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Il piccolo non lo diceva. Eppure lei sentiva quella giovane creatura temere il rivale: un rivale che cresceva attimo dopo attimo tra le sue interiora e che si sarebbe manifestato in tutta la sua potenza da lì a meno di un mese.
Non era difficile percepirlo quel timore, e non perché della creatura lei fosse la madre e condividessero quindi tra di loro un legame inimitabile. No, non era difficile percepirlo per nessuna delle persone che condividevano – appieno o anche solo in parte – l’intimità domestica.
Il piccolo si alzava la mattina dal letto, lasciava cadere il pigiama per terra, levava il panno da qualche mese sempre pulito, lo guardava infastidito da quel candore: avrebbe preferito, se avesse potuto, continuare a obbligare la madre a pulirlo per bene appena sveglio. Procedeva quindi verso la stanza da bagno, lasciava giù la tavoletta, si metteva in punta dei piedi e urinava senza mirare, un po’ nel buco, un po’ proprio sulla tavoletta, una buona metà per terra. Poi rideva e la chiamava e lei accorreva responsabile, con il sorriso del buongiorno, e mentre lui ancora rideva, lei prendeva qualche segmento di carta igienica, puliva la tavoletta, puliva per terra. Detergenti non servivano: la pipì era santa.
Anche il rituale cui si era sottoposta in prima persona, tanti anni prima, era stato santo.
Del rito non c’era traccia nei libri, lei lo cercava soprattutto per riuscire a ricordare bene, apprenderne le istruzioni dettagliate da interpretare con la maturità degli adulti, e soprattutto per esorcizzare le umiliazioni che ne erano derivate.

In fondo, cercava per dimenticare.

Alcuni forum in rete riportavano informazioni su cosa fare quando un niño está chipil, ma trovava soprattutto cose innocue come lavare il bambino geloso in una vasca piena di tè di lattuga, oppure troppo morbose come morderlo dalla nuca fino ai piedi per estrarne il misterioso veleno.
La santeria che avevano combinato a lei era quindi, di sicuro, invenzione della señora Chepa.
«Saluda tu madrina», ancora dopo anni veniva presa in giro da sua sorella, quando capitava di incrociare la vecchia per la strada, fino a quando era rimasta in vita.
Eppure al suo fratellino lei aveva solo dato un paio di schiaffi, e piano; l’aveva tirato fuori dalla culla, scosso, svegliato e l’aveva fatto piangere per poi cercare di farlo smettere con le sberle.

Ma piano: molto piano. Di questo ne era ancora certa e lo avrebbe giurato.

Non era in fondo successo niente di male, cose tra fratelli; sua madre era arrivata, aveva preso il bimbo, gli aveva offerto il seno, l’aveva fatto smettere di lamentarsi, l’aveva fatto riaddormentare.
Ma fu così che poi, a lei, l’avevano portata dalla Chepa: neanche una settimana dopo.
La Chepa abitava nel loro stesso isolato, la conoscevano tutti, di tutti era una mezza parente. Forse qualche gene della vecchia l’aveva ereditato in qualche modo persino lei, su e giù per rami e radici dell’albero genealogico.
Gli occhi forse, trovava fossero simili.
La casa della Chepa era piccola e piena di fiori recisi in settimana, alcuni freschi, molti secchi: i pochi mobili ne erano ricoperti. All’ingresso, sempre attaccata alla gonna della mamma, lei respirava quei profumi gradevoli che stavano lì per celarne altri: quelli della strada e del suo fango polveroso, quelli delle dinamiche quotidiane del mercato, l’accogliente farina di mais sul fuoco e il sangue di pollo spanto per terra, ormai secco, insieme a piume bianche imbrattate di vermiglio.
La Chepa poteva avere centoquaranta o centocinquant’anni. Avrebbe potuto morire lì, in quel momento e davanti a tutti, un colpo apoplettico sgranocchiando nero grano e nessuno dei presenti si sarebbe stupito né scandalizzato. Nemmeno a lei avrebbe fatto impressione, certo non più di quanta gliene stava facendo quel corpo vivente, le sue rughe, gli sprazzi di cranio sprovvisti di capelli. Eppure, dopo quel giorno, ne sarebbero dovuti passare moltissimi altri prima di farlo arrivare alla sua destinazione finale, nella terra fertile che un giorno gli aveva dato la vita e che alla fine l’avrebbe reclamato.

Anche le streghe muoiono, e non solo nelle fiabe.

La collana era già pronta: era bastata una telefonata il giorno prima. La Chepa l’aveva estratta da dentro un cassetto e dal cassetto era uscito l’odore che aveva subito fatto appassire i fiori appoggiati sopra a quel comodino.
L’odore si era infine posato su di lei e su di lei sarebbe rimasto per le settimane a seguire.
Ora, mentre meditava cosa fare col suo figlioletto ribelle, decenni dopo, nel suo salotto confortevole, ancora ricordava i dettagli di quell’olezzo pieno, che avrebbe portato ovunque con sé, a scuola, per strada, nella sua profumata cameretta.
La collana era un rosario santo, i gesti erano santi, il segno della croce sul suo corpo, quell’aglio che le toccava la fronte, il plesso solare, la spalla sinistra, la spalla destra.
Il rosario aveva cinque spicchi d’aglio per ogni peperoncino rosso – ave marie e padrenostri – era stata benedetta la sera precedente, così diceva la Chepa, così annuiva contenta la madre, così ridacchiava la sorella.
Così lei aveva indossato il rosario, mentre tutti le giravano attorno e gli altri bambini chiamati per l’occasione – i figli del vicino carpentiere attirati dalle caramelle di quella buona signora – le lanciavano addosso i petali dei fiori che trovavano in giro per la casa.
Così alla fine tutti erano andati via e ora se ne stavano andando via anche loro.
E lei sarebbe andata via con la collana: avrebbe dovuto portarla per tutto il mese, senza mai levarla, fino a quando il chipil se ne sarebbe uscito dal suo dannato corpicino per entrare negli agli, nei peperoncini, fino a quando i vegetali ne avrebbero segnato l’ingresso tra le loro molecole mostrandone la decomposizione, il marcio, i marroni e i neri, e un odore ancora più forte.

Si no hay chipil no huele.

E dall’olezzo presente, il chipil c’era eccome,era l’odore che avrebbe dimostrato il successo dell’operazione. La Chepa avrebbe meritato il suo onorario.
Ora dopo così tanti anni lei si accarezzava il pancione all’ottavo mese e guardava il figlioletto giocare. Lui correva per i corridoi dell’appartamento con un aglio in mano, l’aglio che forse aveva in lei ridestato quei ricordi, quasi che avesse preso lo scheletro sepolto della Chepa per i pochi capelli rimasti e l’avesse dissotterrata ridonandole carne. Il bambino con l’aglio in mano si divertiva a dipingere le pareti dell’appartamento. Poi guardava la pancia di lei e ne disegnava sopra una figura stilizzata.

In quel momento lei si rendeva conto di avere un figlio affetto da chipil.

Poco importavano le radici della sua umiliazione, quella bambina traumatizzata tanto tempo fa: con lei aveva funzionato, non aveva più schiaffeggiato il fratello nemmeno quando se lo era meritato più volte nel corso della sua esistenza.
Nelle prossime settimane suo figlio sarebbe andato all’asilo puzzando tremendamente e se ne sarebbe ricordato per lunghi, lunghissimi anni.

I due bambini sarebbero andati d’accordo per sempre.

Autore

Gabriele Esposito
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Gabriele Esposito (Venezia, 1983) è dottore di ricerca in Economia. Dopo studi post-dottorali in scienze comportamentali si è stabilito a Bruxelles, dove vive. Il romanzo di esordio Tutto finisce con me è stato pubblicato da Wojtek nel 2022. Suoi racconti sono usciti su oltre venti riviste, tra le quali «Nazione Indiana», «Micorrize», «Altri Animali», «In Allarmata Radura», «Verde» e «Turchese».