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È già la quinta volta che il signore mi passa davanti. Quando sono arrivata, l’ho trovato in piedi di fronte al muro, intento a fissare l’unico orologio appeso alla parete. Forse avrei dovuto dirgli che era rotto, ma ho preferito farmi i fatti miei, tanto prima o poi se ne sarebbe accorto. Una volta appurata l’immobilità delle lancette, ha abbassato lo sguardo a terra e si è messo a camminare per il corridoio, percorrendolo da un capo all’altro in modo lento e costante. Lo guardo mentre si allontana per l’ennesima volta, ancora una manciata di passi e avrà raggiunto la fine, poi si girerà, e ricomincerà daccapo. Controllo il cellulare: le 16:31, c’è ancora tempo, l’orario delle visite termina alle 18:00. Guardo la porta chiusa, il vetro spesso e opaco che preclude la vista alla stanza e al suo contenuto, limitandosi a restituire il riflesso scuro della mia sagoma. Cerco di captare un minimo fremito dell’anta, come se, da un momento all’altro, dovesse spalancarsi e risucchiarmi dentro. Ma non succede nulla, la porta rimane immobile, e io faccio lo stesso, i nervi contratti. La bambina, invece, sembra piuttosto tranquilla. La scruto attraverso il riflesso della porta, mentre si guarda intorno, a separarci solo il vuoto di una sedia. Non ricordo se fosse già lì quando sono arrivata, ero distratta dal signore e dall’orologio. So solo che, a un certo punto, ho alzato lo sguardo e lei era nel riflesso. 

Sento i suoi occhi addosso, prima o poi inizierà a fare domande a cui non ho nessuna voglia di rispondere, per cui mi preparo mentalmente. «Quand’è che ci fanno entrare?» sbuffa a un certo punto, arricciando le labbra e gonfiando le guance, le manine che sorreggono la testa piena di ricci scomposti. «Tra un po’», le rispondo, anche se dalla faccia che fa capisco che la mia risposta non la soddisfa. E infatti, poco dopo, riparte alla carica: «Tra un po’ quanto?» Stavolta sono io quella che sbuffa. «Non lo so. Tra un po’». Mio padre dice che sarei una madre fantastica, se solo non fossi così insofferente. Quando ribatto che di figli non voglio saperne, mia madre mi guarda come se avessi proferito la più ignobile delle eresie. «Non lo dire neanche per scherzo!» È ancora convinta che, prima o poi, cambierò idea. 

La bambina dondola i piedi avanti e indietro, le punte delle scarpe bianche di tela non arrivano a toccare il pavimento. La maglietta rosa e i pantaloni con la fantasia a fiori la fanno sembrare ancora più pallida di quello che è, mentre gli occhiali tondi con la montatura azzurra scivolano in basso, tanto che deve continuamente arricciare il naso per sistemarseli. Sembra uscita da una delle foto che troneggiano sul mobile principale del salone dei miei, che per mia madre costituisce una delle tappe fondamentali di ogni tour della casa che si rispetti. Il suo vanto. Anche se, più guardo quella specie di sgorbietto con gli occhiali e i capelli in disordine, meno mi sembra ci sia qualcosa di cui vantarsi. Mia madre mi dice sempre che sono troppo dura, soprattutto con me stessa, e probabilmente ha ragione. Però, se avessi una figlia, le insegnerei perlomeno a sistemarsi gli occhiali senza farsi venire quell’odioso tic al naso, mostrandole come premere delicatamente la punta dell’indice sul ponte della montatura.

Mi accorgo che la bambina inizia a dare segni di impazienza, dondola le gambe con più forza, l’espressione stizzita e sofferente. «Voglio entrare!» dice con voce lagnosa, io tiro fuori il cellulare dalla borsa e faccio finta di rispondere a un messaggio, sperando che, a furia di ignorarla, prima o poi si stancherà. Ma quella non molla. «Io voglio entrare ora!» continua a ripetere, ha un timbro nasale che mi dà ai nervi. Cercando di non perdere la calma, le rispondo con una voce che non sembra neanche la mia: «Lo so, ma dobbiamo avere pazienza. Quando tocca a noi, ci chiamano e ci fanno entrare». La bambina sbuffa senza sosta, continuando quel suo dondolio frenetico, finché a un certo punto non sento le oscillazioni rallentare. Dal riflesso della porta, la vedo alzarsi in piedi e iniziare a esplorare il corridoio: ecco, brava, fatti un giro, basta che mi lasci stare. Ogni tanto, butto un occhio per accertarmi che sia ancora nei paraggi, quando muovo la testa gli occhiali scivolano leggermente verso il basso. Quasi senza rendermene conto, arriccio il naso per farli risalire, ma mi correggo subito e li risistemo con la punta dell’indice. In quel momento, noto che la bambina mi sta imitando. Ha smesso di frignare, addirittura canticchia e si guarda intorno con aria allegra, accennando piccoli saltelli. 

Continuo a dirmi che sono contenta di non volere figli, anche se poi penso subito a mia madre, e mi sento in colpa.

Nel frattempo, il signore si è seduto, il busto piegato in avanti, le mani che reggono la fronte e tutto il peso invisibile che la testa fatica a contenere. Vorrei dirgli che lo capisco, questa attesa che sfianca i tendini e lo stomaco, ci lega come fratello e sorella, ma proprio quando sono sul punto di alzarmi e andare da lui, ecco che il corpo si indurisce di nuovo, inchiodandomi al mio silenzio. Da quando ho ricevuto la telefonata, non ho più voglia di parlare con nessuno. Ho diverse notifiche su whatsapp che continuo a ignorare, di gente che mi chiede come sta mia madre, e io non so cosa rispondere. Torno a fissare la porta chiusa e mi chino in avanti, premo con forza gli occhiali sul naso come se, in questo modo, potessi andare oltre il mio riflesso, e raggiungere la donna dall’altra parte del vetro, quella che nella foto sorride verso l’obiettivo, stringendo a sé la bambina con la maglia rosa e i pantaloni a fiori. 

Come stai, mamma? Guarda chi è venuta a trovarti, in questo limbo asettico dove il tempo si ferma e addirittura rompe gli orologi. C’è tua figlia, tutta spettinata, che gira per il corridoio come se fosse al parco, ma tu non la sgrideresti mai per questo. Vuole vederti e sentirti dire che l’operazione è andata bene, che tra pochi giorni ti dimetteranno e che presto sarai di nuovo a casa con lei. Non sa ancora che non le sarà permesso entrare, nemmeno affacciarsi alla tua stanza, tanto tu non potresti vederla né sentirla. Potrebbe mettersi a urlare e piangere fino a farsi sanguinare la gola, non servirebbe a niente. Ti dico sempre che non voglio figli, ma se ne avessi, farei di tutto per non fargli oltrepassare mai quella soglia. E so che anche tu faresti lo stesso, se potessi scegliere. Guardala adesso, tua figlia, una scarna impalcatura di nervi pronta a crollare da un momento all’altro, lo sguardo fisso a una porta chiusa, mentre continua imperterrita a ignorare i messaggi che chiedono di te, perché tutti si aspettano buone notizie, e lei non vuole dire che non ne ha. Preferisce procrastinare, sperando in un responso diverso da parte del medico che in questo momento ti controlla i parametri, interpretando la lingua inconfutabile delle macchine che ti tengono in vita. 

La bambina è tornata a sedersi, ora non dice una parola, il suo silenzio è strano, mi mette a disagio. La porta continua a restare chiusa, più la guardo e più mi sembra un miraggio, un pianeta che nessuno ha ancora osato esplorare. Vorrei alzarmi in piedi e toccare quella superficie opaca, per essere sicura che ci sia davvero, ma non lo faccio, per lo stesso motivo per cui non parlo e mi arrendo all’attesa. Perché, finché aspetto, so di avere ancora una madre. Se me ne sto qui, zitta e buona in questa anticamera d’inferno, mia madre è ancora la donna che mi abbraccia nella foto. Finché non rispondo ai messaggi, non devo dire a nessuno della telefonata di papà, quella in cui mi dice che l’operazione è andata per le lunghe, che ci sono state complicazioni. Che mamma si sarebbe dovuta svegliare, e invece no. Non ancora. Dobbiamo aspettare, sperare, al massimo. In effetti, la colpa un po’ è anche mia. Ero pronta a ricevere solo buone notizie, le stesse reclamate dalle notifiche sull’icona verde di whatsapp. Che gli rispondo, mamma? In questo momento, saresti l’unica in grado di capirmi, e infatti il tuo posto non è al di là del vetro, ma nel riflesso, nel vuoto della sedia accanto alla mia.

Lo sguardo della bambina è un piede premuto sullo sterno, mi toglie l’aria. Non mi guardare, vorrei dirle, vattene via, torna nella foto, torna da tua madre. Tu che puoi. Mi bruciano gli occhi, mi tolgo gli occhiali, premo le dita contro le palpebre chiuse per ricacciare l’agonia tra stomaco e costole, come quando uno sa che deve vomitare ma si trattiene finché la gola non è in fiamme. Se proprio devo piangere, voglio farlo nella stanza. Perché, se piango una volta dentro, mia madre dovrà svegliarsi per forza: con la bambina ha sempre fatto così. Se invece piango qui, in questo corridoio, lei non mi sentirà, e allora poi non si sveglierà più, e sarà tutta colpa mia. Devo resistere finché non sarò ai piedi del suo letto, solo allora potrò concedere all’angoscia di spezzarmi le gambe e tirarmi fuori tutti i pensieri a cui ho il terrore di dare forma. Mia madre si alzerà e verrà verso di me, per dirmi che certe cose non si dicono neanche per scherzo. Allento la pressione sulle palpebre, a poco a poco mi calmo e mi rimetto gli occhiali.

La porta si apre e mi coglie impreparata. Mi alzo di scatto, i nervi tremano ma non crollano, non ancora. A pochi passi dalla soglia, mi giro verso la bambina: al posto dei suoi occhi ingranditi dalle lenti trovo quelli acquosi del signore del corridoio. Mi regala un sorriso disfatto, io provo a ricambiare, senza riuscirci. Vorrei dirgli che mi dispiace, ma invece non dico niente, perché non c’è niente da dire. Guardo un po’ più su, dove c’è l’orologio, ed è come se la lancetta dei minuti stia avendo uno spasmo. Arriccio il naso per vederci meglio, ma è solo un’impressione. Entro nella stanza, la porta si richiude alle mie spalle senza fare rumore. 

Autore

Dafne Graziano
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