Foto di Barbara Bernardini

Forse la più antica manifestazione della magia sulla terra è la fotosintesi o così dovrebbe apparire, a dei mammiferi come noi, la capacità delle piante di ricavare il proprio nutrimento, e quello di tutte le altre forme di vita, a partire dall’anidride carbonica e dall’acqua col solo innesco della luce.
Ecco, ma io, oltre a rimanerne stupefatta e ammirata, non so dire altro, quindi chissà perché sia partita proprio da questo aspetto per parlare di luce e piante, quando in realtà sarebbe stato più preciso dire un’altra cosa: la più antica manifestazione della bellezza sulla terra riguarda le piante e la luce.
Chissà quante paia d’occhi (e anche qualche occhio singolo) siano rimaste incantate davanti a come la luce riflette sulle foglie e come le attraversa; come illumina e rende attraenti i fiori; come stimola e indirizza la crescita dei rami e dei fusti, verso l’alto, alla ricerca del sole, in forme spesso così intricate e affascinanti; come filtra attraverso le chiome, illuminando il sottobosco con pochi, netti raggi che tagliano l’ombra buia.
Noi animali non siamo altrettanto belli, al sole. Forse giusto quelli con le piume, loro un poco – perfino le galline acquisiscono un leggero fascino al sole, quando si accendono i riflessi nascosti del piumaggio e creste e bargigli diventano rosso fuoco –, gli insetti iridescenti, i pesci con le squame dai riflessi metallici; ma gli animali pelosi, umani compresi, un po’ ne soffrono.

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Tranne al tramonto: i tramonti sono indulgenti con chiunque e con qualunque cosa, anche con un sasso, e rendono d’oro quel che rimane del giorno, e della nostra pelliccia di scimmie. A guardarle da vicino, queste pelurie sono così simili a quelle dei fusti e delle foglie dei pomodori, o delle melanzane: donano un contorno luminoso alle sagome, come fossimo vestiti dell’abito migliore a nostra disposizione.
Mi piace starmene nell’orto al tramonto e aspettare lì che faccia sera: guardando rasoterra, con i raggi del sole sempre più bassi e quasi paralleli al terreno, che passano attraverso le foglie dei piselli, illuminando i fasci vascolari, o attraverso i fiori, rendendo giustizia alla perfezione anche di quelli più minuti. È in quel momento che capisci che è vero quanto dice Michael Pollan: Non penso che sia possibile comprendere la forza gravitazionale della bellezza senza aver capito il fiore, perché è stato il fiore a introdurre nel mondo l’idea di bellezza1.
Aggiungerei: non penso sia possibile capire la forza gravitazionale della bellezza finché non si osserva attentamente un fiore controluce, al tramonto, o meglio: finché non si osserva il tramonto, attraverso un fiore.

Foto di Barbara Bernardini

Durante il giorno, soprattutto ora al principio dell’estate, la luce del sole è quell’impietosa presenza a picco sulle nostre teste e il tempo sempre più lungo in cui aspetto la sera è impegnato nel trovare riparo: l’ombra più accogliente, d’estate, è quella delle chiome degli alberi. Durante il giorno, la luce è roba da boschi il più fitti possibile.
Ma anche d’estate arriva il tramonto: è la tregua.
Man mano che il sole diventa meno crudele si concede anche alle pianticine più minute accendendo dei dettagli che altrimenti ci sfuggono; alle graminacee già secche nei prati, poco più che erbacce che all’improvviso diventano d’oro; agli ulivi, con le loro chiome che poca ombra possono fare, durante il giorno, soprattutto negli anni come questo in cui li potiamo in modo più invasivo, ma che a quest’ora sfoderano il lato argenteo delle foglie, piccole e strette, lucide come alici che si muovono in branco, cambiando direzione tutte insieme a ogni colpo di vento.
Poi pian piano il sole scompare del tutto sotto l’orizzonte, rimane la luce del crepuscolo, sempre più rosa e finalmente delicata da questo lato della terra: è l’atmosfera a darle colore, mentre la tiene sospesa ancora un po’, fra aria, vapore e pulviscolo. Le sagome degli alberi che finora avevano dato riparo diventeranno nere, i piccoli fiori bianchi dei fagiolini conserveranno un loro bagliore notturno, li vedo, ancora, fra le foglie scure. Le cicale e i colombi che tacciono dopo una lunga giornata di insistenza, e i merli che invece diventano improvvisamente ciarlieri – chissà poi se succede così solo a quelli che vivono qui o se è un’abitudine di tutti questi neri pennuti: ecco una cosa che vorrei sapere e che non so, mentre mi trovo sempre a conoscere opinioni di cui farei a meno, che piccola ingiustizia, questa, in un mucchio di grandi ingiustizie.
Infine, quando del sole resta solo il riflesso sulla luna e su Venere – eccolo lì, è già nel cielo poco più su nella direzione in cui è appena scomparso il sole, sempre a ovest –, diventano visibili anche le prime stelle: la loro luce che per millenni ha attraversato lo spazio vuoto, più buio e freddo pensabile – Una luce che da lontano entra negli occhi / Dove inizia prima che lei possa vederla / Arde attraverso le parole a cui nessuno ha creduto, c’è scritto in una poesia di W.S. Merwin2 – per poi arrivare qui flebile e soccombere vicino al lampeggiare di qualche insegna.
Di notte è ancora la luce a dare un senso di casa: so riconoscere poche costellazioni, ma quando appare l’orsa maggiore sento come di aver ritrovato la via dopo un lungo vagare senza direzione, questa sagoma materna, così semplice da individuare anche per me, che poi confondo tutto il resto.
È dall’orsa maggiore che parto per trovare poi la stella polare: la luce che vedo quando la guardo è nata da un suo respiro di quattrocentocinquanta anni prima. E non è un modo poetico di raccontarla: Polaris, gigante gialla, respira, pulsa, si espande e poi si contrae nuovamente, aumentando massa e luminosità ogni circa quattro giorni.
La luce degli astri è qualcosa per cui ho una sorta di rispetto religioso, la riverenza del trovarmi di fronte a forze fuori dalla nostra portata, indifferenti ai nostri errori, lontanissime e intoccabili, a cui possiamo avvicinarci solo con la speculazione matematica.
Su tutte, certo, è la luce del sole a stupirmi di più: il privilegio di essere capitata su un pianeta così vicino a una stella, non troppo da bruciare, ma abbastanza affinché prendessero vita le forme vegetali, dalle più minuscole a quelle più complesse, tutte in grado di ricavare dal sole nutrimento e meraviglia. L’alternativa era il nulla, vuoti e pieni di sola materia senza vita: a proteggerci da qualcosa che somiglia così tanto alla morte c’è un sottile guscio composto dall’elemento più impalpabile che esiste, l’atmosfera, un leggerissimo involucro di gas che separa questa palla di roccia dal nulla.

Foto di Barbara Bernardini

Non è solo stupore, è anche la fiducia, finora sempre ben riposta, che questa immutabile forza che parte dal sole, e in circa otto minuti e mezzo arriva ai miei occhi, continuerà a farlo almeno finché avrò un minimo di capacità visiva o di sensibilità per sentirla sulla pelle: quali altri eventi potrebbero mai darmi un conforto così assoluto, se non i tramonti, quei momenti in cui la luce del sole festeggia la sua presenza?
Cosa può andare storto quando in giro c’è così tanto splendore? Cosa può accadere di irrecuperabile finché so di poter aspettare la sera con questo rituale affidabile, prevedibile nel progredire delle stagioni? Arriveranno i tramonti d’autunno, i miei preferiti, quelle sere in cui nell’aria si muoverà l’odore di terra bagnata a dire di stare tranquilli, tutti, perché da qualche parte starà piovendo. E poi ancora un giro completo, attraverso inverno e primavera e di nuovo estate. In un clima con delle stagioni così impazzite, l’arco del sole e il mutare della sua luce durante l’anno rimane un punto fermo mentre tutto il resto vacilla.
Mi rassicura il tramonto perché è una festa della bellezza, questo scintillare del giorno proprio mentre ti sta dicendo addio, che inevitabilmente porta al culmine della meraviglia qualcosa solo quando stai per perderlo: un’atmosfera gioiosa ma già nostalgica, già consapevole del distacco. Io sono una che si strugge nei ricordi, capita, eh, è che nel tramonto succede per davvero quanto scrive Gianni Celati, quando dice che Le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per avere luogo nei nostri occhi3: le cose del mondo esistono in quel momento in una loro forma perfetta, aurea, sono lì fuori che navigano nella luce e, insieme, dentro di me, dando anche a queste mie retine e a questa mia testa un momento di perfezione in cui posso essere indulgente con tutte le mie mancanze, in cui posso ritrovare anche in me una bellezza sfolgorante, un mio stare fra le cose del mondo finalmente sensato. Prima di scomparire, lentamente, con il procedere del buio.

1 Michael Pollan, La botanica del desiderio, trad. di Giuditta Ghio, il Saggiatore, Milano 2005

2 W.S. Merwin, L’essenziale , trad. di Chandra Candiani, Ubiliber 2022

3 Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989

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Barbara Bernardini
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Barbara Bernardini è nata e vive da sempre in provincia di Latina. Laureata in Sociologia, lavora in editoria da quasi vent’anni: ora è responsabile dei corsi di formazione per la casa editrice minimum fax. Cura una newsletter, Braccia Rubate, che parla di orto e lune nuove.
Il suo primo libro è Dall'orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica (nottetempo 2023).