au-delà des limites. beyond the expectations. oltre il confine.

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Mappare ciò che resta: un viaggio sentimentale nel paesaggio in rovina

Photo by Gabriella Clare Marino on Unsplash

Spesso mi capita di restare incantata a osservare un paesaggio, come rapita da forze indefinibili originate da un qualche tipo di sortilegio. In questi momenti, mi ritrovo a pensare che ciò che si apre davanti a me – può essere uno scenario naturale o urbano, non importa – possieda un’emotività propria, viva e consapevole. Non si tratta solo di una banale proiezione del mio stato d’animo sull’ambiente circostante (quello che nelle ore di lettere a scuola ci hanno insegnato a identificare come paesaggio-specchio); piuttosto, mi pare di essere coinvolta in uno scambio di sguardi tra me e il paesaggio, come se questo si appropriasse del mio modo di vedere le cose e lo trasformasse. A quel punto, la pienezza di un luogo si manifesta alla stregua di un’apparizione, riuscendo a penetrare la mia sensibilità in una maniera talmente intensa da risultare, in alcuni casi, persino dolorosa.
Questo genere di esperienza, così personale e insieme piuttosto comune, configura quello che in psicoanalisi è stato definito come mindscape1: un’idea di paesaggio-psiche per cui i luoghi non sono solo articolazioni spaziali e percettive, ma disegnano una dimensione del pensiero che richiede un ordine simbolico, fatto di tempo, memoria e oblio.
Non è raro che tale forma di compenetrazione venga innescata dall’osservazione di un paesaggio in disfacimento, da un luogo abbandonato o che è sul punto di diventarlo. Al paesaggio in rovina fa spesso eco un dissesto interiore, tanto più profondo quanto più è forte il senso di appartenenza che ci tiene legati a quel luogo specifico.
Lo straniamento che ne deriva, genera in me una doppia urgenza: da un lato decodificare quelle sensazioni così inafferrabili, cercandone il riverbero nella poesia e nella letteratura; dall’altro, avviare una riflessione sul come (e sul se) sia possibile riempire di nuovi significati i luoghi in rovina, e ricostruire, di conseguenza, anche l’interiorità di chi li abita o li attraversa.

Il terremoto disegna la geografia del dolore

Le catastrofi hanno da sempre tracciato una mappa ben estesa di territori devastati e di città morte, configurando una sorta di geografia del dolore per cui, al senso di precarietà e malinconia sperimentato delle comunità coinvolte, si aggiunge un presagio di fine, imminente e sempre possibile.
La violenza di un terremoto, ad esempio, genera detriti e polvere, ma può anche allargare crepe interiori preesistenti fino ad aprire delle voragini insanabili.
La letteratura delle macerie diventa a quel punto uno strumento indispensabile per addentrarsi in quegli interstizi – anche temporali – in cui il disfacimento fisico diventa rottura di coscienza. Ma esplorare le zone d’ombra e tentare una ricomposizione del sé, passa per lo stabilire un legame di tensione continua tra le impressioni che popolano la mente.
Difatti, uno dei corollari naturali dell’idea di mindscape è che un paesaggio non è solo un luogo geografico, ma è espressione di una complessità sinestetica. Colline, colori, case, odori, acque, oggetti, fratture, rumori: la totalità della percezione si fa proiezione mentale. Potrebbe dunque non essere un caso che il paesaggio del terremoto venga spesso descritto con la semantica del suono, anticipatrice dell’oscillazione, preludio al crollo.
È quanto accade in Rombo di Esther Kinsky2, dove il racconto del terremoto che colpì il Friuli nel 1976 si dipana attraverso una narrativa frantumata, che posa lo sguardo su ciascun momento del fenomeno sismico al ritmo e all’intensità dei suoi movimenti sussultori. Il racconto si dilata e si comprime, anche stilisticamente, esattamente come accade alla terra sollecitata dalle scosse. Le descrizioni del paesaggio carsico, tagliente e azzurro, si propagano come onde e si intervallano a richiami mitologici, alla memoria storica e ai racconti di frontiera. I personaggi vengono colti come testimoni sopraffatti da una foto istantanea, che però resta scolpita nel tempo, come un’incisione sulle rocce preistoriche. Essi vengono dislocati tra le pagine quasi come se fossero brandelli di loro stessi, sollecitati da premonizioni o da reminiscenze sfumate. Il rumore che anticipa il terremoto accompagna il lettore per tutta la lunghezza del racconto, viene descritto comeun accumulo di suoni in crescendo, come la conclusione sorda e smorzata di un movimento cominciato molto lontano3 con cui tutto è iniziato e che tutto ha cambiato:

«In seguito, tutti parleranno del rumore. Del rombo. […] Sibilo, ronzio, brontolio, sussurro, tuono, strepito, fruscio, stridore, borbottio, fischio, rimbombo, boato. E così via. Ma sempre cupo. Nessuno l’ha avvertito come stridulo, squillante, limpido.»4.

Il boato del terremoto, occulto e indifferente, si fa poi voce tra le voci nel romanzo di Remo Rapino Cronache dalle terre di Scarciafratta5.
Tra gli abitanti delle terre di Scarciafratta – luoghi dell’anima corrispondenti alle colline erbose e ferite dell’Abruzzo – una voce da trombone sfiatato prende la parola, e presentandosi come la “Cosa Brutta” descrive in prima persona l’atrocità, ineluttabile, di cui è capace:

«Dal sottosuolo ho fatto salire un rantolare sordo come un grosso lupo mannaro, per inquietare corpi e anime. In ultimo ho tirato l’esplosione di grido, un urlo rabbioso, una ferita lancinante. Facevo urlare la terra tutta, che sembrava farsi come una polenta, acqua e fango sotto le scarpe, le pareti gemevano di un dolore quasi umano, i tetti s’aprivano con furia, solo qualche architrave reggeva a malapena, tutto sbriciolava come biscotti acqua e farina, intanto che mille voci gridavano ad un cielo indifferente Il terremoto, il terremoto! […] » 6

Il dolore è qui talmente pervasivo da occupare tutto il paesaggio: si inserisce nelle pieghe dell’umano, invade la memoria. Un attimo dopo, le immagini della distruzione si fanno già ricordo e uno squarcio si apre su quello che rimane: la vita salvata dalle macerie e che popolerà le rovine.
Tra le cose che restano c’è la lingua, quella parlata e quella della poesia, territorio intangibile dove si origina il senso di appartenenza e si cura l’anima. La lingua diventa intima e preziosa, perché chiama ciò che si è perduto.

Spopolamento e desolazione emotiva: partire o restare?

Tragedie come quelle provocate dai terremoti accelerano i processi di spopolamento delle aree colpite dalle catastrofi e incentivano i flussi migratori.
I movimenti umani di massa trasfigurano il paesaggio al pari di una sciagura naturale, lacerando ulteriormente territori già tramortiti. È quanto accade, nei paesi doppi che si originano quando un centro abitato si sposta verso un luogo non distante da quello colpito dalla calamità.
In situazioni come queste, all’esodo delle comunità, si affianca una desolazione emotiva: i vuoti si manifestano e acquistano consistenza, i paesi abbandonati diventano cumuli di pietre, e vengono talvolta idealizzati in una nuova retorica dei borghi fantasma che non fa altro che accentuare il senso di spaesamento già provato da chi sente ancora di appartenere a quei luoghi ma è costretto ad abitare altrove.
Restare o partire infatti non è una scelta che si compie in maniera indolore, spesso non è nemmeno una scelta. E se, da un lato, si è abituati alle dinamiche dell’andare via (una necessità che, seppure dolorosa, contiene in fondo una promessa), meno esplorate sono invece le implicazioni del restare.
In questo senso, il saggio La Restanza7 di Vito Teti può considerarsi un valido punto di riferimento per mettere a fuoco il restare in contrapposizione al partire. Un corpus concettuale che riguarda anche le città, le metropoli, le periferie.
Partendo da una lettura critica del territorio in continuo cambiamento, Teti immagina e descrive nuove pratiche dell’abitare. La prospettiva è molteplice: all’indagine dell’antropologo-letterato, si affianca l’insofferenza tutta umana di chi sa di appartenere a un paesaggio in rovina secolare – quello nostro, peninsulare – e che ancora fatica a trovare una dimensione propria nella contemporaneità.
La restanza non è infatti una forma di nostalgia o una vocazione malinconica, spesso apatica nei confronti del posto in cui si è nati, tutt’altro: ha a che fare con la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi, attraverso processi creativi e conflittuali, che possono risultare rigenerativi tanto per il territorio in sé, quanto per i suoi abitanti. Restare, in fondo, non è che un ulteriore modo di affermare la presenza e riempire i vuoti.

Il Terzo Paesaggio come fondamento per una topologia comune

Ri-abitare i luoghi significa principalmente impegnarsi a costruire comunità senza cadere nella retorica dell’esasperazione identitaria8. Vuol dire anche uscire da visioni ristrette, e soprattutto, superare quella ripartizione rigida a cui sembra assoggettato il paesaggio contemporaneo, che vede da un lato il prorompere di luoghi imbalsamati e turistificati (come i borghi prettified o i centri storici ormai gentrificati) e dall’altro, l’addensarsi di spazi ai margini e in stato di abbandono, dove povertà, migrazioni e guerre sociali si sedimentano come rifiuti in una discarica.
Per ridare significato al paesaggio in rovina si rivela allora fondamentale costruire una topologia comune: elaborare cioè, delle coordinate condivise di lettura del paesaggio con l’obiettivo di costruire un pensiero critico, che possa fare da motore per un cambiamento rigenerativo.
Proprio da questa esigenza sembrerebbe partire il paesaggista e filosofo Gilles Clément nel suo Manifesto del Terzo Paesaggio9, un pamphlet tecnico che spiana la strada alla riflessione sul paesaggio in abbandono.
Clément identifica il Terzo Paesaggio come l’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo, che appaiono per sottrazione ai territori antropizzati10. Recita il manifesto:

«Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre […] una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. […] Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata.»11

Appare chiaro dunque che la diversità, intesa nel senso più largo come convivenza nelle differenze, diventa la lente attraverso cui avviare una nuova lettura degli spazi di indecisione, di quei frammenti condivisi di una coscienza collettiva12 che contraddistinguono il paesaggio in rovina. Rieducare lo sguardo all’osservazione del paesaggio, abituandolo a cogliere l’invisibile nascosto nel visibile, potrebbe allora non essere un affare puramente personale, legato all’unicità emotiva di ciascuno. Al contrario, potrebbe invece rivelarsi fondamentale per maturare, a livello collettivo, quella consapevolezza da cui muove la possibilità di cambiamento. Una presa di coscienza che, a ben vedere, trova fondamento nel senso di meraviglia, inteso non tanto come stupore di fronte a una bellezza codificata, ma come un ritorno alla capacità di sorprendersi di fronte al possibile.

1 Vittorio Lingiardi, Mindscapes, Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina 2017

2 Esther Kinsky, Rombo, Iperborea, 2023

3 ivi, p. 46

4 ivi, p.46

5 Remo Rapino, Cronache dalle terre di Scarciafratta, minimum fax, 2021

6 ivi, pp.149-150

7 Vito Teti, La Restanza, Einaudi, 2022

8 ivi, p. 49

9 Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, 2005

10 ivi, p. 13

11 ivi, p. 16

12 ivi, p. 30

I prigionieri

foto di Pamela Frani

La dedica che Pierluigi Vito ha fatto sulla nostra copia de “I prigionieri” si rivolge a persone “che sanno ben capire quale amore ci sia tra queste pagine”. I sentimenti, le relazioni, la paura, l’inconnu che però è presagio, l’amore: tutto questo nel libro è maneggiato con cura, con la delicatezza di chi ha tra le mani una porcellana antica.

Pierluigi, ci racconti del tuo libro “I prigionieri”? Come mai hai scelto questa storia?

Avevo intenzione di cimentarmi con una vicenda situata negli Anni di Piombo mentre ancora scrivevo il mio primo romanzo, “Quelli che stanno nelle tenebre” (Robin, 2016). Lì affrontavo una storia ambientata nell’Italia degli anni ’50 e già terminando la stesura sentivo che c’era bisogno di un “secondo tempo”, della necessità di recuperare degli spunti che avevo cominciato ad affrontare. Come ad esempio la dissimulazione della propria identità, il peso esistenziale che comporta, le ragioni che la determinano. Insieme a ciò mi interessava affrontare il tema della libertà: cosa voglia dire essere liberi e, di converso, cosa accade nel momento in cui la libertà viene meno. All’inizio mi ero concentrato sulla vicenda di Aldo Moro, cercavo una via nuova per affrontare questa pagina di storia cruciale per l’Italia contemporanea, ma poi mi sono casualmente imbattuto in una vicenda molto meno nota, quella di Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse. Mi pareva inconcepibile che un evento del genere fosse quasi scomparso dalla memoria nazionale; e studiando gli avvenimenti, leggendo le sentenze, incontrando i familiari della vittima e uno dei terroristi che partecipò all’azione, mi sono convinto che fosse necessario dedicarmi a questo lavoro.

Nel tuo libro si parla del rapimento di Giuseppe Taliercio, ma il titolo è al plurale: qual è il motivo?

Come dicevo, uno dei temi che mi interessava trattare era la perdita della libertà. E se nel caso di chi si ritrova incatenato a una brandina dentro una soffitta, guardato a vista da carcerieri armati, il fenomeno è eclatante; nondimeno anche gli aguzzini devono fare i conti con gli effetti della situazione. Per motivi di lavoro e per interesse umanitario mi sono trovato ad avere a che fare con la realtà carceraria. Mi sono reso conto che una prigione fa del male non solo a chi vi è rinchiuso, ma pure a chi detiene le chiavi delle celle. Bastino i dati: nel 2022 si sono tolte la vita 84 persone detenute nelle carceri italiane; e, secondo recenti statistiche, mentre il tasso dei suicidi in Italia è dello 0.60 per mille nella popolazione, questo sale all’1 per mille tra gli agenti di Polizia e all’1.30 per mille tra gli agenti di Polizia Penitenziaria1.

Per questo volevo dare conto del dolore patito dalla vittima, ma pure del conflitto che si genera in chi si ritrova a contatto con un altro essere umano a cui impone una sofferenza prolungata. Non a caso, a un certo punto tra i miei personaggi si crea un dissidio: c’è chi comprende chiaramente che ucciderlo subito sarebbe stato meno straziante per l’ostaggio, ma soprattutto per loro, chiamati a fare i conti giorno per giorno con il crimine che stavano compiendo. E perciò anche i terroristi sono prigionieri: dell’azione scellerata che hanno messo in piedi, dell’ideologia che li ha accecati, della loro vigliaccheria nel non ribellarsi a una condotta che scorgono come inutile e controproducente per la causa della lotta armata, e contraria a ogni briciolo di umanità.

Sembra infatti che in alcuni momenti della narrazione i brigatisti siano a disagio con gli aspetti più difficili del sequestro e che emerga l’umanità, comune al prigioniero e ai carcerieri, rispetto alle ragioni che li vedono ostili. Vorresti commentare la tua rappresentazione di questo aspetto del rapporto fra i personaggi?

Quello che mi premeva prima di tutto era mettere in scena proprio questo conflitto di umanità. Che si articola su tanti livelli: quello politico, un uomo dai saldi valori democratici di fronte a dei militanti armati comunisti; quello di classe, il dirigente di una grande industria di fronte ai rappresentanti del proletariato; quello generazionale, un uomo ultracinquantenne di fronte a dei giovani che potrebbero essere suoi figli. Sono tutte contrapposizioni che giorno dopo giorno (ricordiamo che il sequestro di Taliercio durò 47 giorni, solo 8 in meno rispetto a Moro) entrano in crisi, perché l’uno e gli altri scoprono brecce nei muri che li dividono. Taliercio è cosciente della necessità di riformare lo Stato per garantire più giustizia sociale; ha conservato la consapevolezza delle proprie umili origini e conduce un’esistenza morigerata allevando 5 figli con un solo stipendio (tutt’altro che faraonico); e comprende le istanze dei giovani perché riesce a vedere in chi lo ha sequestrato le ansie dei suoi ragazzi.

Tutto ciò finisce per inquietare i brigatisti, sgretolando le loro certezze, come emerge anche dagli atti del processo. Ma, appunto, essendo prigionieri di un’ideologia perversa, compresa la militaresca obbedienza al vertice dell’organizzazione terroristica, non si ribellano alla decisione di uccidere l’uomo che aveva mostrato loro la possibilità di una diversa umanità.

Tu sai che uno dei punti del tuo romanzo che mi ha colpito di più sono le lettere di Taliercio alla moglie. Lettere immaginate, intrise di un sentimento semplice ma intenso. Come mai hai scelto questo tipo di narrazione per descrivere l’amore tra i due?

La scelta è nata mettendo insieme alcuni dati di fatto. A partire dalle numerose lettere scritte da Aldo Moro durante il suo rapimento: materiale che fu sfruttato a scopo propagandistico dalle BR. Ragion per cui mi aspettavo, accostandomi alla vicenda di Taliercio, di trovare altrettanta corrispondenza dalla sua prigionia. Al contrario! Durante i giorni del sequestro uscì dal covo brigatista solo una lettera, scritta al segretario del Sindacato Dirigenti d’Azienda. Una missiva dai toni anche formali, senza particolare pathos che potesse giovare agli obiettivi dei brigatisti. I quali, d’altronde, avevano lasciato carta e penna a Taliercio per scrivere. Pare tuttavia che questi stracciasse quello che scriveva. Ecco, questa è stata l’illuminazione. Mi sono fatto l’idea che, per sopportare quelle lunghe settimane di prigionia, Taliercio aveva bisogno di cercare sostegno in quanto aveva di più caro al mondo: da un lato c’era la sua fede cristiana e non dall’altro ma sempre dallo stesso lato c’era l’amore per la sua famiglia, in primis per Gabriella, Lella, la sua sposa. E allora l’ho immaginato giorno dopo giorno mettere su carta i suoi pensieri, la sua devozione, le sue paure e le sue speranze in un colloquio incessante con Lella. Ma per evitare che i suoi sentimenti più puri venissero anch’essi sequestrati dai terroristi, ecco che Taliercio si preoccupa di stracciare i fogli carichi di quell’amore che doveva preservare.

Quanto incide secondo te, l’Assoluto nella creazione del legame d’amore di questi sposi?

Tantissimo. Non possiamo dimenticare che Pino e Lella si erano conosciuti da ragazzi in parrocchia, nell’Azione Cattolica: erano due sposi cristiani che avevano scelto di legare le proprie esistenze indissolubilmente per tutta la vita. E non è stata una vita semplice: il loro primogenito muore appena nato, in circostanze drammatiche; hanno dovuto affrontare prove non indifferenti per la salute di Lella; e poi dal momento in cui Pino è diventato direttore del Petrolchimico sono cominciate ad arrivare a casa minacce delle Br, fino al tragico epilogo. Eppure dalle lettere che si scambiavano da fidanzati e dalle testimonianze dei figli e di chi li ha conosciuti emerge evidente la passione tenace che li univa e che si radicava in un Oltre sconfinato.

Come l’amore degli sposi Taliercio è descritto in maniera spirituale, quello fra Marcello e Nadia, i brigatisti, è intriso di fisicità: ci spieghi le analogie e differenze di queste coppie?

In realtà ci sono tante coppie in questo romanzo, anche per questo ho voluto in copertina Gli amanti di René Magritte (pittore che amo), sovrastati dalla stella a cinque punte delle Brigate Rosse: per trasmettere il concetto di relazioni amorose schiacciate dalla violenza terroristica. Ci sono Pino e Lella su tutti; poi, come giustamente notavate, Marcello e Nadia; ma pure Emilio e Martina, coppia spezzata nei sentimenti ma rimasta forzatamente unita dalla militanza armata; c’è Andrea, che alla sua Roberta non ha detto di essere entrato nelle Br, e deve tenerla lontana dal loro covo; c’è Sara che si ritrova a capo dell’Esecutivo brigatista dopo che Maurizio, il suo uomo, era stato arrestato. Sono tutte coppie separate nei giorni del rapimento, tranne Marcello e Nadia. Ed è proprio la loro fisicità, insieme a quel barlume di appagamento e di comunione di intenti – pur nella diversità di caratteri – che renderanno alla fine impossibile per Emilio lasciarsi trascinare dalla loro parte e magari salvare la vita al prigioniero. A questo proposito credo giusto sottolineare che il mio Taliercio, pur privilegiando il legame spirituale con Lella, nelle sue lettere manifesta anche pensieri legati al corpo di lei. In una arriva a chiedersi “Quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore?”. Perché quello che gli manca, quello di cui ha bisogno è di sua moglie nella piena interezza. Ciò vale pure per Emilio, che si ritrova l’anima infestata dal pensiero di Martina: in questo senso anch’egli è prigioniero, nei giorni del sequestro, di una smania che non trova pace.

Tutti i personaggi di questa storia vivono di grandi passioni e quella amorosa è tra le principali; pur se può sembrare strano in un romanzo dalle forti tinte politiche. Ma in fondo, come scrive Robert McLiam Wilson in Eureka Street, “ogni storia è una storia d’amore”.

Oh Lella cara, comincia a perdonarmi di tutto e quando ci ritroveremo faremo i conti con questa storia e ce la lasceremo alle spalle.[…]pensa al vuoto accanto a te come all’attesa di una felicità più grande, quando dentro al prossimo abbraccio troveremo il porto sicuro dopo la tempesta. Buonanotte amore mio, vivi e spera!

Pierluigi Vito, I prigionieri, Augh!, 2021 pag.27

1Il dato viene dall’Osservatorio Suicidi in Divisa (OSD) aggiornato per il 2022 ai primi di agosto: https://www.poliziapenitenziaria.it/suicidi-tra-le-forze-dellordine-e-una-strage-quasi-sessanta-dallinizio-dellanno-2022/

Casa è là fuori

Balzi Rossi, Ventimiglia – foto di Elisa Veronesi

«La casa è il respiro incessante dell’uomo»1

Viaggio nel caldo del treno, mentre fuori il mistral sbalza sulle rocce appuntite dei monti a sud ovest, e arriva mitigato sulla costa mediterranea. I gabbiani restano immobili per aria e sfruttano le correnti per poi cadere in picchiata nel grande blu. Riemergono dopo alcuni istanti, pesci azzurri nel becco, e tornano a giocare col vento.

Rientro a casa. È questo quello che dico ogni volta che devo partire, e che presuppone che io entri nuovamente in uno spazio che, per qualche ragione, chiamo casa. A prima vista rientro in un territorio, l’Italia, dove ho abitato per più tempo rispetto a quello dove abito ora, la Francia. Casa sarebbe dunque, in questo senso, una questione temporale, è il luogo nel quale ho vissuto più a lungo. Rientro poi in terre che conosco bene, nelle quali non ho continuamente bisogno di un GPS per spostarmi, per sapere quale strada imboccare. Casa come spazio riconosciuto. E rientro, infine, in una regione nella quale ancora abitano la mia famiglia, gli amici, molti conoscenti. Sarebbe dunque anche una questione di affetti familiari, la casa, quel posto nel quale vivono le persone care, o meno care, con le quali hai trascorso del tempo, hai condiviso fatti, avvenimenti. Tempo, spazio, affetti: potrebbero sembrare a prima vista ottimi indicatori che odorano di casa. E tuttavia, questi pensieri ordinari sono spesso disattesi quando in Francia mi si chiede di parlare di chez moi, perché ogni volta ne posso dire poco o niente, ogni volta spiazzata dalla domanda, mi barcameno in risposte vaghe dal sapore pubblicitario.

Il treno procede lento e oltrepassa l’assedio cittadino di Nizza. Ovunque case e palazzi risalgono la costa ben oltre Cimiez. Su questa costa rimangono tracce di antichi abitati della storia profonda, capanne e ripari che, secondo alcune ipotesi, potrebbero risalire a oltre trecentomila anni fa, quando abitare significava perlopiù ripararsi. Ma quelle tracce lasciano il dubbio di qualcosa di più antico, di preistorico. Qualcosa che, in ogni caso, modella la nostra concezione di luogo e di paesaggio in un’evoluzione che risale indietro nel tempo di oltre due milioni di anni, quando cacciatori-raccoglitori vivevano in simbiosi obbligata con i luoghi attraversati. Dall’attraversamento al riparo, dal riparo alla casa, questa geografia della diminuzione dello spazio stride, per forza di cose, con spinte evolutive differenti e che contrastano, oggi più che mai, con gli alveari cittadini nei quali buona parte dell’umanità si è rinchiusa.

Dopo una buona mezz’ora il treno oltrepassa la frontiera, riparo oggi di migliaia di persone che vi sostano sperando di raggiungere, dall’altra parte, gli affetti familiari. Fuggiti da territori che in molti casi non potevano più abitare, le loro case non ci sono più, e questa fuga verso Nord non è che l’inizio di esodi climatici che stiamo già vivendo.

Poco oltre il treno viene inghiottito dalle rocce ferrose dei Balzi Rossi, nei quali si trovano altri residui di un abitare antico. I Sapiens dell’era paleolitica, infatti, si erano installati tra queste cavità che, all’epoca, dominavano una steppa gelata attraversata da cervi e cavalli, con il mare lontano, all’orizzonte. L’uomo di Cro-Magnon vi fabbricava oggetti con conchiglie e denti di cervo, seppelliva i morti, cacciava, incideva le pareti della roccia.

«Quando la gran parte degli uomini viveva della terra, con poca mobilità, era naturale sentirsi a casa in certi luoghi. Si restava a casa, si usciva di casa, si tornava a casa – ma la casa non era un mero edificio. (…) Casa era il luogo a cui si apparteneva, e quel luogo era “parte di sé”: delimitava un sé ecologico, ricco di relazioni interne a ciò che ora chiamiamo ambiente. Oggi, però, l’umanità soffre di un processo di corrosione dei luoghi».2

Questa corrosione dei luoghi di cui scrive il filosofo norvegese Arne Næss, fondatore dell’«ecologia profonda», impedisce oggi di sapere davvero dove abitiamo, confusi da spostamenti costanti, accompagnati da tecnologie che ci permettono di essere sempre altrove, attorniati da oggetti e cibi prodotti a migliaia di chilometri di distanza.

Nel 1938 Næss costruì una piccola baita ai piedi del Monte Hallingskarvet, nel sud della Norvegia, un luogo che divenne la sua casa, estate e inverno, e che diventerà per lui un «Luogo-Persona». Il filosofo sceglie questo luogo, lo studia, lo descrive, lo percorre palmo a palmo, vi si insinua cercando di non corroderne il paesaggio, ma di abitarlo delicatamente, senza troppe scorie, riducendo al minimo i rifiuti. La sua testimonianza è preziosa perché ci dà un’idea pratica del fatto che è possibile ricostruire casa, anche altrove, anche se la nostra è andata perduta. È possibile grazie alla cura e all’attenzione che dobbiamo avere verso ciò che fino ad oggi abbiamo considerato solo come “ambiente”, mentre è molto di più, è la Terra che ci permette di camminare, sono le piante che ci permettono di respirare, gli animali nei quali possiamo riconoscerci.

Oltre a Arne Næss esistono altre testimonianze di chi ha cercato e scelto un luogo nel quale abitare in maniera ecologica, leggera, una sorta di «disabitare»3 che spesso inizia dal lasciare la città per trovare luoghi più vicini a forme di sostenibilità in grado di rispettare un equilibrio tra umano e non umano. Da Henry David Thoreau che passa due anni a Walden Pond (Walden, ovvero vita nei boschi) ai territori vasti di John Muir (Andare in montagna è tornare a casa. Saggi sulla natura selvaggia), che vanno dall’Alaska alla Yosemite Valley, dal conservazionista Aldo Leopold (Pensare come una montagna. A Sand county Almanac) con la sua capanna nel Wisconsin fino alla più recente esperienza di Mark Boyle, il quale nel 2013 trova quella che diventerà la sua nuova casa nell’ovest dell’Irlanda. Oltre ad un abitare ecologico Boyle deciderà di sperimentare una vita completamente senza tecnologia e racconterà la sua storia nel libro Tornare a casa. Cronache da una vita senza tecnologie.

Fuori dalla wilderness americana, nella quale spesso si privilegiano esperienze di singoli individui che migrano altrove, in spazi aperti e immensi nei quali è ancora visibile una natura selvaggia, ci sono esperienze comunitarie che è possibile osservare ad altre latitudini, per esempio in Asia, dalla Thailandia al Vietnam e delle quali racconta l’antropologo Andrea Staid in un bellissimo libro che si intitola La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire. Quello che interessa Staid sono proprio le esperienze comunitarie di costruzione delle case, che spesso sono esperienze autogestite e acquisiscono un valore simbolico importante: il più delle volte, infatti, è un paese intero, o comunque i vicini, a impegnarsi nella costruzione della casa di una famiglia. Al netto di pubblicità immobiliari che poco ci aiutano in questo senso, in quanto riducono la casa a semplice bene di consumo o di grattacieli green che sono una soluzione solo per i pochissimi che possono permetterseli, l’antropologo si sofferma invece su un altro valore che si dà oggi alla propria casa, per rintracciare le connessioni che questa assume con il fuori e con le abitazioni vicine.

La casa mononucleare, idolo di un capitalismo che ha assunto l’individualismo a sola regola da seguire, è ormai un abitare pesante in termini di materiali e di non-rapporti che si instaurano con ciò che ci circonda. È, insomma, una casa troppo pesante per una Terra resa ormai fragile dalle attività dell’umano.

Queste esperienze comunitarie purtroppo in Occidente sono complicate dalle norme burocratiche degli Stati che impongono regole ai singoli e rendono molto difficile la progettazione e l’adesione comunitaria dal basso, con le conseguenze che questo comporta per esempio nella gestione delle ricostruzioni dopo i terremoti o le alluvioni, ricostruzioni interminabili che obbligano le persone o ad andarsene o a vivere per decenni dentro a orrendi prefabbricati. Staid ribalta la prospettiva occidentale dell’abitare facendo l’esempio della sicurezza, un tema spesso molto sentito nelle città e nelle periferie:

«in una società in cui il soggetto si riconosce nella sua comunità (pur con tutti i problemi relativi al controllo che ciò comporta), l’apertura della porta di casa è qualcosa che fa sentire sicuri. Se si sta male, qualcuno può entrare ad aiutare, se si ha bisogno di qualcosa si può accedere a chiedere. Il nostro concetto di sicurezza, così come quello di casa, sono relativi ed esprimono una precisa organizzazione biopolitica dell’esistente»4.

Ripensare la casa, insomma, alla luce della società è un’urgenza assoluta di questa nostra epoca. Tanto più che, come dice Greta Thunberg, la nostra casa, quella di tutti, è in fiamme:

«quando la vostra casa è in fiamme, non vi sedete a parlare di come potrete ricostruirla per bene quando avrete domato l’incendio. Se la vostra casa è in fiamme, correte fuori e vi assicurate che siano tutti in salvo mentre chiamate i vigili del fuoco. Per farlo ci vuole un certo grado di panico».5

Per ripensare come abitare occorre sapere prima dove abitiamo, occorre tornare a guardare e a camminare, occorre aprire la porta di casa e uscire. Assottigliare queste mura che ci circondano per farle assomigliare a una spessa tenda di lana che trattiene la pioggia e ripara dal sole. Passare del tempo in altitudine in rifugi dove l’abitare si fa essenziale, senza sprechi.

E mentre ripenso al mio tornare a casa, il treno continua la sua corsa lenta risalendo gli Appennini verso Nord, e mi accorgo che questo movimento che mi porta verso casa vale anche in senso inverso, al ritorno, quando prendo il treno per, ancora una volta, tornare a casa. «L’insegnamento che proviene dalla geografia è che abitare non significa risiedere sempre nello stesso luogo, ma fare propri i luoghi nel movimento; solo così è possibile arricchire insieme sé stessi e i territori che si attraversano»6.

Anche al ritorno, dunque, entro nuovamente in uno spazio che, per qualche ragione, chiamo chez moi, in Francia. È un aller-retour da casa a casa, tra due spazi aperti comunicanti tra loro e in mezzo ai quali attraverso territori che, come le radici degli alberi, sono rizomi complessi e stratificati di storie e memorie da abitare.

1Hajo Eickoff, Casa, in C. Wulf – A. Borsari (a cura di), Le idee dell’antropologia, vol.I, Milano, Mondadori, 2022, pp.217-227.

2Arne Næss, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, Piano B, 2021, p.29.

3 A proposito del concetto e della pratica del «disabitare» si veda il saggio di Matteo Meschiari, Disabitare. Antropologie dello spazio domestico, Meltemi, Milano, 2018.

4 Andrea Staid, La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire, add editore, Torino, 2021, p.10.

5Greta Thunberg, La nostra casa è in fiamme, Mondadori, Milano, 2020, p. 284.

6 Telmo Pievani, Mauro Varotto, Il giro del mondo nell’Antropocene. Una mappa dell’umanità del futuro, Raffaello Cortina, Milano, 2022, pp.38-39.

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