Ai panni
è bastato un bucato;
al cuore una compressa,
alla pancia un pianto vero.
Unico rovello?
Eradicarlo dal cervello.
Lì senza un rumore
incanto senza tempo oltre il dolore
traccia persistente (tu, piuttosto, assente!)
indelebile
incolore
l'odore che rimava col tuo amore.
L’odore della sera è per me da sempre
la pompa gialla dell’acqua
slegata intorno ai piedi,
l’odore impastato di terra,
di fogna, di steli.
Serpente che avvolge la casa
a nutrire il giardino,
rituale che chiude la vita del giorno, di tutte le cose.
Alba
Tira il lembo, piano, fallo
con amore e la notte si
arrenderà di nuovo, per
il giorno nuovo alla luce
dell’alba rosata di cui
contiamo le dita e solo
dopo, poi, facciamo silenzio.
Silenzio senza preghiera e
redenzione dello sguardo.
Mezzogiorno
Dove si nascondono i nostri
demoni meridiani? Dicono
di cercare nell’ombra, ma
io credo che la luce sia proprio
il miglior nascondiglio. Eccoli
che gemono e chiedono
rifugio, ma noi possiamo
solo scriverli tra le fratture
del giorno che esplode ancora
e ancora nei nostri occhi.
Occaso
La prima benda era l’alba
rosata, la seconda solo
luce meridiana e cieca.
Così procede il giorno,
ferita dopo ferita e
arriva di nuovo nel
nido della notte questo
desiderio di vita che
si rinnova nonostante
gli anni, luce dopo luce.
01/02/2023 - 22/05/2023
*
Concentrarsi per
sentire quel
gracidio di note
valicare i
sedili davanti e
il caldo di
quella luce del
finestrino sulla guancia
l’alba che
andavamo al mare.
**
Nel freddo stamattina
la signora ha le
caviglie gonfie e dà i
santini a chi la guarda e
le foglie
le circondano i piedi di
una luce
rossa come
le sue mani.
***
Uccelli intorno a
una pozzanghera di
sole. E abbattuta fuori
una neve di specchi
un silenzio
breve di visi
e di nasi trasparenti
senza fiato.
Un bel blu all’orizzonte è l’azzardo del cielo
Blu senza il sole che riflette la vita e
si accende e si accende
Blu come questo tempo che scivola
che corre, nella fretta dei passanti
nella mente dei drogati, degli alcolisti
dove invece è lento
è schiacciato
il sole che acceca
Il sole che muore
Muore il blu contro di loro mentre noi
mentre noi contempliamo l’azzardo
l’azzardo dell’orizzonte
del blu – impazzito - del tempo,
Il tempo senza un padre
morto nella pozza di un sole blu
sole prodigioso, che scalda,
che protegge, ancora.
Allora mi chiedo:
come rendere la speranza, dove la speranza non è mai stata
se non uno strato di blu su di uno strato di blu
e ancora sfumature e ancora derive
di rimmel sbavato su guance ruvide, arrossate dal freddo
dalla Prussia, dal cobalto, dai suoi occhi di vetro
occhi come biglie
- ora sono l’orizzonte, l’azzardo del tempo
esse te ne stivi senza dì gnente
gli zoccoletti consumati nel tacco
ti facevano più grossa di quell che n'eri
guardavi guardavi muta
sta montagna che bruciava e sospiravi
assettata su sto blocchetto de cemento
j’occhi persi dentr’aje fum’ e le fiamme:
non ce potevi i' più, mò, pe' quii sentieri,
pe' quelle brecce
quanti cascatuni, quante sfracellate
senza sosta, nemmanco pe’ scherzà,
arrancando pe' quella via Crucis
chissà se dentr’a sto lettino
la fatica de je respiro te
rassomigliava alla salita pe' lla montagna
quann da vajoletta facivi a gare colle cugine
e lascivi soreta sempre dietro a lagnasse
chissà se tutte le Avemmaria dette a
ogni stazione
t'hanno accompagnato il ricordo
deje sole e deje bosc’
quann invece stivi chiusa e isolata
chissà
e invece le vô sapé,
j'occhi té 'nfussi,
me dicevano lo stesso de allora,
quanno te ne stivi senza dì gnente
gli zoccoletti consumati nel tacco,
che te facevano più grossa di quell che n'eri,
guardavi guardavi muta
sta montagna che bruciava e sospiravi
L’amore in fondo
tutto il male del mondo il giorno dopo
dopo la notte dopo la burrasca
e la moka sotto lo scroscio dell’acqua
proprio come il solito mattino
nel gorgo i grumi del caffè.
Sotto agli occhi mezzelune scure
scuro è il cielo (novembre) scura la porta chiusa.
Scusa dirà.
Mette le tazze bianche sul lavello.
Capodanno
Oramai siamo tutti vecchi
ma ci pensiamo
come nelle foto
alla croce
con i capelli al vento
abbracciati e atletici
ci pensiamo ballare e innamorarci
degli altri e fra di noi
una cogli occhi truccati d’argento
un’altra sdraiata sulla spiaggia
che fa ciao
e lui con la cravatta spiritosa e i denti storti
ci pensiamo sempre così
e non sbagliamo.
Sarà lei che non scopre più le ginocchia
ma ancora porta il rosso
o lui
che non si è mai sposato
o quell’altra
coi cani da portare al parco
il primo chi sarà
non sappiamo
né come
ma che un giorno saremo uno di meno questo è certo
scommettiamo
dopo i brindisi di Capodanno
quando le scarpe cominciano a fare male
e i giovani sono irraggiungibili.
Beati loro diciamo
ma non pensiamo davvero
che abbiano amori caldi come i nostri
e di nuovo qualcuno distribuisce le carte
e facciamo un altro giro
di notte e di bicchieri.
E intanto ci innamoriamo ancora
e non smettiamo
di un attore nemmeno tanto bello
o della figlia di un amico
o di un racconto.
Vorrei chiamarti col nome delle cose,
poggiata tra un giocattolo e l’ombrello,
con una voce immaginata,
che appesa al mio volante
chiede scusa al colore delle nuvole,
senza spazio tra le labbra
sotto questa maschera aperta.
Ma il nome in cui tua madre ti ha avvolta
suona più a lungo di due sillabe
ubriaca il mio viso e mi frigge nella voce.
Il tuo nome è brandello di pagine
senza il cuore di una virgola.
Oggi da lontano
aggiusto sulle tue labbra
il suono del mio.
Cerniere
Mi sorridono e questo lenzuolo di bianco silenzio
loro lo chiamano normale paura
e mi chiedono un dito puntato sui miei anni di te.
Sono arrivata qui per la tua strada
mi hai trovata bambina
imparavo a stare in posa per una cornice
e il loro star male
me lo curavano in jingle annacquati
che io ricalcavo in un disegno di me adulta.
La bambola con la treccia me l’aveva regalata papà:
«ti piace tanto giocare a fare la mamma»
e io la tenevo custodita nella mia borsetta di bimba
chiusa con la cerniera.
Di papà avevi le mani
grandi e forti e la tua voce
cadeva e accompagnava il loro battere: era la cura
da quel cieco giardino di ovatta colorato
dal pastello leggero di ogni giorno.
Me lo imprimesti nella pelle a mani, a voce
quel canto senza specchi, senza terra per i piedi
e se cadevo per annusare il profumo dell’erba
tu mi rialzavi:
«ti piace troppo giocare a fare la bambina».
Vogliono questo dito puntato contro di te
per restituirmi il tuo nome
con la ceralacca del malvagio.
Le cerniere rosse di pelle ricucita a filo,
che toccando il lenzuolo silenzioso
ancora bruciano sulla schiena, sul viso
custodiscono
quello che tu mi hai lasciato, amore.
Non posso chiamare papà
non posso bruciare anche in lui.
Nuvola
tuffarci la faccia
entrarci come un pesce
o un atleta in volo
in un flusso di gravità
un progresso di
perdita e attesa
di tornare all’aria
alle capriole di vento
di cui siamo fatti.
Andare
da un lato all’altro
di questa grande casa
lungo i corridoi di voci
delle donne che qui
hanno pianto e figliato.
Non tirare il pavimento a cera
che dopo è una schiavitù
come la tinta bionda.
Allargare lo sguardo
agli angoli
e nella prospettiva.
Riempivo
il vaso di fiori,
tanti, e lì li stipavo,
all’ingresso:
sembravano una testa
e i suoi capelli.
Poi
il vaso s’è rotto:
schegge d’acqua
e di creta si son sparse
in fuga fra le piastrelle.
La testa e i suoi capelli
sul pavimento dell’ingresso.
Stipite
della porta
la sua verticalità
custodisce tra le fibre
un progetto di appoggio:
vibra tra le piste
lucide di copale
mi ci schiaccio così bene
quando fremo di freddo
fuori, dove mi hai chiuso
ad aspettare
te.
Un urlo
- belva o foresta
vorrei dar forma
a quello che non posso dire
Parlerei così alla notte, senza digrignare i denti
disegnando ritorni
Le nostre case
sono in preda alle maree
Mi regali l’inverno, ma aspetto i pappagalli!
Non hai visto quanti pappagalli c’erano
a Roma, sulle palme?
Mi chiedi da dove vengo
ti ripeto, il punto è un altro
dobbiamo partire adesso, si sta facendo tardi
Allora chiedimi
chiedimi caro mio:
- dove andremo quest’anno?
Chiedimi quale luce vedremo all’orizzonte
una vita piena di città
che non hanno il sapore di una casa
una vita da belva, da assassino
La luce pugnala il nostro risveglio
siamo già altrove, ma non ci siamo persi
altri fili scendono come parche sui nostri sogni
alla fine vedrai, vedrai anche tu
laggiù, l’ultima parola sarà scritta col fuoco
È solo primavera, d’après William Carlos Williams1
Ma dentro ogni amenità
si nasconde una primavera
Un tornare, adesso sei
e saresti stato
riva e oceano e andiamo, vieni
andiamo via da qui
ancora più in là, più lontano
Brucia il corallo, le luci
ubriache, tremolanti neon e
ancora il cielo
ancora lui
A ogni modo,
adesso infine siamo arrivati
sotto l’impennata delle
nuvole,
chiazzate di rosso
Allora andiamo,
prima o poi ci fermeremo
quando il cielo sarà colmo
delle nostre lacrime selvagge
di baci dati,
e baci ancora da dare
Lo vedi, si è rotto
mi chiedi: che cosa?
il cielo va in frantumi, tesoro.
È solo primavera.
1 William Carlos Williams, La primavera e tutto il resto, Tommaso di Dio (a cura di), FinisTerrae, Pavia, 2020.