C’è un disco che viene pubblicato nel 1975: nella sua versione originale è composto da due vinili su cui sono incise distorsioni che non seguono alcun ritmo o melodia, una cacofonia che non lascia scampo e che sembra una provocazione fine a sé stessa. Per dirla con le parole di Lester Bangs, critico musicale tra i più bizzarri e influenti del periodo, “stiamo parlando di due dischi che durano un’ora e non contengono altro che rumori di feedback a palla registrati a varie frequenze, messi come sottofondo di altri strati di rumore, divisi a metà in due canali totalmente separati di strilli e sibili del tutto inumani e venduti a un pubblico che, per dirla all’acqua di rose, non era preparato a una cosa del genere.” [1]
Quel disco è Metal Machine Music di Lou Reed: lo stesso di Perfect day, Walk on the wild side o Sally can’t dance, ma anche dei Velvet Underground, che col loro suono sporco e dissonante hanno aperto la strada a decine di band punk, noise e shoegaze. Come suona? Le parole di Lester Bangs sono ancora perfette, riuscendo benissimo a mettere per iscritto un’imitazione fedele di tutto quel frastuono: “ZZZZZZZRRRRRRRREEEEEEEEEEGGGGGGGGGRRRRRAAAAARRRRRRRRGGGGGGGGHHHHHNNNNNNNNNNNIIIIIIIIIIEEEEEEEERRRRRRRRRRRRRR…” [2] – e così a oltranza, per un’ora circa.
Ecco, quando penso al rumore questo è il primo riferimento che mi viene in mente: qualcosa che infastidisce, una frequenza che si insinua nella testa e butta all’aria pensieri e concentrazione; un rimbalzo sonoro che richiama tutta l’attenzione su di sé, al solo scopo di farsi detestare dal malcapitato ascoltatore.
Andando indietro nel tempo, già in uno scritto di Claude Lévi-Strauss di metà anni Sessanta si parlava degli strumenti del rumore come di “strumenti delle tenebre” [3], mettendo in opposizione baccano e fetore nello studio di miti e rituali del Sud America, dell’Europa e fino alla Cina.
Ma proseguire in questa direzione sarebbe ingiusto. Quest’introduzione a effetto è esagerata: qualche riferimento musicale di nicchia, qualche citazione altisonante. Pensare al rumore solamente a questo livello di percezione sarebbe troppo superficiale. Per provare a fare un salto di qualità sfrutto ancora una frase tratta da una recensione del solito Metal Machine Music, stavolta apparsa sulla rivista Rolling Stone al momento dell’uscita del disco: quei suoni atroci venivano descritti come qualcosa di paragonabile al “gemito di un frigorifero galattico” [4].
Qui è l’aggettivo “galattico” che mi colpisce e attiva connessioni con rumori altri: da una visione (o audizione?) assordante, terrena e terrestre mi proietta in un universo etereo e stellare, appartenente allo spazio più profondo. Che rumore fanno i pianeti? I buchi neri? I satelliti? Il sole? Una risposta parziale la trovo nello Space Project, una raccolta musicale in cui alcuni artisti sono stati chiamati a scrivere canzoni a partire da materiale registrato dalle sonde spaziali Voyager 1 e Voyager 2, lanciate in orbita dalla NASA nel 1977. La sorpresa è scoprire che il rumore della galassia è un rumore immaginato: le frequenze udibili non possono propagarsi nel vuoto dello spazio, per cui le registrazioni delle sonde Voyager non sono suoni in senso convenzionale, ma sono prodotte “dalle fluttuazioni della radiazione elettromagnetica nella magnetosfera dei corpi celesti studiati dalle sonde” [5][6]. Che vuol dire? Che fruscii, sibili, sfrigolii, soffi di vento non sono altro che riverberazioni dell’esistenza fisica di pianeti e stelle. Come fossero un rumore radioattivo, l’intermittenza di un neon, il tremolio dell’aria intorno a una centrale elettrica.
Questo rumore cosmico lo immagino agli antipodi rispetto a quello terrestre: è un rumore che si muove sullo sfondo, si insinua nella mente e si stende come un tappeto sonoro sulle pareti del cranio, un po’ ovatta e un po’ rimbombo. È il rumore di un immaginario intergalattico che ha trovato nel tempo numerose incarnazioni terrestri, ma che per me avrà sempre le sembianze di Sun Ra: un ragazzone nero cresciuto nell’Alabama di fine anni Quaranta, con un talento per la musica jazz d’avanguardia e l’estetica di un mistico afrofuturista. “«Rumore» era una delle prime parole che venivano in mente a chi ascoltava l’Arkestra di Sun Ra negli anni Sessanta” [7], si legge nella sua biografia: il rumore come connessione ancestrale tra le persone, siano esse provenienti da una provincia statunitense o da un anello di Saturno.
E come suonava questo rumore? Prendo ancora in prestito parole altrui per provare a rendere l’idea di un’esperienza sensoriale totalizzante. “Lo spazio era il luogo. Rumore e silenzio si scontravano nel vuoto; gli strumenti delle tenebre strillavano, rimbombavano, pulsavano: multifonici di oboe e ottavino, rulli di timpano, piatti a spirale campane tamburi-drago tamburi-tuono distorti dall’eco, agglomerati di flauti tremolanti ed eterodinanti, celestiali passi elettronici di angeli che danzavano su una marimba bassa, violoncello-colibrì, sassofoni e clarinetti bassi che eruttavano ruggiti da scimmie urlatrici, plastica estrusa per esplorare lo spazio cosmico, cabine di pilotaggio efficienti e aerodinamiche di Clavioline, Rocksichord, organo Farfisa, piano elettrico Fender Rhodes, Hohner Clavinet e sintetizzatore Moog. Una colonna sonora per letture pentadimensionali di fumetti e riviste di fantascienza di metà Novecento come «Fantastic Adventures», «From Unknown Worlds», «Wonders of the Spaceways» e «Tales of Tomorrow».” [8]
Livello di confusione: elevato. Livello di estasi: ancora di più, se possibile.
La cosa buffa del rumore è che diventa tale sfruttando i nostri corpi: una musica ad altissimo volume, un rombo, un’esplosione, un tonfo sordo: il rumore ci attraversa, ci facciamo per lui cassa di risonanza, e poi… cosa rimane? A volte un leggero giramento di testa, altre volte un disorientamento diffuso, altre ancora un senso di sintonia con il tempo e lo spazio che ci circondano. Ci restano addosso delle tracce fisiche, come con le bolle di sapone che ci scoppiano in faccia. Il mio preferito è il fischio nelle orecchie. Mi piace pensare che quel fischio sinusoidale sia un qualcosa che emettiamo a nostra volta verso l’esterno: come se il rumore che ci ha attraversato fosse rimasto impigliato nel nostro corpo, e poco alla volta se ne uscisse soffiando e sfregolando e frusciando, tentando di assomigliare alla scia bavosa di una lumaca o alle nuvolette di vapore davanti alla bocca che si formano quando parliamo e l’aria è troppo fredda.
Ma torno a ripensare al cosmo, e a tutto questo rumore che si muove dallo spazio profondo fino alla Terra come fosse una specie aliena, un virus a forma di suono in cerca di un ambiente in cui installarsi. Nuove fascinazioni che alimentano un volo pindarico che mi fa atterrare su certa musica elettronica ambient, in cui la ricerca della riproduzione della natura passa attraverso le macchine: non più le macchine generatrici di suoni metallici come in Metal Machine Music, ma macchine che masticano frammenti digitali di polvere, vento, acqua, e li mescolano dentro bit, algoritmi, progressioni matematiche. È in certa musica ambient che il rumore diventa artefatto digitale, e in un certo senso alieno.
Per scrollarmi di dosso mille suggestioni non posso fare altro che nominare il trittico composto da Aphex Twin, Autechre e Boards of Canada, un triangolo perfetto di artisti che incarnano, parafrasando in una riga tutto ciò che straborda da Exmachina di Valerio Mattioli: giochi di prestigio e bizze istrioniche; austerità digitale e progressioni generative; tepore analogico e umanesimo nebuloso. [9]
C’è rumore? Oh, sì. Tutto quello che uno può desiderare – oppure evitare, a seconda dello stato d’animo del momento: cosmico, anarchico, fastidioso, aritmico, ripetitivo, sintonizzante, naturale nella sua artificiosità.
Perché il rumore, come un organismo alieno o naturale che sia, si attacca e si adatta: a persone diverse; a esperienze diverse; a contesti diversi. Ed è capace di nascondere armonia e pace all’interno della propria apparente dissonanza.
Fin qui ho deciso che il rumore è prerogativa dell’udito. Ma chi lo dice? Tutti i sensi possono essere agitati da qualcosa di anomalo e inaspettato: un glitch in un’immagine digitale o un graffio in una pellicola; una superficie irregolare che si fa estranea al tatto; un’interferenza odorosa tra un respiro e l’altro; un sapore inaspettato che inquina un’armonia gustativa. Questo stesso articolo, in fondo, è imperniato di rumore: non scorre liscio, la lettura non è lineare, si salta di palo in frasca creando connessioni precarie e pretestuose. Dove sta la linea di demarcazione tra fastidio e sintonia? Cosa ce ne facciamo di tutti questi rumori? Li abbracciamo o li repelliamo? E come si esce da questa successione sconclusionata di pensieri?
Potrei usare un piccolo stratagemma, rivelando un segreto. Io di solito mi appello a un mantra, inteso come pensiero che offre protezione, che mi ripeto mentalmente ogni volta che le domande diventano troppo rumorose e che le interferenze sono a un passo dal mandare in tilt l’intero sistema. Sono le parole di una canzone di Nicolas Jaar [10]. Space is only noise if you can see. Grab a calculator and fix yourself. Grab a calculator and fix yourself. Sintonizzano il rumore con lo spazio, con la memoria, con la vista, con il corpo. Space is only noise if you can see. Mettono insieme suono terreno e riverbero cosmico. Space is only noise if you can see. Soffiano via la foschia e rendono docili tutti i rumori dell’universo. Space is only noise if you can see. Tengono i nostri piedi ben piantati a terra, prima che la gravità sparisca di nuovo. Space is only noise if you can see.
Note bibliografiche
[1] Lester Bangs, “Guida ragionevole al frastuono più atroce”. Trad. it. Anna Mioni. minimum fax, 2018.
[2] Idem.
[3] Claude Lévi-Strauss, “Dal miele alle ceneri”. Trad. it. Andrea Bonomi. Il Saggiatore, ed. 2023.
[4] James Wolcott, “Metal Machine Music”. Recensione su Rolling Stone, 1975. Link: https://www.rollingstone.com/music/music-album-reviews/metal-machine-music-99547/
[5] NASA, “Voyager. Interstellar Messengers”. Link: https://science.nasa.gov/mission/voyager
[6] Nick Neyland, “Space Project”. Recensione su Pitchfork, 2014. Link: https://pitchfork.com/reviews/albums/19271-space-project/
[7] John F. Szwed, “Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra”. Trad. it. Michele Piumini. minimum fax, ed. 2024.
[8] David Toop, “Oceano di suono. Musica ambient e ascolto radicale nell’era della comunicazione”. Trad. it. Michele Piumini. add editore, 2023.
[9] Valerio Mattioli, “Exmachina. Storia musicale della nostra estinzione 1992 → ∞”. minimum fax, 2022.
[10] Nicolas Jaar, “Space is only noise if you can see”. Brano tratto dall’album “Space is only noise”, Circus Company, 2011. La parte del testo citata, tradotta in Italiano, fa più o meno così: “Prendi una calcolatrice e sistemati / Lo spazio è solo rumore se si può vedere”. Ma l’interpretazione può andare in una direzione più o meno evocativa: “fix yourself” si può intendere anche come “aggiustati, riparati, mettiti a posto”, e il “calculator” può essere più genericamente una “macchina”; “if you can see”, d’altro canto, può indicare un’attitudine: “se riesci a vedere, se ne sei capace”.
Altri suggerimenti di lettura
Mariana Branca, “Non nella Enne non nella A ma nella Esse”. Wojtek edizioni, 2022.
Don DeLillo, “Rumore bianco”. Trad. it. Mario Biondi. Giulio Einaudi editore, ed. 2014.
Mark Fisher, “Scegli le tue armi. Scritti sulla musica K-Punk/3”. Trad. it. Vincenzo Perna. minimum fax, 2021.
Pauline Oliveros, “Deep Listening. La pratica sonora di una compositrice”. Trad. it. Diana Lola Posani. Timeo, 2023.
Autore
Nicola Casucci
Nicola Casucci vorrebbe avere una biografia pronta per ogni occasione, ma non è a suo agio a mostrarsi in un elenco di (belle) esperienze. Preferisceandare in giroad ascoltare i dialoghi dei passanti,a canticchiareuna musica di sottofondo,aleggere una storia,afar tintinnare il ghiacciodiun gin tonic.