La sirena si sente dal fondo della salita. Un rumore che ricorda più un grido, disperato. Elena attraversa la strada, si mette al centro dell’asfalto e con entrambe le mani fa cenno alle luci blu che galoppano verso di lei. Presto, pensa, sbrigatevi.
Il mezzo la raggiunge, accosta e si spegne in un silenzio totale, un buco nero, in cui anche i richiami delle rondini vengono risucchiati insieme alle campane di una chiesa lontana. È domenica dopotutto, una bellissima domenica di metà aprile.
Sono in due a scendere. Stessa divisa arancione, stessa faccia seria nella versione con o senza barba. Elena prova per entrambi un fastidio immediato che rasenta l’antipatia. «Vi faccio strada». Lo dice che già si è incamminata verso il cancelletto pedonale, il viale orlato di ortensie in boccio e cespugli di lavanda. Da bambina faceva il tragitto mano nella mano a Franco. Arrivavano così dall’uscita di scuola: lei davanti, lui dietro, perché per gioco si era trasformata in un cavallo bianco, un unicorno alato, e lui era il cocchio di un re o di un potente stregone, atteso a palazzo per un invito speciale. Poi il cigolio del cancelletto, la corsa nel giardino, le risa di Franco, fino al portoncino ancora chiuso che il mazzo tintinnante di suo padre faceva scattare come per magia.
Il portoncino alla fine del viale oggi è aperto. È stata Elena a lasciarlo così, le chiavi della casa di Franco non le ha più, da un pezzo.
«Da questa parte» continua attraversando il corridoio mentre il rumore torna a mozzarle il respiro. È Franco a farlo anche se Elena non è ancora riuscita a capire come. Viene fuori ogni volta che gli si gonfia il petto, quasi l’aria nei suoi polmoni d’improvviso avesse il potere di cambiare stato, diventare solida, un sasso immobile.
Annika è ancora dove l’ha lasciata, accanto al letto, la mano ficcata sotto ai denti che continuano a massacrare un’unghia finta, la faccia rossa, fradicia di pianto eppure ancora troppo bella.
Elena prova a ignorarla, a non soffermarsi sulle gambe lunghe, i capelli biondi. Fissa invece suo padre steso supino e i due soccorritori che in un attimo gli sono addosso, senza attenzione, senza rispetto.
«Franco mi senti?» chiedono attaccandogli qualcosa al polso, puntando una luce dopo aver sollevato le palpebre chiuse. «Franco capisci quello che dico?».
Elena continua a concentrarsi su di loro, si sforza di cancellare il resto: i quadri di nudi, frutta e fiori attaccati ovunque, la carta da parati molto più colorata di quanto ricordasse, una vestaglia orrenda abbinata a un paio di pantofoline coperte di piume e le tante, troppe foto che continuano a fissarla dai comodini, i suoi sorrisi acerbi insieme a odiosi sorrisi nuovi.
«Da quanto è in queste condizioni?». Il senza barba ora la sta scrutando inquisitorio. Elena scuote la testa a disagio. Non lo sa, non sa più niente di suo padre.
«Era così quando sono arrivata» si giustifica all’operatore che ha già spostato il suo interesse su Annika.
«Non so» risponde l’altra tentando di strofinare via le lacrime con un fazzoletto di carta. «Lui dorme tanto. Pensavo dormiva. Poi cominciato a fare rumore da bocca».
Elena gonfia il petto in un respiro lungo, lunghissimo. Deve restare calma, pensare a Franco, a lui solo, anche se il profumo di Annika è così forte che dà allo stomaco e quella voce sgraziata le è rimasta attaccata al cervello.
I soccorritori intanto hanno applicato una mascherina su naso e bocca di Franco, svitato la valvola sopra la bombola portata insieme alla lettiga. Sono così giovani che verrebbe da chiedersi se hanno le competenze adeguate, così bruschi e asettici che di certo hanno sbagliato mestiere.
«La saturazione è bassissima» dichiara il senza barba alla fine. «Va ricoverato d’urgenza».
Lo squillo del cellulare riempie il silenzio del soggiorno.
Elena alza gli occhi dallo schermo del computer e fissa il display illuminato. È così tanto che non vede apparire quel numero che quasi stenta a riconoscerlo.
«P…pronto?».
Dall’altra parte il nulla, o meglio, c’è un rumore basso, indistinguibile con degli intermezzi spezzati che ricordano le tirate su di naso.
«Pronto! Papà?».
Silenzio, ancora.
La fronte di Elena si raggruma, un sorriso involontario appare sulle labbra rosso Chanel.
«Tuo padre non sta bene».
Elena sussulta, quasi uno schiaffo l’avesse colpita in piena faccia, e nel silenzio che adesso la risucchia insieme ai mobili, alle pareti, alla casa intera, riesce perfino a sentire la corsa del sangue verso il cervello, il rumore confuso dei pensieri: decine, centinaia di pensieri che deflagrano assieme: Annika? Che diavolo vuoi? Papà! Che ti è successo? Che ti ha fatto quella puttana?
«Pensavo dormiva» continua Annika, il tono stridulo rotto dai singhiozzi. «Lui dorme sempre tanto. Ma quando ho chiamato per caffè non ha aperto gli occhi e ha cominciato fare strano rumore».
Elena non ha ancora ripreso a respirare. Ha due blocchi di granito al posto dei polmoni. Da quanto non parla con suo padre? Da quanto ha provato a cancellarlo dalla sua vita insieme alla schifosa con cui si è voluto sposare?
«È una donna meravigliosa». Le sue mani calde, gli occhi lucidi e imbarazzati davanti alla loro colazione della domenica al bar. «Non credevo mi sarebbe mai più successo dopo tua madre ma… mi sono innamorato». E lei era arrivata, facendo rumore nello spostare una sedia di ferro. Troppo giovane, troppo bella, troppo profumata e in mostra, con quel “piacere Annika, tanto felice conoscerti” che non poteva nascondere né la provenienza né le cattive intenzioni.
Elena insegue il lampeggiante blu, il suono che continua a ricordarle un grido.
«Ma ti rendi conto di quanto la cosa sia ridicola?».
Ci aveva ragionato una settimana intera per affrontare di nuovo il discorso. Solo loro due, ancora, domenica mattina, al bar.
«Quanti anni ha? Diciotto? Venti?».
Franco oltre il tavolino la osservava, la margherita sul cappuccino ancora perfetta.
«Ne ha trentanove veramente. Ed è una persona meravigliosa».
Elena gli aveva cercato la mano, l’aveva stretta. «È quello che vuole farti credere papà, non lo capisci? Perché pensi che una così abbia puntato un vecchio come te?».
Franco aveva sorriso. «Mi vedi davvero così vecchio?».
«Dai papà! Fai il serio? Sessantanove anni una cosa sola vogliono dire».
«Sarà. Comunque per onore della verità sono io che mi sono fatto avanti e lei, beh, non è stata una donna facile da conquistare».
«Sì, certo…». Le mani di Elena si erano strette di più. «Ma non ti rendi conto che ha i suoi interessi? Che tu le servi?» .
«Davvero?».
Elena non capiva se Franco fosse serio e stesse solo giocando.
«E per cosa? Annika ha una bella casa, anche più della mia e poi lavora, è un’artista».
«Immagino… Papà, ti prego. Io non so che cosa ti sei messo in testa, che cosa lei ti abbia messo in testa, ma santo dio, apri gli occhi! Ti senti solo? Segnati a qualche circolo, oppure vieni al golf con me, sarebbe la volta buona. Sai quanto possiamo divertirci di nuovo insieme?».
«Non so giocare e poi questo non c’entra nulla».
«Allora cosa? Hai bisogno di… una scopata?» Elena sentiva le tempie andare a fuoco. «D’accordo, scopatela ma poi basta».
Franco allora si era ritratto, aveva lasciato la presa ed Elena era rimasta con le mani vuote sul freddo tavolinetto del bar.
«Mi addolora che la pensi in questo modo. Annika è stata così felice di incontrarti. E anche io lo sono dopo una vita. Pazienza, di certo hai bisogno di un po’ più di tempo per digerire la cosa».
«No papà, io non ho bisogno di tempo».
Elena guida che quasi non vede la strada, segue il rumore, le luci. Aveva giurato di non pensarci più. Sette anni di sedute dallo psicologo per cancellare Franco, le sue parole, il tradimento, la troia che si è sposato, ma adesso, di colpo sa che non ci è riuscita.
All’imbocco dell’ospedale un disagio assordante la assale. Squallore, sporcizia, caos. Deve chiamare Lucio, subito, chiedergli chi conosce per spostare suo padre in una struttura come si deve. Cosa c’è da aspettarsi dal pubblico? Da chi tiene in ambulanza ragazzi che potrebbero fare i buttafuori in un locale notturno?
Elena fa ancora un respiro lungo, lunghissimo. Andrà tutto bene, si ripete arrivando all’ingresso. Adesso ci penso io a te papà. E quasi lo sente di nuovo dietro le spalle, il rumore delle scarpe di cuoio sui ciottoli del vialetto, le sue risate, la voce ferma ma gentile: «Dai Elena, aspettami!», e le chiavi tintinnanti che erano già casa. Allora lei si voltava, lo guardava arrivare: elegante, bellissimo. Come vorrebbe tornare lì adesso: solo lei, suo padre e quel senso di appartenenza così grande che forse non ha provato più.
Una lacrima si forma all’angolo dell’occhio, poi un’altra e un’altra ancora.
Le luci blu si fermano. La barella viene fuori con il senza barba che spinge.
«Arrivo! Aspettatemi!» strilla Elena abbassando il finestrino. Nessuno però risponde, nessuno la sente e Franco in un attimo è già sparito oltre le porte automatiche, Annika al suo fianco che gli stringe con forza la mano.