascia». E mi accarezzò la faccia con tutto il palmo aperto, bagnato, facendolo scorrere dalla fronte scendendo verso il naso. «Ma dove ho la testa?» E si mise a sedere, con le mani nascoste dalla spugna umida, sulla sedia pieghevole che stava sotto la finestra. La cucina rimase com’era, in disordine – succedeva spesso, perciò predissi che, al suo ritorno, papà avrebbe messo gli occhi nella stanza, avrebbe sbuffato ripetutamente, sarebbe andato dritto verso la credenza in sala da pranzo, avrebbe spalancato le ante e avrebbe controllato la boccetta girandosi verso il lampadario e inclinandola in aria. 
Presi i miei quaderni e, nella cucina in disordine, mi sistemai sul lato corto del tavolo, vicino ai coperchi di acciaio lasciati a sgocciolare, di fronte a mamma, che si guardava le mani, nascoste. Un pezzo di pomeriggio trascorse, non so dire quanto, ma solo che avevo finito i compiti e che avevo tra le mani il telecomando e che la tv strillava la sigla di Lady Oscar, quando il telefono, dal corridoio, si sovrappose alla televisione.
Contai quattro squilli, continuando a guardare mamma che restava in silenzio e si guardava le mani. Solo quando saltai giù dalla sedia e corsi in corridoio, mamma si mosse.
«Di’ che non posso venire al telefono, chiunque sia. Ho le mani nella terra», disse forte. Dal corridoio attraverso la porta riuscii a vederla: stava in piedi davanti al tavolo della cucina, con le mani infilate e ferme nella terra che riempiva il vaso di gerani che tenevamo sulla finestra -lo aveva appoggiato vicino ai coperchi, proprio sopra i miei quaderni.
Mi schiacciai la cornetta contro l’orecchio e non feci altro che dire solo e soltanto come stavano le cose, che non poteva venire al telefono, che aveva le mani nella terra. «Sì, nonna, le dico di chiamarti quando ha finito», aggiunsi fissando la rotella del telefono e riappoggiai la cornetta sull’apparecchio. Quando dal corridoio cercai di nuovo con lo sguardo mamma, di nuovo lei non si fece trovare. 
Tornata in cucina la vidi che si era già riseduta e si guardava di nuovo le mani, girava con due dita la fede intorno al suo anulare sinistro, sempre più magro. Le mani erano sporche di terra, la stessa dalla quale aveva sfilato le dita e che aveva seminato sul tavolo e sul cuscino di una sedia e sul pavimento e che, ora, le stava sporcando pure la gonna. Raccolsi lo strofinaccio che stava sul pavimento davanti ai suoi piedi e lo bagnai sotto l’acqua tiepida, tornai da mamma e feci per pulirle le mani. «Lascia lascia, faccio io», mi disse senza guardarmi e si strofinò le mani sulla gonna. Si alzò, facendo leva con le mani sui braccioli della sdraio, che rimasero umidi e sporchi. «Te ne vai?», chiesi alla sua schiena. 
«Sì, è l’emicrania».

«Hai mangiato?» Mi svegliò la mano di papà che mi scuoteva la spalla.
Spensi il televisore. 
«Che è successo qua dentro?»
Chiusi i quaderni, che stavano ancora sul tavolo con i coperchi e la pianta e la terra, e li misi nello zaino.
«E pulisciti la faccia». 
Mi strofinai una guancia con lo strofinaccio, quello morbido, per togliere la saliva che mi era colata dalla bocca.
«Tua madre è a letto, vestita, e qua c’è il solito casino. Anzi no, di più».
Mi misi a raccogliere i coperchi e la terra mentre lui camminava verso la  credenza.
«Non fare rumore, vieni qua».
Lo raggiunsi, coi coperchi in mano e la bocca stretta.
«Ha preso le gocce?»
La bocca mi si aprì un poco, muta.
«Ti ho chiesto solo questo, a papà. Di guardarla quando non ci sono. Allora?»
«L’ho guardata».
«E le gocce le ha prese?» – inclinò la boccetta per aria, tenendola per il tappo tra il pollice e l’indice, la scosse una volta e poi di nuovo.
Io mi misi a pensare al liquido opaco che faceva le onde dentro la boccetta scura. Per un pelo non mi scappò da ridere e mi vergognai. Guardai il pensile aperto alle spalle di papà, mi misi a contare le scatolette di tonno. Il mio stomaco borbottò. « Me ne apri una?» e indicai il mobile aperto alle sue spalle..
Papà si girò, ma dalla parte opposta, verso il lampadario e insisté a guardare il vetro bruno contro la luce bianca.  «Tu l’hai vista?» E sbuffò.
Feci per rispondergli, il fiato prese la rincorsa e le spalle mi si alzarono. Muta.
«Devi starci attenta, capito? Io posso contare solo su di te».
Le mie spalle caddero e pure un coperchio, secco.
«Allora, le ha prese, vero?»
«Mh» e guardai il coperchio.
«Giura!»
Io non risposi, lui mi credette.

Giugno mi piaceva per le giornate lunghe e per le fughe al porto, a fare i tuffi a bomba e le gare a chi resta sott’acqua più a lungo. Delle femmine, io ero quella coi polmoni più grandi e ne andavo fiera perché avevo pure l’asma e con l’asma non è da tutti stare sotto così tanto, mi diceva papà quando mi cronometrava nella vasca da bagno.
Quel giorno di giugno, quando tornai a casa dal porto, prima ancora che facessi la doccia, papà mi portò in sala da pranzo. «Facciamo un discorso». Aprì la credenza, prese la bottiglietta opaca e me la mise tra le mani. «Vedi se riesci ad aprirla». 
Io provai a ruotare il tappo nero ma mi sembrò incollato. Feci per restituirgli la bottiglietta, mentre le mie spalle si alzavano. 
«Devi spingere sul tappo e ruotare, contemporaneamente». 
Le spalle caddero e io obbedii. La boccetta si aprì subito, al primo colpo. Mi sentii fiera, come una femmina con l’asma che sta sott’acqua più dei maschi.
«Sapevo che ne eri capace». Papà sorrise. «D’ora in poi, visto che non vai a scuola, conto su di te per le gocce di mamma». 
«Che?», la bocca mi si allargò e riuscii solo a pensare che non sarei più potuta scappare al porto tutte le volte che volevo.
«Ne devi contare venti, mi raccomando, giuste giuste. Gliele metti in un bicchiere d’acqua, mi raccomando, poca. E guardi, mi raccomando, bene, che lei le prenda tutte».
«Mh». La bocca mi si strinse ma papà non la vide. Era già con tutti e due i piedi fuori dalla stanza. 

Quella mattina mamma proprio non veniva avanti, come avrebbe detto zia Bice, che viveva da tanto tempo al nord. Era lunedì, papà era andato a lavorare e come al solito mi aveva svegliata presto perché mi lavassi e vestissi e, guardassi mamma.
Mancava poco alle undici e morivo dalla voglia di andare al porto a fare i tuffi a bomba, speravo che mamma si alzasse, che fosse di buon umore almeno un po’, abbastanza da venire con me sugli scogli a contare i secondi che sapevo stare sott’acqua. Andai in camera da letto e alzai appena un po’ le tapparelle, che entrasse qualche striscia di luce. La trovai sveglia.
«Andiamo al porto?»
«Dove sono le gocce, a mamma?»
Le dissi che erano in cucina, dove mi aveva detto di tenerle papà, che avrei preparato la colazione e poi gliele avrei date, come aveva detto papà. Mi rispose di dargliele prima della colazione, che non riusciva ad alzarsi altrimenti. Uscii dalla camera e tornai poco dopo, con un bicchiere d’acqua, poca, e le gocce.
Mamma si mise a sedere, ma ancora tutta dentro il letto. Prese il bicchiere con una mano mentre io svitavo il tappo nero della boccetta, premendo forte e ruotando. 
«Ti sei fatta grande proprio». Sorrise, ma io non feci in tempo a vederla.
«Dieci. Undici. Dodi…»
«Faccio io, lascia. Lascia». Mi prese la mano in un modo che pareva una carezza – e non me la ricordavo – e mi tolse la boccetta. «Tu fammi un regalo, prepara il caffè».
«Con la cremina?»
«Sì, con la cremina».
Uscii dalla stanza. Tornai dopo poco, l’odore del caffè quasi non si sentiva più. «Ma’,  si raffredda. Vieni?» 
Si era distesa di nuovo e teneva gli occhi chiusi. 
Le scossi un braccio.
«Cinque minuti, a mamma». Aprì gli occhi e li richiuse subito, con un sospiro. 
Io tornai in cucina, non versai il caffè ma assaggiai la cremina. La assaggiai così tante volte che la finii tutta. Toccai la caffettiera, che si era raffreddata bene. Versai tutto il caffè giù nel buco del lavandino. Quando cominciò il telegiornale del Due, decisi di andare di nuovo a chiamare mamma.

Girai la rotella del telefono tutte le volte che serviva a comporre il numero dello studio di papà, tenendo la cornetta schiacciata contro la faccia.
«Mamma non si è alzata».
«Dorme?»
«Ha gli occhi chiusi».
«Vai a chiamarla». 
«Mamma!», gridai. E la spinsi tutta, forte più che potei. Tornai in corridoio, ripresi la cornetta: «Non si sveglia. Vieni, non si sveglia».
«Le hai dato le gocce?» 
«Sì».
«Venti, giuste giuste?»
«Vieni, papà». La faccia mi si bagnò tutta, a cominciare dagli occhi.
«Venti, giura!», insisté papà. Presi a calci il portaombrelli, forte. 
«Mh». Di nuovo presi a calci il portaombrelli, più forte, tanto nessuno mi vedeva… «Vieni papà. Sbrigati!». Gridai.

Mi succede spesso di sognarla mia madre addormentata in quella scatola di legno così tanto più grande di lei, in cui l’ho guardata per l’ultima volta. Sogno che apre gli occhi e pure lei mi guarda. Sorride, abbastanza a lungo da lasciarsi vedere, allunga un braccio verso il mio viso e mi accarezza la faccia col palmo aperto, dalla fronte fin giù sopra la bocca. «Non è colpa tua», dice mentre lo fa. «Giura?», le chiedo io ad occhi chiusi e quando li apro lei non si fa trovare.

LE DEMOISELLES DI PORTO D’ASOLA

Foto di Annie Spratt su Unsplash

La casetta era stata costruita dal nonno di mio nonno, esattamente nel 1900, su un pezzetto di terra sabbiosa comprato per due soldi. Avrebbe voluto farci un orto, ma capì ben presto che il vento denso di salsedine non avrebbe permesso alle verdure di venir su bene.
All’epoca, però, cominciavano ad andare di moda i bagni di mare, e girava la voce di quanto bene facesse alla pelle l’acqua salina, e quanto giovasse ai polmoni quello stesso vento che uccide i pomodori: molto meglio, allora, utilizzare quel fazzoletto di terra come punto d’appoggio per la spiaggia, e fare come i veri signori, che nei giorni di festa scendevano da Asola, il vecchio paese in collina, fino alla costa ancora disabitata. Così chiamò un muratore, e insieme tirarono su quattro muri; fece il caminetto, come usava nei casotti che si costruivano in mezzo alle campagne, e mise una porta di legno verso la ferrovia che correva parallela alla spiaggia; volle anche una grande finestra nella parete opposta, verso il mare: una meravigliosa apertura sulla spiaggia scogliosa, sulle onde, sul cielo e nient’altro.
Nella sua casa di Roma, in un cofanetto intarsiato, Zia Mira, la sorella di mia madre, custodiva foto in bianco e nero di signori baffuti e signore con elaborati vestiti da spiaggia, in posa proprio sugli stessi scogli tra i quali, decenni dopo, io mi sarei sdraiata scomodamente per abbronzarmi.
Adesso quelle foto le custodisco io.
Riconosco, tra quelle signore sorridenti sotto gli ombrellini, zia Teresina, la sorella di mio nonno, spigolosa e con il cipiglio attento e ironico già a sedici o diciassette anni. Non c’è da meravigliarsi che non si sia sposata, e non fu certamente – come amava dire malignamente mia nonna, la cognata bellissima – per via del nasone e dei capelli crespi.
Mio nonno non compare mai in quelle foto: era ragazzetto, a quel tempo, e sarà stato a correre dietro a qualche gonnella; cosa che non avrebbe mai smesso di fare, neppure da sposato, neppure da vecchio.
I miei primi ricordi della casetta sul mare risalgono alla metà degli anni Cinquanta, quando l’aggiunta di un serbatoio per l’acqua piovana e di un piccolo gabinetto (migliorie pretese da zia Teresina e da nonna, che per una volta avevano deciso insieme senza prendersi a capelli), l’avevano resa accogliente, al punto che si poteva passar sopra alla mancanza di elettricità; tanto d’estate la luce naturale dura fino all’ora di cena.
A me, che ero bimba, sembrava la casetta di Hansel e Gretel, ma senza la strega cattiva e con in più il mare.
Sul camino, che mai nessuno accendeva, nonna aveva appeso due maschere colorate: le aveva portate come souvenir dall’Africa un amico di famiglia che era stato ingegnere laggiù, e nessuno le aveva volute tenere in casa. Quegli orrori! Dicevano mamma e zia Mira, col loro gusto da statuette di Capodimonte e stampe del Piranesi. Così erano finite alla casetta.
Nel mezzo secolo intanto trascorso, grazie anche alla costruzione della litoranea carrozzabile, la parte costiera della regione si era popolata, e ciascuno dei paesi medievali arroccati sui monti aveva generato il proprio omologo balneare; anche Asola, l’antico paese in collina, si era replicato in Porto d’Asola, dapprima frazione con quattro case di pescatori, e infine moderna località di villeggiatura, con la piazza della stazione, le pensioncine, le gelaterie, il mercato del sabato; tutto alla distanza di una passeggiata dalla nostra casetta.
C’era ancora, su ad Asola, la casa di famiglia, quella in cui erano nati nonno e zia Teresina, e prima ancora il loro padre, e il padre del loro padre: era un palazzetto tutto scale in un vicolo del centro, e ci era rimasta ad abitare zia Teresina, che da giovane lavorava come infermiera in paese e non aveva mai voluto trasferirsi a Roma. Tutti noi arrivavamo a giugno, per goderci la magica casetta sulla spiaggia.
Zia Mira si piazzava con i figli nella casa del paese in alto, e si faceva servire e riverire da zia Teresina, che non aspettava altro che viziare la nipote preferita e i suoi due figli maschi. Scendevano a Porto d’Asola di prima mattina, con la corriera o approfittando del passaggio di qualche paesano.
Noi, più discreti, affittavamo una stanza a Porto d’Asola. Ci stavamo io e mamma tutta la settimana, e il sabato sera ci raggiungeva papà, con il treno.
Nonno e nonna, con spirito da campeggiatori, dormivano alla casetta. L’acqua c’è, dicevano, il gabinetto c’è, e per vederci quando apriamo le brande accendiamo una candela.
Quindici anni di vacanze sempre uguali: giornate intere dentro l’acqua; le chiacchiere, sempre le stesse; le solite litigate furibonde tra mamma e zia Mira, le sorelle, o tra nonna e zia Teresina, le cognate. Nonno sempre in giro: saliva ad Asola per tentare la riconquista di qualche vecchia fiamma del paese, oppure si allontanava lungo la spiaggia, finché, verso la zona dei bagni attrezzati, incontrava qualche villeggiante sola a cui offrire un aperitivo.

Poi arrivò l’estate dei miei quindici anni – dunque era il Sessantasette –, l’estate senza uomini.
Papà aveva appena avuto una promozione, e le accresciute responsabilità non gli permettevano di raggiungerci neppure il sabato.
Nonno aveva raccontato che la macchina aveva un guasto, e il meccanico aveva difficoltà a reperire i ricambi. Vi raggiungerò appena ho risolto, aveva detto. E aveva spedito nonna insieme a noi, col treno. Probabilmente a Roma aveva in corso una delle sue storielle, ma il sospetto non intaccava minimamente la solita allegria di nonna.
Zia Mira, lei, non era mai andata d’accordo con il marito, sposato quando era appena una ragazzina, e d’estate era sempre venuta da sola con i due figli. Quell’anno, però, i miei cugini erano diventati grandi, avevano le fidanzatine a Roma (il tira-tira, diceva nonna), e avevano preferito restare con il padre.
Cinque donne sole – quattro donne e una ragazzina, in verità – tutto il giorno a ridere e litigare, a parlare e sparlare, a prendere il sole, a fumare (loro), a bere caffè (anche io, un poco).
Era un’estate caldissima, i prendisole di cotone si incollavano alla pelle; una volta fuori dall’acqua era fastidioso persino il costume, il mio primo bikini, che se ci fosse stato papà non avrei potuto indossare: rosso ciliegia sulla mia abbronzatura da marocchina. Così prendemmo l’abitudine, nelle ore del gran caldo, di chiuderci nella casetta, tutte e cinque, di toglierci tutti i vestiti, anche i costumi, e avvolgerci con vecchi lenzuoli bagnati. Perfino zia Teresina, che era vecchia, lo faceva, ma lei si spogliava solo dopo essersi avvolta nel lenzuolo.
Io, che avevo i capelli ricci e lunghissimi, per rinfrescarmi ancora di più li inzuppavo a forza di secchiate d’acqua. Mamma e zia Mira facevano a gara per spazzolarmeli; e quando la spazzola incontrava un nodo i capelli tiravano, e io gridavo: basta! Invece mamma e zia Mira pareva lo facessero a posta a smuovermi i riccioli: i capelli schizzavano acqua da tutte le parti, sulle loro braccia, sulle facce, sul collo, e loro facevano versetti di piacere. Per ore restavamo semisdraiate sulle brande, a spiluccare acini d’uva e fettine di melone. Loro, le adulte, fumavano una sigaretta dietro l’altra, e a turno facevamo il caffè sul fornelletto a spirito.
Uno dei primi e più caldi giorni di agosto, forse stordita dal caldo, forse eccitata dai troppi caffè, nonna se ne uscì con una specie di confessione: «Lo sapete?» disse indicando mamma «Quando mi sono sposata ero già incinta di lei».
«Il segreto di Pulcinella!» saltò su zia Teresina «Lo sappiamo tutte che eri incinta!»
«Ma la bimba non lo sapeva» e mi guardò.
Lo sapevo, invece, ma per non farla rimanere male feci la faccia stupita.
«Bell’esempio per la bimba!» zia Teresina staccò una delle maschere africane e la porse a nonna.
«Copriti la faccia, va! Vergognati! Hai fatto la puttana, con quelle mossette tutte gne-gne, e hai incastrato quel mio povero fratello!».
Mamma e zia Mira si tenevano la pancia dalle risate. «Madonna! Sono passati quarant’anni e ancora pensi alle mossette gne-gne!».
«È solo invidia, perché lei non l’ha voluta nessuno, con quel nasone…» reagì nonna. La voce si incrinò alla parola nasone, e gli occhi le diventarono lucidi. Però finse di stare allo scherzo, strappò la maschera di mano alla cognata e si coprì davvero.
«Invidia io? Sappi, bella mia, che il dottore dell’ambulatorio era innamorato cotto di me! Avrebbe pure lasciato la moglie! Sono stata io a convincerlo a non fare uno scandalo, e così ci siamo amati in segreto. Lui mi diceva sempre che non c’era una donna meglio di me, e sì che ne aveva avute! Che come con me… Ma fammi stare zitta, va, che mi fate dire cose che non sta bene dire…». Staccò l’altra maschera e si coprì il volto pure lei.
Zia Mira si bloccò con la tazzina di caffè a mezz’aria. «Questo, di segreto, sì che è rimasto ben custodito!».
In effetti eravamo tutte meravigliate. Dunque zia Teresina era stata qualcosa di diverso, qualcosa di più della granitica zitella che conoscevamo, tutta dedita alla professione di infermiera e alla cura dei nipoti.
Zia Mira prese un sorso di caffè e proseguì: «Merita una confidenza di pari valore. Chi se la sente?». Noi tutte zitte. «Allora parlo io; passatemi la maschera».
E nascosta dalla maschera disse: «Vi confesso che ho peccato. Giordano, il mio piccolo, non è figlio di mio marito».
«Basta!» irruppe mamma. «Hai veramente esagerato. Questi discorsi davanti alla bimba!».
Zia Mira abbassò la maschera, ci guardò negli occhi per assicurarsi l’attenzione di ognuna di noi e continuò: «La sentite, la sorella maggiore?
Quella perbene, quella che ha fatto il buon matrimonio? Sta sempre a giudicare me, l’ipocrita!»
Mamma scattò su come una molla. «Ipocrita? Io?»
«Ipocrita, sì. O non ti ricordi che la settimana prima di sposarti con Fulvio uscivi di nascosto con quell’altro? E io dovevo reggerti il gioco?»
Poi, rivolta nuovamente a tutte noi: «Ma forse crede che quelle non fossero corna. Non era sposata, e dunque, secondo lei, non erano corna».
Mamma era diventata terrea sotto l’abbronzatura.
«Basta ragazze, basta. Si sta esagerando davvero» dissero nonna e zia Teresina all’unisono.
«Va bene, sono le quattro, è ora di tornare al mare» concluse zia Mira.
Mamma mi annodò il reggiseno del bikini sul collo mentre io mi tenevo su i capelli. «Sono uscita solo una volta con un corteggiatore. Per chiarirgli che non doveva più starmi dietro, che avevo scelto tuo padre…» mi disse piano.
Intanto zia Teresina stava riappendendo le maschere.
Peccato, se fosse arrivato il mio turno avrei potuto anch’io confessare quello che avevo fatto con quel ragazzo carino del paese, nascosti in mezzo agli scogli, o al largo in barca, in quei giorni di gran caldo.

Dovetti confessarlo a zia Mira, alla fine di settembre, poco prima che ricominciasse la scuola, per chiederle aiuto. Mi portò da una signora, che risolse tutto, e per un paio di giorni mi ospitò a casa sua con una scusa, perché mamma non si accorgesse del mio malessere.
Però qualcosa probabilmente le disse, perché dall’estate dopo le vacanze a Porto d’Asola si interruppero.
Non accadde mai più, non ci ritrovammo mai più tutte insieme: cinque donne di tre generazioni, con i propri segreti, in una casetta isolata, in un tempo senza tempo.
Non accadrà mai più.
Di quelle cinque donne sono rimasta solo io, e con me la linea si interrompe, perché non ho mai avuto figli; dopo quell’estate ho sempre fatto in modo di non averne.
Ho comprato dai miei cugini le quote della casetta, e ho chiesto che nel prezzo pattuito fossero comprese anche tutte le foto d’epoca di quel posto; le copie originali, piccoline e sgualcite da tante mani.
Ci ho fatto portare l’elettricità e l’acqua corrente, e l’ho arredata in stile marinaro; ho recintato il piccolo pezzo di terra intorno e ho piantato oleandri e bouganville. Ogni tanto qualche turista tedesco o olandese mi chiede se voglio venderla.
Non se ne parla.
Le maschere africane hanno un posto d’onore nella mia casa di Roma. Un antiquario di Parigi mi ha detto che in Francia l’arte africana va molto, e che quelle maschere hanno un certo valore. Inutile spiegargli quanto valore abbiano per me.
Sogno di andare a vivere alla casetta, quando andrò in pensione. Invecchierò e morirò lì, sulla riva del mare, sentendo le chiacchiere di cinque donne.
Certo riporterò le maschere africane, per appenderle di nuovo al loro posto: sul camino.

Più nero di un cielo senza stelle

Foto di Davide Sibilio su Unsplash

Gelato e passeggiata sul lungomare. La proposta arriva, come sempre, mentre Leo si alza da tavola per raccogliere tovaglioli accartocciati e piatti vuoti. Enrico scatta in piedi e corre nella sua stanza. Va verso la valigia aperta, si china e agguanta la maglietta di Batman un po’ spiegazzata. Nonostante lo zio gli abbia messo a disposizione un armadio intero, non si è mai deciso a sistemare le sue cose per bene. Del resto, ormai è troppo tardi. È l’ultimo giorno di vacanza, trascorso nella casa al mare dei nonni. Anche se loro non ci sono più, lo zio Leo ci torna ogni anno per staccare la spina dal lavoro di insegnante e per assaporare il gusto sapido dei pomodori di giù.
L’idea di dover tornare a casa, lo fa indugiare di fronte allo specchio della vecchia camera per gli ospiti. Si chiede se al ritorno da scuola, a settembre, cercherà ancora lo sguardo verde oliva di Tilde. Se ogni mattina, dopo essersi stropicciato gli occhi, farà ancora il suo nome con la voce impastata. E ancora: se il tepore del suo pelo biondo lo sfiorerà durante il sonno, piombandolo nella disperazione al risveglio. 
«Enrico, ci sei? Dai che si fa tardi e domani si parte».
La voce dello zio gli arriva come una scossa. Passa il palmo sulla t-shirt e si riavvia il ciuffo con le dita. «Eccomi!»
Uscire dalla stanza gli costa un grande sforzo. Le sneakers restano attaccate al parquet come per effetto di una magia potente.
Non solo dovrà tornare in una casa senza più lettiera puzzolente, croccantini che si frantumano sotto i piedi e peli sul cuscino. Questa sarà anche l’ultima sera in cui la vedrà. Ammesso che ci sia, è chiaro. La speranza di poterle finalmente parlare si sta affievolendo. È come fosse già con un piede su al Nord. Solo, senza Tilde, con gli amici ancora in vacanza e l’immagine di lei sempre più distante. Come un vecchio cartone animato visto su Youtube. 
La voce dello zio gli arriva come una scoppola sul collo.
«Dai, muoviti. Non vorrai mangiarlo a mezzanotte, il gelato!»
«Arrivooo!!!»
Enrico stringe i pugni, si dà una mossa e raggiunge Leo nell’entrata. In casa persiste l’odore dolceamaro delle melanzane fritte.
Escono nella notte calda. Una brezza lieve arriva dal mare. Il cielo sgombro dalle nubi è pieno di stelle. «Sono nei della notte», gli aveva detto la madre quando era più piccolo.
«Non sei contento che ci siamo quasi?» 
Leo gli sorride tenendo una sigaretta spenta in bocca. Sta cercando di smettere.
Enrico si stringe nelle spalle e alza gli occhi al cielo, incantato. Da qualche parte dell’universo, forse, esiste un mondo parallelo. In quel mondo Tilde è ancora viva e la ragazzina misteriosa gli offre un po’ del suo gelato.
«Ehi, ti sei imbambolato?»
Leo ride e lo scuote per schernirlo. La testa calva riluce nella sera stellata.
«Scusa, zio. Tutto ok. Sì, sono contento». Il tono di voce lo tradisce.
«Sei sicuro, Enrico? Non sembra proprio, guardandoti»
«Hai ragione. È che la mamma è diventata insopportabile, ultimamente». 
«Lo sarebbe chiunque nelle sue condizioni, dovresti avere pazienza».
Enrico sospira e ripensa all’eccitazione che ha riempito casa sua negli ultimi mesi. Alla madre che si gonfiava come una mongolfiera, che rideva e piangeva nel giro di un minuto.
In realtà anche lui non vede l’ora, ma prova una punta di rancore per la sua famiglia. Nessuno lo ha capito, o consolato davvero, dopo la morte improvvisa di Tilde.
Al mattino, la madre non faceva che correre in bagno per la nausea. O usciva presto con il padre per andare dal medico. Quando doveva andare a scuola, Enrico non aveva il tempo per pensarci. Beveva in fretta il latte di avena e, con un gesto rapido, spalmava le fette con la marmellata di arance. Tornando a casa, però, fissava il tappetino vuoto senza le ciotole sopra. Ripensava a tutte le volte in cui Tilde rompeva con i denti i croccantini, a quel rumore ritmico e rassicurante. Ricordava come lo accogliesse ogni volta che lui varcava la porta di casa. Il corpo che le si allungava. Le fusa che riempivano il silenzio. Lui la seguiva nella stanza dei genitori e la guardava arrampicarsi sulla pancia della madre, per poi impastarla come un pizzaiolo.  
Non si rassegna al fatto che un giorno Tilde abbia smesso di muoversi. Che in clinica, mentre il padre era impegnato a messaggiare, sia stato lui a guardare il suo corpo afflosciarsi per sempre. Certo, la madre non poteva sottoporsi a un’emozione così forte. Enrico lo sa, eppure la morte di Tilde è una cosa ancora troppo grande per lui.
Intanto, sul lungomare, il chiacchiericcio dei turisti s’infittisce. Si mescola alle risate e al rumore delle onde. Ci sono persone di tutte le età. Stanno sedute sui muretti che dividono la spiaggia dalle strade del paese. Stringono bicchieri di plastica vuoti, reggono coni semi-sciolti o passeggiano tranquilli. L’odore del doposole si mescola a quello salmastro del mare.
Giunti di fronte alla solita gelateria illuminata, mentre Leo si sporge sulle vaschette, Enrico la vede. Sotto un lampione accanto al muretto: frangetta chiara, spalle piccole e occhi tondi. Ha in mano un gelato intatto. La crema bianca è fluorescente sotto la luce del lampione. 
La ragazzina lo fissa. Sembra sorrida, in modo quasi serio. Malinconico.
Enrico vorrebbe l’attenzione dello zio, gli sfiora un braccio e alla fine rinuncia. Lo ha già fatto altre volte. Non appena Leo alzava lo sguardo, lei scompariva nel nulla. Come non fosse mai apparsa. 
Mentre lo zio riflette a voce alta sui gusti da scegliere, Enrico sostiene lo sguardo della ragazzina, finché lei non si volta e prosegue verso la spiaggia.
Ora o mai più.
Approfitta dell’indecisione di Leo per sgattaiolare e seguirla.
Scavalca il muretto e la segue. La sabbia è umida e compatta sotto le suole. Il mare è un’ampia distesa oscura e sciabordante. Più nero di un cielo senza stelle. 
La ragazzina si ferma sul bagnasciuga. Enrico si blocca qualche passo indietro.
Lei si volta. Il gelato è scomparso. Lo avrà gettato? Gli occhi le rilucono sinistri nella notte. C’è qualcosa di strano, in loro, e al tempo stesso di familiare.
La ragazzina si siede sulla sabbia e con un gesto lo invita a fare altrettanto. Enrico si lascia scivolare accanto a lei. Guarda il cielo stellato che all’orizzonte tocca il mare nerissimo.
Vorrebbe parlare, ma ha un nodo in gola, come se il pelo di Tilde gli fosse rimasto in bocca. Prova un grande senso di nostalgia. E anche di felicità. Lì, accanto alla ragazzina silenziosa, si sente minuscolo eppure in pace.
A un tratto, una virgola di luce attraversa il cielo. Senza pensarci due volte, Enrico esprime un desiderio confuso. In realtà sono due, i desideri. Uno più assurdo dell’altro. Scuote la testa, afferra una manciata di sabbia e la scaglia contro il mare. A settembre farà la seconda media ed è alto quasi un metro e cinquantacinque. Non dovrebbe più credere alle favole.
«Non devi essere arrabbiato».
Le labbra di Enrico si spalancano per lo stupore. Si volta a guardarla. È la prima volta che ascolta la sua voce. Gli pare di riconoscerne il timbro, sebbene non ricordi dove l’abbia già sentito.
«Ciò a cui teniamo trova sempre il modo di ritornare».
Incredulo, Enrico chiude gli occhi per trattenere quella scena che gli sembra un sogno. Quando li riapre, la spiaggia è scomparsa. Le voci urlanti dei bambini hanno scalzato via il rumore dolce del mare. La luce della gelateria gli arriva come uno schiaffo sul viso. Leo gli sta porgendo un cono. Lunghe gocce di cioccolato strabordano e scivolano sulla cialda. 
«Dai, che si scioglie!»
Enrico afferra il cono e non sa che farsene. Ne assaggia un po’ e lascia che il resto gli imbratti le dita.
Non stanno fuori a lungo. La mattina dopo andranno all’aeroporto per tornare a casa. Manca poco, ormai. Sua madre dovrebbe partorire a breve.

***

Si sveglia di soprassalto, sudato e con il cuore in gola. Ha sognato gli occhi di Tilde che si chiudevano per sempre. 
C’è silenzio in casa. Enrico si alza e va con cautela nella stanza in cui dorme la sorella. Cammina sulle punte, a piedi nudi. La notte è tiepida. 
Si sporge oltre il bordo della culla. La sorella è stesa su un fianco. I pugnetti chiusi e la boccuccia umida. 
D’un tratto lei spalanca gli occhi o lo fissa. Enrico trasalisce. Nello sguardo della neonata c’è un riflesso strano, sinistro. Un luccichio che non gli sembra umano. Gli si rizzano i peli sulle braccia. Il sudore gli gela la schiena.  Ricorda gli occhi di Tilde sveglia ogni notte alla solita ora. Gli stessi occhi della ragazzina sul lungomare. 
Gli torna in mente la stella cadente e sorride al pensiero dei desideri che ha espresso.
Non appena la sorella abbassa le palpebre e si riaddormenta, senza un lamento né un mugolio, Enrico lascia la stanza e torna in camera sua. Stanotte non avrà gli incubi. 

Ciò a cui teniamo trova sempre il modo di ritornare.

Chipil, una cura.

Photo by montatip lilitsanong on Unsplash

Il piccolo non lo diceva. Eppure lei sentiva quella giovane creatura temere il rivale: un rivale che cresceva attimo dopo attimo tra le sue interiora e che si sarebbe manifestato in tutta la sua potenza da lì a meno di un mese.
Non era difficile percepirlo quel timore, e non perché della creatura lei fosse la madre e condividessero quindi tra di loro un legame inimitabile. No, non era difficile percepirlo per nessuna delle persone che condividevano – appieno o anche solo in parte – l’intimità domestica.
Il piccolo si alzava la mattina dal letto, lasciava cadere il pigiama per terra, levava il panno da qualche mese sempre pulito, lo guardava infastidito da quel candore: avrebbe preferito, se avesse potuto, continuare a obbligare la madre a pulirlo per bene appena sveglio. Procedeva quindi verso la stanza da bagno, lasciava giù la tavoletta, si metteva in punta dei piedi e urinava senza mirare, un po’ nel buco, un po’ proprio sulla tavoletta, una buona metà per terra. Poi rideva e la chiamava e lei accorreva responsabile, con il sorriso del buongiorno, e mentre lui ancora rideva, lei prendeva qualche segmento di carta igienica, puliva la tavoletta, puliva per terra. Detergenti non servivano: la pipì era santa.
Anche il rituale cui si era sottoposta in prima persona, tanti anni prima, era stato santo.
Del rito non c’era traccia nei libri, lei lo cercava soprattutto per riuscire a ricordare bene, apprenderne le istruzioni dettagliate da interpretare con la maturità degli adulti, e soprattutto per esorcizzare le umiliazioni che ne erano derivate.

In fondo, cercava per dimenticare.

Alcuni forum in rete riportavano informazioni su cosa fare quando un niño está chipil, ma trovava soprattutto cose innocue come lavare il bambino geloso in una vasca piena di tè di lattuga, oppure troppo morbose come morderlo dalla nuca fino ai piedi per estrarne il misterioso veleno.
La santeria che avevano combinato a lei era quindi, di sicuro, invenzione della señora Chepa.
«Saluda tu madrina», ancora dopo anni veniva presa in giro da sua sorella, quando capitava di incrociare la vecchia per la strada, fino a quando era rimasta in vita.
Eppure al suo fratellino lei aveva solo dato un paio di schiaffi, e piano; l’aveva tirato fuori dalla culla, scosso, svegliato e l’aveva fatto piangere per poi cercare di farlo smettere con le sberle.

Ma piano: molto piano. Di questo ne era ancora certa e lo avrebbe giurato.

Non era in fondo successo niente di male, cose tra fratelli; sua madre era arrivata, aveva preso il bimbo, gli aveva offerto il seno, l’aveva fatto smettere di lamentarsi, l’aveva fatto riaddormentare.
Ma fu così che poi, a lei, l’avevano portata dalla Chepa: neanche una settimana dopo.
La Chepa abitava nel loro stesso isolato, la conoscevano tutti, di tutti era una mezza parente. Forse qualche gene della vecchia l’aveva ereditato in qualche modo persino lei, su e giù per rami e radici dell’albero genealogico.
Gli occhi forse, trovava fossero simili.
La casa della Chepa era piccola e piena di fiori recisi in settimana, alcuni freschi, molti secchi: i pochi mobili ne erano ricoperti. All’ingresso, sempre attaccata alla gonna della mamma, lei respirava quei profumi gradevoli che stavano lì per celarne altri: quelli della strada e del suo fango polveroso, quelli delle dinamiche quotidiane del mercato, l’accogliente farina di mais sul fuoco e il sangue di pollo spanto per terra, ormai secco, insieme a piume bianche imbrattate di vermiglio.
La Chepa poteva avere centoquaranta o centocinquant’anni. Avrebbe potuto morire lì, in quel momento e davanti a tutti, un colpo apoplettico sgranocchiando nero grano e nessuno dei presenti si sarebbe stupito né scandalizzato. Nemmeno a lei avrebbe fatto impressione, certo non più di quanta gliene stava facendo quel corpo vivente, le sue rughe, gli sprazzi di cranio sprovvisti di capelli. Eppure, dopo quel giorno, ne sarebbero dovuti passare moltissimi altri prima di farlo arrivare alla sua destinazione finale, nella terra fertile che un giorno gli aveva dato la vita e che alla fine l’avrebbe reclamato.

Anche le streghe muoiono, e non solo nelle fiabe.

La collana era già pronta: era bastata una telefonata il giorno prima. La Chepa l’aveva estratta da dentro un cassetto e dal cassetto era uscito l’odore che aveva subito fatto appassire i fiori appoggiati sopra a quel comodino.
L’odore si era infine posato su di lei e su di lei sarebbe rimasto per le settimane a seguire.
Ora, mentre meditava cosa fare col suo figlioletto ribelle, decenni dopo, nel suo salotto confortevole, ancora ricordava i dettagli di quell’olezzo pieno, che avrebbe portato ovunque con sé, a scuola, per strada, nella sua profumata cameretta.
La collana era un rosario santo, i gesti erano santi, il segno della croce sul suo corpo, quell’aglio che le toccava la fronte, il plesso solare, la spalla sinistra, la spalla destra.
Il rosario aveva cinque spicchi d’aglio per ogni peperoncino rosso – ave marie e padrenostri – era stata benedetta la sera precedente, così diceva la Chepa, così annuiva contenta la madre, così ridacchiava la sorella.
Così lei aveva indossato il rosario, mentre tutti le giravano attorno e gli altri bambini chiamati per l’occasione – i figli del vicino carpentiere attirati dalle caramelle di quella buona signora – le lanciavano addosso i petali dei fiori che trovavano in giro per la casa.
Così alla fine tutti erano andati via e ora se ne stavano andando via anche loro.
E lei sarebbe andata via con la collana: avrebbe dovuto portarla per tutto il mese, senza mai levarla, fino a quando il chipil se ne sarebbe uscito dal suo dannato corpicino per entrare negli agli, nei peperoncini, fino a quando i vegetali ne avrebbero segnato l’ingresso tra le loro molecole mostrandone la decomposizione, il marcio, i marroni e i neri, e un odore ancora più forte.

Si no hay chipil no huele.

E dall’olezzo presente, il chipil c’era eccome,era l’odore che avrebbe dimostrato il successo dell’operazione. La Chepa avrebbe meritato il suo onorario.
Ora dopo così tanti anni lei si accarezzava il pancione all’ottavo mese e guardava il figlioletto giocare. Lui correva per i corridoi dell’appartamento con un aglio in mano, l’aglio che forse aveva in lei ridestato quei ricordi, quasi che avesse preso lo scheletro sepolto della Chepa per i pochi capelli rimasti e l’avesse dissotterrata ridonandole carne. Il bambino con l’aglio in mano si divertiva a dipingere le pareti dell’appartamento. Poi guardava la pancia di lei e ne disegnava sopra una figura stilizzata.

In quel momento lei si rendeva conto di avere un figlio affetto da chipil.

Poco importavano le radici della sua umiliazione, quella bambina traumatizzata tanto tempo fa: con lei aveva funzionato, non aveva più schiaffeggiato il fratello nemmeno quando se lo era meritato più volte nel corso della sua esistenza.
Nelle prossime settimane suo figlio sarebbe andato all’asilo puzzando tremendamente e se ne sarebbe ricordato per lunghi, lunghissimi anni.

I due bambini sarebbero andati d’accordo per sempre.

Mon petit

Photo by Philipp Trubchenko on Unsplash

Mastico il mare, lo biascico dalle persiane che lasciano sgattaiolare porzionato il sole. Chi se ne fotte del sole. Ora di pranzo, puzzo di pesce spogliato del refrescume, pesce imborghesito da intingolo e fritto spesso. Non sbavo, sazia come sono di salsedine, salsedine e cracker mi nutrono ormai da giorni. Sputo il sale che mi cresce in bocca.

Le prime a sparire sono state le bouganville. Dal mio senso, dalle narici. Ho carezzato i fiori rosa, rosa cui hai affidato la cura di me, accuditela che è sola hai detto, e loro ubbidienti. Non recrimino, mon petit, le bouganville si danno affanno per me, me esiliata e me isolata ma ho te, lo so che io ho te, mon petit, non recrimino e le bouganville mi accudiscono ma non quel giorno, la mattina in cui hanno voltato i petali per non vedermi, chissà se offese da una mancanza che stupida non ho colto, le bouganville mi hanno espulso dal loro odore, e sputo il sale che troppo si addensa tra le labbra arse.

Poi il basilico, foglie piccine a cui dare recatto, a dirla come gli indigeni, il basilico odoroso che incontra i pinoli per far la muta in pesto, pesto pestato da un pestello nel marmo, anche se il nostro è da un frullatore ma non spifferiamolo ai vicini. Ti piace il pesto, il pesto leggero col basilico tritato fino fino, senza un pinolo o un pezzetto d’aglio intonso, che fa un profumo verde chiaro quasi fosse una crema, la crema che mi cospargo in volto la sera quando mi dici che so di buono, so di mamma anche se non abbiamo figli, noi due, e guai se il pesto ti mostra un granello grossolano, guai se dimentico di dare la crema che mi hai regalato, quella che sa di tua madre, se no sono piatti che schiantano e vasetti che rotolano come bocce.

Il secondo gran colpo, all’olfatto mio ignaro, è arrivato la sera dopo, quando sono stata al giapponese: né sushi, né salse e neppure i tempura dell’all-you-can-eat hanno ridestato le mie narici, la lingua gioiva e il palato a smistare e gradire, non come quando a Natale il virus si è fottuto i ravioli di tua madre contraccambiando con ageusia e anosmia.

Eppure. Nessun salmone, non tonno né l’amido del riso ha dato senso al mio naso, tutto bloccato quasi avessi il suggello invisibile che mi concentro a creare se mi tuffo sott’acqua. Ma io stavolta non lo volevo, il suggello!

Stai bene? avresti detto, se fossi stato con me, e io sì sì mon petit, mangio lenta per meglio assaporare, ma tu non c’eri e ogni boccone diceva anosmia.

La notte ho smanettato su internet, da allora so dare un nome al mio malessere. Ageusia è di chi non sente i sapori, e non ce l’ho posso stare tranquilla. Anosmia è invece ‘sta cosa che mi riguarda, ho cercato sul cellulare a luci spente mentre taceva la casa, questa casa dove mi hai portato senza che io volessi ma ti ho perdonato, ti perdono se ho mollato il lavoro tanto la salsedine ora mi appaga, mastico salsedine che corrode il cervello e a volte mi abituo. Ho cercato mentre la casa, sei tu questa casa che stringe blocca e controlla, mentre la casa giaceva, e ho scoperto che non sono le sole rifiutate dagli odori, queste narici asimmetriche ereditate da un padre che mi annusava dove non doveva. Ti stupiresti della sacca della spesa piena di paste al tartufo, acciughe cipolle e aceto, sapori densi che mi attraversano ormai solo la gola. Anosmia, si diceva, e graduale: ho fatto esami che ho dettato da internet al dottore, non ho insufficienza renale né epatica, non ipotiroidismo, non adenoidi ipertrofiche né tantomeno tumori. Mi ha aiutato Freud, quella notte: disturbo di conversione, dunque io somatizzo il mio conflitto tra ucciderti e amarti, la distanza dagli odori è la stessa che vorrei prendere da te.

Ma non lo faccio apposta, mon petit, se potessi fiuterei ancora il dolciastro dell’ozono nel vento che preannuncia la pioggia, respirerei i bromofenoli, i dictioptereni e il solfuro dimetile che danno afrore alla salsedine, annuserei la saliva che tu mi sputi in faccia e il sangue acre quando mi prendi a pugni.

Nulla di nulla, io sento.

Ricordi quando ci siamo incontrati, mon petit?, eri così innamorato che mi volevi mangiare, pur di tenermi con te. Io che ridevo e mi sentivo regina, benché di un regno, allora ignoravo, che dimora agli inferi.

Ti ho perdonato, mon petit mon coeur, ho perdonato tua madre che mi spoglia per capire se i miei fianchi sono buoni da figli, tua zia che mi fa quasi stuprare da un uomo per testare la mia fedeltà.

E perdono te, che non mi hai mai difeso e a cui ho creduto quando mi davi le colpe.

Ero brava al laboratorio, ricordi, la mia equipe studiava la turbinmicina, ti ho fatto una testa così quando ci siamo conosciuti, sugli effetti antifungini del microbioma marino contro la Candida auris, e tu ascoltavi, ti avvicinavi e ripetevi: migliorerai il mondo.

Ho migliorato il tuo mondo, sì, sono diventata il giocattolo su cui infierire, la tua “cosa”, come mi chiami, che nessun altro vuole.

Non mi pesa, mon petit, non mi pesa asservirmi a un re feroce quanto nessuno immagina. Ma ora c’è l’anosmia con me, non sento nulla più che col raffreddore. Non mi lavo da giorni, voglio un odore così mordace da trivellare il suggello al naso, non faccio che annusare e presagirmi il corpo, fiuto le ascelle e fra le dita dei piedi e perfino là sotto, infilo un dito sperando che qualcosa puzzi.

Poi annuso te, mon petit mon coeur, ti sniffo in ogni piega della pelle, tra gli occhi vitrei e il naso che si va sformando, discendo agli arti e raggiungo quelle zone che a volte ti eccitano, e talora tacciono.

Un’ora fa masticavo cracker e salsedine, e ti fissavo come fissavi me un tempo, e ho sobbalzato al trillo del citofono per un avviso di raccomandata, sei stato tu l’ultimo a suonare quel citofono, dieci giorni fa la mattina, rientrando cupo per quella che hai chiamato troia, non me la dà perché sa che viviamo insieme, gliel’hai detto tu, strillavi, di noi due? Io che arretravo e la mia voce si rendeva piccola, pur sempre conscia di ciò che stavo per fare. Mi ero preparata, mon petit, ti mangerei pur di non perderti, ma da quel giorno, il giorno delle bouganville, in pegno ho dato ogni opportunità di odore.

Sei qui davanti e io ti carezzo il corpo, e immagino aspro l’olezzo della formalina: l’ago ha forzato a trapassarti l’addome, non come col solito cortisone per l’asma, te ne stavi rigido e tenace con la macchietta in pancia che incoraggiava a insistere.

Adesso i giorni sono trascorsi troppi, già o tra un po’ il putrido saturerà la stanza. Non preoccuparti, mon petit, non avverto il lezzo, starai sul letto finché i vicini non irromperanno.

E ti perdono se non sento il tuo odore, né la salsedine che ci mastica il cervello.

La ragazza dal cuore atomico:re

Foto di Dynamic Wang su Unsplash

Con Boris ho stretto un patto.
Abbiamo deciso di barattare le prestazioni professionali di uno con quelle dell’altro.
Siamo amici da una vita e ci è sembrato eccessivo stringerci la mano per siglare l’accordo di cui sono stato il primo beneficiario; il dente rotto mi faceva così male che la notte prendevo sonno con una pasticca di ossicodone e non volevo arrivare a due.
Per non intralciare la regolare attività d’ognuno s’era convenuto di lavorare a studi chiusi, e Boris lavora proprio bene, non c’è che dire. Ma anch’io lavoro bene e lo sa anche lui, tant’è che mi chiama affettuosamente O’mast, il maestro. E così, dopo le sedute nel suo studio dentistico, stasera è il suo turno.
Mentre sfoglia i cataloghi dei disegni, giro un cannone col Lemon che Saif mi ha portato l’altro ieri. È il suo primo tatuaggio. È giusto metterlo a proprio agio e dargli tempo per scegliere il soggetto. Dai discorsi che fa credo che sia in fissa per una ragazza che li adora.
– Sei sempre dell’idea di tatuarti la schiena? – Dico chiudendo la canna.
– Certo.
– Allora passa al catalogo nero, schiena e torace. Quello che stai sfogliando ha solo soggetti per braccia, gambe e collo.
– E quello rosso? – Fa lui.
– Chiappe e tette, – gli rispondo a mezza bocca col joint tra le labbra. – S’è scaricato, fammi accendere.
Mi passa il suo accendino e dà una sbirciata al catalogo rosso prima di aprire il nero.
– Che ne dici di questo? – Chiede dopo un po’, e mi mostra due ali d’angelo unite da una croce.
– Se vuoi portarti una croce fin nella tomba, cazzi tuoi, – faccio io.
– Naaa, – conviene lui.
– Tieni, magari ti aiuta, – dico passandogli la canna.
Boris aspira lungo.
– Bello questo. Che cos’è?
– Un mandala. Di solito lo scelgono le ragazze, ma se ti piace.
Lui continua a sfogliare il catalogo con le dita appiccicose di chi ha mangiato pollo.
– La passi o no!
– Questo. Ho deciso. Voglio questo, – dice lui, passando la canna e puntando l’indice sul soggetto a confermarne la scelta.
Butto l’occhio sul catalogo. Faccio un bel tiro da riempirmi i polmoni e trattengo il fiato.
– Questo no.
– Come no, è perfetto. Mi ci rivedo in questo drago senz’occhi.           
– Boris, no.
– Questa è bella: è da mezz’ora che sfoglio cataloghi e una volta che mi decido, tu dici no. Cazzo, ma perché? E non rispondermi ‘perché no’ come ai bambini.
– Perché quello è il drago di Yuko.
– E a me che me ne fotte!
– A me sì. Ho fatto una promessa. Ma non a lei.
– Quindi questa Yuko è una lei, ora capisco, – dice sornione. – Comunque ho deciso; se non sarà questo, voglio comunque un drago.
– I draghi non li tatuo più. Quello è stato l’ultimo.
– E perché lo tieni ancora in catalogo allora?
Ammazzo la canna nel posacenere e soffio il fumo sulla faccia di Boris.
– Sei un cagacazzo.
– Lo so, – ammette lui.
Lo conosco da troppo e so che il muro contro muro con lui non funziona.
– Davvero vuoi sapere perché è ancora in catalogo?
– Sì.
– Per il piacere di dire no ai rompiballe come te.
– Ah ah, simpatico. Non ti ricordavo così misterioso.
– L’unico mistero in questa storia è quello di Yuko, – dico io. – Che ho conosciuto a Firenze quando ero socio col Sardo. Una sera mi ha trascinato a forza in uno dei locali che frequentava lui, meta preferita della giovane borghesia fiorentina. Non sto a dirti che mi sentivo un pesce fuor d’acqua, ma il Sardo diceva che i clienti migliori li trovava così, passando le notti in posti come quello, e mentre lui non si risparmiava nelle pubbliche relazioni io affondavo in un divanetto con il secondo drink in mano. La musica faceva schifo, la gente pure, ma per fortuna il Negroni spaccava. E fu scolandomelo che, rivolgendomi alle gambe accavallate a fianco a me, dissi “Tutte queste persone sembrano tante supposte in attesa di entrare nel buco del culo di qualcuno”.
– Uh che poeta, – commenta sarcastico Boris.
– Tu scherzi ma “è una tua poesia?” fu ciò che disse la proprietaria delle gambe. Bah, forse potevo anche avercela l’aria del poeta, o forse non era insolito incontrarne in quel posto, non so, sta di fatto che schiodai gli occhi dalle mie scarpe per puntarli su di lei.
– E te la sei scopata.
– Uhm, non quella sera. Ci siamo rivisti giorni dopo per un aperitivo e abbiamo finito col cenare assieme. Ma non fu l’unica volta che Yuko passò la notte da me; il mio appartamento offriva più intimità della sua doppia in una casa per studenti.
– Vecchia roccia, te la sei scelta giovane.
– Ti ricordo che abbiamo la stessa età, stronzo. Comunque sì, aveva venticinque anni e io quarantasei.
– Quindi tre anni fa.
– Sì, ma il mistero di Yuko non è nei suoi anni.
Boris tace, e mi guarda come a dire continua.
– Non capivo perché non si toglieva mai la T-shirt quando scopavamo.
– Vuoi dire che non le hai mai toccato le tette?
– Toccato sì, da sopra la maglietta.
– Quindi non gliele hai mai viste! Io non ce la farei.
– Infatti dopo un po’ la cosa cominciava a pesarmi, perché all’inizio l’avevo presa con filosofia, non m’ero fatto problemi finché si è trattato soltanto di scopare.
– Oh oh, non mi dire che ti eri innamorato?
Cosa c’è di più eloquente del silenzio nel momento giusto? Solo l’imbarazzante silenzio al momento sbagliato.
Boris accende una sigaretta e passa pacchetto e accendino a me.
– Fanne un’altra va. La tiriamo per le lunghe se c’è di mezzo il cuore.
Aveva ragione, d’altronde mi conosceva e più d’una volta s’era sorbito le mie pene d’amore. Sono un romantico, anche se non lo do a vedere.
– Allora? Continua: come hai fatto con le tette? Le hai viste, spero.
Anche Boris è un romanticone ma non lo dà a vedere.
– Sì, ma non le ho strappato la maglia come pensi tu.
– L’hai sbirciata sotto la doccia?
– Coglione.
Boris risponde col suo sorriso, quello che gli apre tutte le porte.
– Le ho semplicemente chiesto “perché non te la togli quando facciamo l’amore?”
– E lei?
– Ha risposto “Hai detto facciamo l’amore?” e io ho annuito; e poi se l’è tolta, così, – faccio io schioccando le dita. – E a me ha tolto il fiato ciò che ho visto.
– Wow! – Dice allungando la mano. – L’accendo io se non ti dispiace.
– E non erano le tette a togliermi il fiato. So che non mi crederai ma una luce rossastra le pulsava sotto pelle in corrispondenza del cuore.
– Secondo me fumi troppo, – fa lui dopo averla accesa. – E ‘sta roba è potente, mica come il cioccolato che si rimediava a scuola.
– Guarda che non ti sto coglionando. Yuko la chiamava “la mia singolarità”. Ti ricordi lo tsunami del 2011?
– Certo che me lo ricordo, quello del casino di Fukushima, – ribatte prontamente. – E cosa c’entra?
– Il padre di Yuko era un tecnico della centrale. L’ultima volta che l’ha visto è stata tre giorni dopo l’incidente: la popolazione doveva essere evacuata e il padre chiese alla propria sorella di portare Yuko via con sé, a Tokyo, lontano dalla centrale. Lui invece lì dentro c’è morto.
– E la madre?
– È morta subito dopo il parto. Yuko ha sempre vissuto con il padre, e quando lui per salutarla l’ha stretta in un abbraccio, il loro ultimo abbraccio, il cuore di lei si è come sentito sotto attacco, bombardato e sottomesso. Ha usato proprio queste parole per descrivere quella sensazione, che ha riprovato anni dopo, facendo…

Il telefono di Boris squilla a massimo volume riproducendo Unravel, di Tokyo Ghoul. Erano anni che non la sentivo, da quando Yuko l’aveva impostata come sveglia sul suo smartphone – dopo che avevamo passato tutto un weekend insieme a vedere l’intera serie.
– Scusami, devo rispondere, – fa lui col cellulare in mano. – Eccomi, come stai? – Dice alzandosi dallo sgabello e allontanandosi un po’.

Che ha riprovato anni dopo facendo l’amore per la prima volta.
Facendo l’amore.
Amore.
Questo diceva Yuko.
Era l’amore a innescare la sua singolarità.
L’aveva capito.
Ogni volta che si innamorava.
Che faceva l’amore.
Il petto si illuminava.
Un pugno di carne che si apriva ed emanava luce.
Rossa. Calda.
In corrispondenza del cuore.
Un segno rosso.
La visibilità del sentimento.
Quanti uomini potrebbero approfittare di una situazione del genere?
Perché non farlo?
Lei lo sapeva.
Voleva solo proteggersi.
La maglietta.
Doveva proteggerla.
Anch’io volevo proteggerla.
Un drago.
Yuko, ti tatuo un drago!
Rosso. Come la tua luce.
Avvolto sul cuore.
Per difenderlo.
Via la T-shirt! Sì?
Quando vuoi. Anche subito!
Un drago rosso sul cuore.
Ma senza gli occhi.
Così non volerà via.
Rimarrà qui dove lo sto tatuando.
Custode del tuo mistero.
Che è per me una lama a doppio taglio.
Assisterò al progressivo sbiadire della tua luce anche sotto le sfumature del mio drago?
Al suo creatore non potrebbe nascondere il disamore del tuo cuore atomico.
Per questo me ne sono andato.
Yuko, cosa avresti fatto al mio posto?

– Devo scappare! – Fa Boris piazzandosi sotto il mio muso. – La tipa, quella che…

Io già non l’ascolto più.
– La porto a cena fuori… – continua lui svincolandosi verso l’uscita.
Sono ancora a Firenze, nello studio con Yuko e la mia fedele macchinetta a bobina che assicura il controllo totale del lavoro.
– Per il soggetto ti dirò, magari chiedo consiglio a lei…
Era davvero il meglio che potessi darle? Un tatuaggio e tutta la mia paura.
– Anche se non ho capito perché, va bene, niente draghi…
È sempre nei miei pensieri.
– Ma almeno toglilo dal catalogo…

Quel disegno sta lì per lei.
Un giorno, forse, tornerà.
A reclamare gli occhi del suo drago. Così che possa volare via.

– Ciao Lucio.

Solo allora saprò che Yuko mi ha perdonato.
Quando il drago della ragazza dal cuore atomico avrà gli occhi.

– Ti chiamo domani.

Un giorno.
Forse.

Di boschi e di fiumi

Photo by Wolfgang Rottmann on Unsplash

Di boschi e di fiumi, puliti, verdi. Di giostre colorate, di luci. Lai la lai lo lai. La carovana si muove come gregge di montagna. La libertà è bella, vai dove vuoi.

La nonna Antida ha una bocca di tartaruga, secca, coi pochi denti rimasti aguzzi. La nonna Antida ha gli occhi color dei boschi e la pelle di terre lontane. Io le accarezzo il braccio, seguo il fiume delle vene che solcano una carne ormai asciutta e arrivo alla sua mano. Avvicino il naso. Quell’odore che è solo il suo e che sa di casa, di sogni e di storie. Lai la lai lo lai.

È un campo grande e un violino melanconico saluta il mattino pieno di bruma. Sono scalza, pettino i fili d’erba con le dita dei piedi. I cavalli nitriscono e sbuffano dal naso, scalpiccio di zoccoli. Un uomo in lontananza batte il ferro, il suono metallico è un richiamo per quelli che non si sono ancora alzati. Il tendone trasuda l’umidità della notte, vado a cacciare le gocce con la punta delle dita sulla stoffa spessa, bianca e rossa. Seguo con gli occhi il profilo delle bande bicolore fino alla punta. Sollevo un lembo di stoffa e sono dentro. Nella penombra la base di legno su cui mia madre ieri sera stava poggiata dritta ad aspettare le lame. Il rullo del tamburo in crescendo e il pubblico che acclama «Oooolè!» ogni volta che mio padre scaglia un coltello e lambisce le sue braccia scoperte, le cosce, la stoffa del body, i capelli. In quei momenti mia madre ride e viene anche a me da ridere e sento un morso allo stomaco, mi stringo tutta, mi faccio piccola piccola perché mentre mia madre ride coi denti di fuori e io rido coi denti di fuori, ho paura. «Oooolè!», il papà non sbaglia mai. Le va incontro, le porge la mano, lei poggia la sua delicata, lui la bacia e la conduce al centro del palco. Il pubblico applaude, anch’io batto le mani. Inchino, una due e tre volte. Sono stati bravi, sono i miei genitori.

Il campo è attaccato al paese, il paese in cui mi fermerò con quello che diventerà mio marito. Siamo sinti, la nostra vita è su ruota, ma ogni tanto qualcuno decide di fermarsi. Mia madre mi dice «Didì entrerai in una famiglia di giostrai!» e io non lo so come si fa a stare fermi che tutto quello che ho conosciuto è un continuo mutare. Abbandonare la nuca sulla stoffa del carro, dondolare al ritmo della strada, socchiudere gli occhi e sussultare lievemente, accompagnare la cadenza del cuore col dondolio del corpo e sognare i boschi da dove veniamo e dove siamo sempre allegri. Io non lo so se riuscirò a fermarmi in questa pianura, mio padre è convinto sia una grande opportunità per me smettere di girare, che si stia meglio con un solo posto a cui appartenere. Io dico che a volte mio padre pensa come i gagé… in fondo mi va bene perché Ronny sarà il mio uomo. La sua casa diventerà la mia, la sua famiglia la mia. Lo so che mi farà felice, avremo dei figli. Andranno forse a scuola, i miei figli. Impareranno per bene la lingua di questa pianura, che è un pezzetto di terra e di tempo, ma non gli farò dimenticare la nostra di lingua che è tanti posti e tanti secoli assieme. I nostri canti, la nostra musica che conduce il vento.

Io non so scrivere e non so leggere e lo so che i gagé ci prendono in giro. Ci dicono zingari. Ma anche noi li prendiamo in giro, lavorano sempre per diventare qualcosa, qualcuno, e sperando così muoiono. E allora gli leggiamo le carte e loro ci credono sempre in questo destino che gli raccontiamo e ci guardano obliquo perché come facciamo a conoscere le loro vite che mai li abbiamo incontrati? E quando vogliono salutare i loro morti c’è Zora la medium che li accompagna. Accende le candele, apre il varco con l’aldilà. Ma non sanno che non c’è un luogo particolare per incontrare i morti: i morti sono tutti attorno, come i boschi, l’acqua dei fiumi, i nostri tendoni, i nostri animali. Se si muovessero al ritmo del mondo, i gagé lo scoprirebbero che non ci sono segreti, non ci sono misteri. Se aprissero gli occhi lo sentirebbero il ritmo del mondo fluire da dentro, inondare le vene. Gioire col cuore, aprirsi in un sorriso senza denti, carezzare la pelle con alito leggero. E invece faticare, mettere da parte soldi e proprietà, e morire.

Io non so scrivere, non so leggere, e non vale la pena spiegare. Tutto quello che ho da dire lo dico col corpo, coi canti nel vento, la danza le sere attorno al fuoco tra il guizzo dei violini e i balzi degli accordéon. Sarà così al mio matrimonio. I miei capelli sciolti e brillanti, lunghi quanto la mia schiena. E la gonna larga fruscerà al ritmo dei piedi. E sarò felice quel giorno, come mai nella vita. Perché Ronny ha un viso gentile, le guance gli si arrossano quando mi guarda entrare nella tenda del circo. Mi segue e mi dice sottovoce «Ti piacerà vivere qui, avremo una roulotte tutta per noi e poi l’estate con le giostre andremo in giro per i paesi attorno». E io credo ai suoi occhi nocciola, alla mano ruvida che cerca la mia, alle labbra di miele sapore di terre lontane, del posto da cui veniamo e a cui mai ritorneremo.

Sono stata felice con Ronny, abbiamo visto nascere i nostri sette figli. Li abbiamo visti crescere nel campo vicino al paese. Li abbiamo mandati a scuola, per qualche anno. Hanno imparato la lingua di questo pezzetto di terra, di questa Lombardia, meglio di noi. Si sono fatti degli amici gagé, che quasi non si vede la differenza. Noi non abbiamo mai rinunciato alla nostra vita su ruota, alla roulotte simbolo della possibilità concreta di ripartire e ricominciare il giro, come la luna. I nostri figli vivono negli appartamenti, con acqua corrente e luce e le fognature. Tutto quello che i gagé ci hanno fatto desiderare. Io ho continuato a giocare a scaldamani con i nipoti fino alla fine, gli ho raccontato del verde dei boschi, dei fiumi puliti di quelle terre da dove veniamo e a cui mai torneremo perché i ritorni sono solo illusioni dal momento in cui si è deciso di partire. Eppure di illusioni viviamo, e di luci e di musiche allegre e di giostre e di acrobati e di bocche che mangiano il fuoco. I violini e gli accordéon ci ricordano che la vita scorre da dentro e che non c’è male a partire, che questa è la vita più bella del mondo. Che noi siamo i viaggiatori della luna, che la luna per secoli ha guidato le carovane e che le donne la luna la portano dentro, la trasmettono alle figlie e alle loro figlie. Lai la lai lo lai.

Questa storia la nonna Antida me l’ha raccontata tante volte. La nonna che ride con la sua bocca di tartaruga e il suo spirito di rapace. La nonna che ha accettato la sua sorte di stanziale con un sorriso a denti fuori e non ha mai smesso di raccontare le storie, per farci ricordare. Io sono cresciuta in una casa popolare, sono andata a scuola e ho imparato a leggere e scrivere. La sua storia la posso mettere qui nella lingua dei gagé che adesso è anche la mia. Alla sua morte ho tagliato i capelli, li ho portati al fiume e li ho fatti volare col vento. Mia nonna Antida è tornata a condurre il vento, al ritmo del fiume che scorre da dentro. Se la voglio incontrare, so che è qui che devo venire.

Against all odds

Foto by Tim Marshall on Unsplash

In una stanza che la regista chiama pomposamente camerino, con due specchi sbrecciati, cinque sedie in fòrmica, un porta abiti con un piede zoppo e un sacco di gente che va e che viene, la mia mano trema appena.
La sua schiena nuda, attraversata da un reggiseno bianco sulla pelle scura, si tuffa nel tubino nero, riempiendo l’apertura della zip fino all’altezza dei reni.
– Aiutami – mi ha detto in inglese.
Chissà perché lo ha chiesto proprio a me. Lei che fino a pochi istanti fa andava avanti e indietro e parlava in amarico, nervosa. Mi ha posato la mano sul braccio, si è voltata e ha sollevato i capelli.
– Per favore.
Avvicino i lembi di stoffa con la sinistra, mentre con la destra faccio salire la zip lungo la schiena. Scosto un ricciolo nero e stretto che è sfuggito alla sua presa. Mi guarda da sopra la spalla e increspa appena le labbra in un sorriso che non svanisce. Ha gli zigomi alti, la mandibola scivola dolce verso il mento. Seguo la linea del collo e immagino il vestito, nero e aderente, che abbraccia la curva del suo seno.
Abbottono il gancetto alla fine della zip.
– Ok?
Lei si volta, pianta dentro lo specchio le iridi color nocciola e io mi accorgo che non so il suo nome. Ieratica, in attesa di adorazione, scruta l’immagine riflessa fino a che questa si piega ai suoi desideri.
Poi fa una smorfia buffa, da bambina, e ridiamo insieme.
Con mosse elettriche e vivaci, si avvolge intorno al collo una sciarpa rossa, la stessa che hanno anche le altre attrici, tutte in nero. Lancia un’ultima occhiata allo specchio.
– Perfetto!
Se ne va lasciando un bacio e una traccia di rossetto sulla mia guancia.

Saba, la collega dell’ambasciata che mi ha trascinato qui stasera, è la costumista e conosce misure e segreti di tutte le attrici. Dev’essersi presa compassione di me, ad Addis Abeba da un mese e senza amici, e mi ha invitato a venire ad assistere alle prove: ora mi chiede se mi sono piaciute mentre mi passa abiti da sistemare. Annuisco, mentre ripenso ancora una volta alle raccomandazioni di sicurezza e mi dico che mettere in scena I monologhi della vagina, qui, mi pare una scelta azzardata.

L’attrice di prima, ora in jeans e felpa, si avvicina a noi con un sorriso. Scambia qualche parola in amarico con Saba, poi mi prende per mano. Io sussulto: a contatto con la sua pelle, maschero appena la mia sorpresa. Per lei è un gesto così naturale: lo ripete anche con Saba, che la lascia fare. Mentre ci muoviamo verso l’uscita, si volta verso di me.
– Andiamo a bere qualcosa con gli altri.
Me lo dice in un inglese senza accento. E senza punto di domanda.

Nell’abitacolo di una Lada Niva, uguale a quella di mio padre quando ero alle superiori, la voce di Phil Collins gorgheggia Against All Odds dalla radio, uno di quei modelli con la lineetta rossa per marcare la sintonia e la feritoia per le cassette. Ho di nuovo quindici anni, ho accettato un passaggio da una sconosciuta e sento un fremito nello stomaco mentre la guardo: lei fissa la strada, evita auto, buche, rari pedoni e non la smette di chiacchierare.
Si chiama Zewdi, come quell’attrice, quella che aveva turbato i miei sogni di adolescente dopo averla vista recitare in una commedia discinta che non avrei dovuto guardare.

La regista, un’americana bionda e solida, alza il bicchiere pieno di tej brindando all’impegno di tutta la compagnia. Io sorseggio la bevanda con cautela, il miele nasconde solo in parte la forza dell’alcol; sposto lo sguardo dagli altri ferengi, i sei o sette stranieri dalla pelle chiara, agli habesha, gli etiopi. Sono una compagnia amatoriale, ma discutono dello spettacolo con fervore da professionisti.
– Dimmi cosa fai ad Addis.
Zewdi mi si è seduta a fianco mentre seguivo lo sproloquio dell’americana.
Non date confidenza agli estranei. Non rivelate informazioni personali a sconosciuti. Zittisco nella mente la voce dell’addetto alla sicurezza dell’ambasciata: lei aspetta la mia risposta, concentrata e curiosa. Le racconto del mio lavoro. Zewdi stringe gli occhi, come a mettere a fuoco un punto esatto della mia vita.
– Raccontami perché l’Etiopia.
Trattengo il respiro prima di rispondere. Perché è questo paese che mi ha scelto, non il contrario. Volevo solo partire, andarmene dall’Italia, da un lavoro noioso, dalla brutta fine che ha fatto la mia ultima storia d’amore. Andare abbastanza lontano da non rischiare di incontrarla nemmeno per caso. Così quando mi hanno chiesto “dove?”, ho risposto “fate voi”.
Nel raccontare, tralascio l’amore irrancidito, per pudore, e parlo del destino. Lei sorride, ascolta, mi dice di lei senza che io glielo chieda. Poi, leggera, intreccia il mignolo al mio.
– Vieni con me.
Questa mania di non mettere il punto interrogativo, come a dare per scontato che la seguirei in capo al mondo. Mi guarda e ride del mio disappunto. Mentre attraverso la sala, ho l’impressione che tutti mi osservino: non come per strada, dove non so nascondermi perché sono ferengi, ma perché la mia pelle intrecciata alla sua urla “portami dove vuoi tu”.

Zewdi si infila nel bagno, trascinandomi dentro e chiudendo la porta a chiave.
È di fronte a me, lo spazio è stretto, ci sfioriamo. Lei sposta una ciocca di capelli dalla mia guancia e lì deposita un bacio. Le labbra poi scendono sulla mia bocca: sa di alcol, e miele, e paradiso.
– Non avevi capito?
Sento il suo seno contro il mio. Il sangue che mi pulsa nelle tempie è per il terrore che qualcuno ci scopra o per il bisogno di averla ancora addosso?
– Non dovremmo.
– Se rispetti tutte le regole, perdi tutto il divertimento.
Non so se mi ha rivelato una verità fondamentale o se ha ripetuto una banalità letta su un foglietto dei biscotti della fortuna. La bacio a mia volta.

Paura e fame. Per giorni si alternano e si intrecciano. E io non riesco a estinguere nessuna delle due.

Raggiungo Zewdi a teatro per le prove generali: sono più emozionata di lei e, prima che salga sul palco, le rubo un bacio dietro una tenda spessa e impolverata, dove nessuno ci vede. Poi mi siedo in platea di fianco a Saba, sprofondando in una poltroncina di legno con il sedile ribaltabile.
Zewdi entra in scena al terzo monologo e a me manca il fiato, tanto è bella. Arriva a metà della sua parte, ormai la so anch’io a memoria, quando una quindicina di uomini irrompono nella sala parlando a voce alta.
Lei ammutolisce, la regista li guarda inorridita e urla improperi, chiede chi sono e come si permettono di interrompere in quel modo lo spettacolo. Alcuni si fermano sul fondo, un gruppo procede a passo deciso verso le prime file, certi salgono sul palco. Le labbra di Zewdi si assottigliano, quasi spariscono, mentre le pupille si fanno sempre più grandi, come se la paura potesse trovare un varco e uscire per di là. Uno di loro si installa sul proscenio e urla frasi in amarico.
Lo sento pure io, il terrore, anche se non capisco. Mi sporgo in avanti per alzarmi ma la mano di Saba mi trattiene sulla sedia.
– Poliziasibila tra i denti. – Stanno dicendo che lo spettacolo promuove l’omosessualità, è reato qui.

La regista chiede spiegazioni facendo mulinare in aria il copione. Uno dei poliziotti le si fa accanto e le afferra una manica, lei si divincola urlando che non può toccarla, che è cittadina americana. Un’attrice, una canadese dai capelli rossi, esce da dietro le quinte protestando a gran voce e perde la sua sciarpa rossa, che un uomo calpesta con le scarpe piene di polvere. Zewdi lancia uno sguardo al pezzo di stoffa.
Un poliziotto intima di consegnare una telecamera. Un altro mi si avvicina e dice qualcosa che io di nuovo non capisco. Saba traduce: vuole vedere i documenti. Alcune attrici urlano, c’è chi cerca di andarsene, ma le porte sono bloccate dagli agenti. Quello sul palco si muove verso Zewdi, la prende per un braccio e infila l’altra mano sotto la giacca. L’occhio di bue restituisce un riflesso metallico: ha una pistola, latra degli ordini in amarico e la sala si zittisce.
Lui la strattona verso l’uscita, lei scende le scale del palco con la sua mano intorno al braccio. Sento anche io la stretta, mi segna la pelle.
Provo di nuovo ad alzarmi, ma l’agente davanti a me urla – Stop! Documents!
Zewdi gira la testa e fa no. Stringo le dita d’istinto, come se potessi trattenerla, salvarla. Non c’è il suo palmo. Solo aria. E sudore, freddo.

Stevensons Falls

foto di Nathan Jenning on Unsplash

«Fidati.»
Lisa guardò la sua coinquilina Kate ferma sulla soglia di casa, rispose solo con cenno della testa e un mezzo sorriso, poi uscì. Consegnò il suo zaino a Daniel e salì sul furgone.
Il portellone del Mitsubishi si richiuse di botto, Daniel riprese posto al volante e partirono.
Attraversarono il centro di Melbourne con sorprendente velocità. Le strade, che di solito erano ingorgate di traffico, sembravano quasi deserte. D’altra parte, solo due giorni prima era stato Natale, c’era ancora aria di vacanza in città. E poi era ancora presto, forse più tardi la città si sarebbe animata con il brulicare tipico del sabato, con il dentro e fuori dai negozi di Bourke Street di chi compra, ritorna, cambia, ancora preso dalla frenesia degli acquisti natalizi.
Lasciarono le strade cittadine e presero l’autostrada che separava la muraglia di grattacieli da un lato e la distesa dei capannoni del grande porto della città dall’altro.
Lisa allungò il collo per seguire meglio con lo sguardo le facciate dei palazzi: tutte quelle finestre, strato dopo strato, fin su, trenta, quaranta, perfino novanta piani della Torre Eureka, tutta quella gente, non era abituata.
Non aveva mai vissuto in una grande metropoli, lei era una ragazza di paese. Solo un mese prima aveva intrapreso la sua più grande avventura imbarcandosi all’aeroporto di Milano, aveva scovato il gate giusto allo scalo di Kuala Lumpur e, dopo quasi trenta ore di viaggio, finalmente, aveva raggiunto Melbourne.
Eppure, sin dal suo primo arrivo in quella città così moderna e verticale, non aveva percepito tutte quelle presenze, quelle finestre illuminate, quegli occhi che guardavano dall’alto al basso, come opprimenti. Li sentiva, stranamente, rassicuranti. Tutta quella gente, quei volti che mescolavano etnie e continenti, l’avevano aiutata a sentirsi meno sola. Ammirò affascinata la skyline di Melbourne per tutto il tempo che ci volle per percorrere il West Gate Bridge, poi la città rimase alle sue spalle.
Man mano che procedevano i palazzi si abbassavano, la strada seguiva i perimetri delle staccionate dei nuovi quartieri residenziali, poi pure quelle, all’improvviso, sparirono e l’autostrada tagliò a metà il giallo dei pascoli secchi fino in fondo, fin sulla linea dell’orizzonte.
Tutto quello spazio aperto era abitato solo da qualche mucca scura, e da qualche albero che, solitario, liberava i rami in alto reclamando più cielo possibile.
Due ore e mezza per arrivare alle cascate. Il tempo era l’unità di misura per le distanze, in Australia.
Il traffico si diradò finché non ci fu solo il loro fuoristrada ad arrampicarsi su e giù per le basse colline delle campagne del Victoria. Tutto quello che le era rimasto della presenza umana, era l’asfalto di quella strada e i fili metallici tirati fra i paletti a dividere i pascoli. Lisa distolse lo sguardo dal finestrino e si girò verso il lato guidatore.
E Daniel: le era rimasto solo Daniel.
Imboccarono una strada sterrata, ad ogni curva la foresta diventava sempre più alta e densa. Lisa capì che erano arrivati solo quando, sul ciglio, spuntò il cartello di legno con inciso “Stevensons Falls Camping”.
Nel folto della vegetazione a malapena si scorgevano le tende piantate. Ogni tanto qualche fuoristrada parcheggiato di traverso sul rialzo della strada indicava che quello spiazzo era già stato preso da qualcuno. Quando ormai sembrava non ci fosse più strada rimasta, Daniel riuscì a scovare uno spazio d’erba, nascosto dal folto dei cespugli e circondato da tronchi di eucalipti che puntavano in alto verso lo scuro di rami e foglie.
Appena scesi furono accolti dal caldo intenso della tarda mattinata. Daniel si mise subito a scaricare il bagagliaio. Anche Lisa prese un paio di borsoni, senza saper bene dove metterli o che cosa contenessero. Voleva essere utile, ma le sembrava che ogni sua piccola iniziativa finisse per essere più un impaccio che un aiuto.
Daniel, invece, si muoveva con naturalezza, le dava istruzioni, le mostrava come fare, e in poco tempo la tenda era piantata, i materassini erano gonfiati e la legna era accatastata al centro dello spiazzo, pronta per la sera.
Solo allora Lisa si rese conto che, presa dall’urgenza di sistemare le loro cose, non si era ancora guardata intorno. Aggirò la tenda seguendo il confine fra il loro spiazzo e la vegetazione.
Niente. Nemmeno una. Nessuna di quelle piante le era familiare. Dalle foglie, sottili e lunghe, dei cespugli sbucavano dei pelucchi colorati, alcuni rossi, altri gialli, a ben guardare potevano esserne i fiori. I tronchi degli alberi erano di un nocciola chiaro e liscio, qua e là pezzi di corteccia secca e più scura si staccavano come la pelle scottata al mare. I rami si arrampicavano verso l’alto, contorti, come se avessero patito la fatica e l’arsura per arrivar fin lassù. Pure le foglie sembravano gocce verdi mezze sciolte dal caldo.
Daniel bevve delle sorsate dalla bottiglia e poi la lasciò capovolta sulla faccia e sulla testa finché non fu vuota.
«Dai, vieni» le disse, «ti porto alle cascate, così ci rinfreschiamo» e si avviò su per la stradina di ghiaia, poi sparì quando imboccò il sentiero nascosto fra le piante. Lisa si fermò davanti alla freccia sul palo di legno che indicava la direzione per le cascate, ma che rivelava, di fatto, una stretta striscia di terra battuta che si snodava dentro il verde denso della foresta.
Daniel, poco più avanti nell’ombra, si girò ad aspettarla.
Lisa si decise, e lo seguì.
Fidati, le aveva detto Kate.
E lei si era fidata. Ma in fondo, anche Kate, la conosceva solo da poche settimane. Si erano incontrate al Big Mouth Cafè, Kate lavorava in cucina e Lisa era stata assunta come cameriera. Da subito si era sentita a proprio agio con quella ragazza. Quel giorno che il manager del ristorante l’aveva presa in giro davanti a tutti per la sua pronuncia in inglese, Kate non aveva esitato: gli aveva puntato il dito in faccia e gli aveva sibilato qualcosa a labbra strette. Cosa gli avesse detto, Lisa non lo sapeva, ma aveva funzionato, perché quello scemo non l’aveva più importunata. Da allora, erano diventate amiche.
Appena Kate aveva saputo che Lisa stava in un ostello non aveva esitato a farle l’offerta, che proprio in quei giorni, vedi a volte la fortuna, si era liberata una stanza nella sua casa condivisa e allora Lisa, dopo il lavoro, era passata a prendere le sue cose e, oltre che amiche, erano diventate anche coinquiline.
Kate era stata categorica: non esiste che passi il giorno di Natale da sola. Così Lisa l’aveva seguita dai suoi a Noble Park. La casa era tutta addobbata, ad accoglierli c’era un Babbo Natale gonfiabile vicino al cancelletto d’entrata e l’albero lampeggiante circondato da pacchetti in mezzo al salotto. C’erano tutti gli ingredienti giusti perché fosse Natale, ma per quanto si sforzasse, a Lisa non sembrava la stessa festa. Troppo sole e troppo caldo per tutta quella neve finta e quei berretti rossi col pelo.
La casa era affollata da nonni, genitori, fratelli, zii e cugini. Più di trenta persone che, birra in una mano e piatto sull’altra, chiacchieravano sparpagliati sul portico e in giardino, affrontando i trentacinque gradi di calura di quel giorno. Lisa aveva imitato Kate, e anche lei si era messa sul piatto un po’ di tutto: l’arrosto con le patate, l’insalata con i gamberetti e pure un pezzo di pannocchia bollita.
«Non ho mai visto nessuno mangiare il mais con le posate» le aveva detto Daniel e come a dimostrazione aveva preso in mano il suo pezzo di pannocchia e l’aveva addentato, un po’ di sugo gli era sceso fin sul mento. Lisa era diventata tutta rossa, aveva abbandonato la sua forchetta sul piatto e si era messa anche lei a sgranocchiare il mais dolce.
Quando Kate aveva scoperto che Lisa non aveva ancora lasciato Melbourne dal giorno in cui era arrivata in Australia, aveva organizzato tutto: ci pensa il mio cuginone Daniel, le aveva detto dandogli una manata sulla spalla, lui va sempre in campeggio, ti ci porta lui nei posti migliori.
Adesso, Lisa lo seguiva addentrandosi nella foresta. E più proseguivano e più lei si sentiva persa, disorientata. Grandi felci con il tronco scuro di almeno due metri srotolavano enormi foglie sopra le loro teste, l’aria calda e secca cucinava la pelle e riempiva il naso di odore di eucalipto, strisce di corteccia e foglie secche scricchiolavano sotto le scarpe.
Sbucarono su uno slargo d’erba alta resa ancora più gialla dall’intensità del sole. Lisa allungò la mano e accarezzò la punta degli steli riarsi: l’erba, almeno quella, era uguale in tutto il mondo. Lasciò il sentiero e si addentrò di qualche passo per godersi quella sensazione familiare.
«Se fossi in te, uscirei da là» Daniel si era fermato a guardarla, «ai serpenti piace un sacco nascondersi nell’erba alta.»
Lisa fece uno scatto di lato per salvare le sue caviglie dalla minaccia di morsi velenosi, e si affrettò su per il sentiero.
Appena raggiunsero le cascate, Daniel si tolse le scarpe, lasciò il telefono e le chiavi del furgone sopra una roccia e si tuffò in acqua. In poche bracciate raggiunse le rocce sotto la cascata e rimase lì, sotto la potenza di quel flusso bianco.
Lisa si riposò seduta su una roccia vicino all’acqua, senza osare toccarla. Poi cedette al caldo, si tolse le scarpe e si rinfrescò i piedi. Ma non si lasciò convincere a fare una nuotata. Chissà quali minacce poteva nascondere quell’acqua scura e profonda.
Ritornarono alla tenda che era sera. Daniel accese subito il fuoco. Mise un pezzo di carne e delle verdure spezzettate dentro una pentola in ghisa, chiuse il coperchio e ricoprì tutto con le braci.
I raggi obliqui del tramonto illuminavano le cime degli alberi sulle colline intorno. Appollaiati sui rami più alti grandi pappagalli bianchi dalla cresta gialla, insistenti, riempivano la sera con i loro richiami striduli. Come se l’ultimo raggio di luce del tramonto avesse spento un interruttore, tutti gli uccelli, di colpo, si acquietarono.
Cenarono che era quasi buio, il fuoco faceva del suo meglio per tenere distante il buio della notte. Lisa si avvicinò un po’ di più con la sedia, per assicurarsi di restare dentro al misero perimetro di luce. Il vento caldo scuoteva le cime in alto degli alberi, il frusciò rotolava giù dalle colline, passava sopra le loro teste e se ne andava via veloce, senza nemmeno sfiorarli, lasciando che il fumo salisse dalle braci in un lungo filo verticale.
Il buio alle sue spalle si popolò di rumori nuovi, di foglie scomposte e terra frugata. Un rametto secco spezzato la fece sobbalzare.
«Cos’è stato?»
«Ma no, niente, sarà un wallaby, o forse un wombat» la rassicurò Daniel, «tranquilla, non fanno nulla.»
Ma Lisa non riuscì a scrollarsi quella sensazione di minaccia. Dopo un po’ si arrese, diede la buonanotte e ripiegò per il misero riparo che le offriva la tenda.
Si infilò nel suo sacco a pelo, sforzandosi di non ascoltare. Sentì lo sfrigolio dell’acqua sulle ultime braci, la bottiglia di birra vuota dentro il sacchetto dell’immondizia appeso al ramo, la cerniera della tenda che si apriva.
Fidati, si ripeté Lisa, facendo finta di dormire.
Rimase ad ascoltare finché non percepì il respiro regolare di Daniel addormentato al suo fianco, poi esausta, anche lei cedette al sonno.
Fu svegliata dal richiamo di centinaia di scimmie impazzite.
Non osò muoversi. Ancora annebbiata dal sonno, forse, se l’era inventato. Invece il frastuono si ripeté, stavolta più forte, in un rimbalzo di grida frenetiche.
Si girò a guardare. Nella luce debole dell’alba che filtrava nella tenda vide che Daniel continuava, imperterrito, a dormire.
Non potevano essere scimmie, non lì, non in Australia.
Ad ogni urlo se ne sovrapponeva un altro e un altro ancora, sempre più forti: alcuni acuti, altri gorgoglianti. Lisa si alzò a sedere.
La paura che l’aveva svegliata, si stava trasformando in panico.
«Daniel.»
Era riuscita a chiamarlo, ma solo con quel po’ di voce che le era sgusciata fuori dalla gola chiusa.
Uno dei richiami le sembrò essere proprio lì, sopra la loro tenda. Lisa afferrò il braccio di Daniel, che si ridestò e la guardò confuso.
«Cos’è Daniel? Che cosa sono queste grida? Cosa sta succedendo?»
Daniel si sollevò e si sfregò il viso. Ascoltò, come se tutto quel baccano fosse la cosa più normale.
«Cosa? Questi?» indicò verso l’alto con il dito, poi aggrottò la fronte. Lisa vide tutta la sua paura rispecchiata nella preoccupazione di Daniel.
«Tranquilla, sono solo dei kookaburra», le mise entrambe le mani sulle spalle.
Lisa scosse la testa, senza capire.
«Sono uccelli, ce ne sono un bel po’ qui, fanno sempre così all’alba» le spiegò.
Lisa rimase ferma, in ginocchio sul suo materassino, e si lasciò abbracciare. Sentì la pressione solida, ma delicata, di Daniel, avvolgerla e l’ansia le sfuggì via, con un sospiro.
Appoggiò la guancia sul suo petto e si lasciò cullare. E lì, in quell’abbraccio, si sentì a casa. Come se, da sempre, avesse abitato fra quelle braccia.
Appena il primo raggio dell’alba si arrampicò oltre la collina la tenda si riempì di luce e la foresta, pian piano, si calmò.

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