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Orizzonte

La mia insegnante di lettere del liceo era considerata una zitella un po’ inacidita ma ancora irrimediabilmente romantica. Era vicina alla pensione e alla ricerca dell’amore nonostante ogni evidenza della sua vita le dicesse che era ora di arrendersi. Questo almeno era quello che vedevamo noi, sciocchi adolescenti che della vita non avevano ancora sperimentato granché e sicuramente capito niente. La vita di quella donna traboccava d’amore. Quanto ad arrendersi, non ne aveva la minima intenzione. Affrontava ogni giorno con un coraggio che a ripensarci oggi mi abbaglia.

Scoprimmo la sua storia una mattina che in classe entrò un supplente. Lei aveva accompagnato il nipote in ospedale la notte precedente, non voleva lasciarlo e aveva chiesto un permesso. Venimmo a sapere allora che si occupava da sola del figlio tetraplegico della sorella, che era mancata, vivendo insieme ai genitori anziani di cui pure si prendeva cura con una dedizione che ai nostri occhi rasentava il martirio. Ripenso spesso a lei oggi che il lavoro di cura di una persona amata consuma buona parte del mio tempo.

Da maggio 2019 l’OMS ha inserito il burnout nell’International Classification of Disease (ICD)1 definendolo una sindrome da stress cronico associato al contesto lavorativo, con particolare riferimento alle professioni di cura ma esteso a ogni contesto professionale. Del lavoro di cura privato che avviene nelle case, non meno logorante, nessuno mi aveva mai fatto cenno. La comunicazione pubblica italiana non affronta la questione in maniera efficace. Esistono associazioni sul territorio che se ne occupano ma bisogna cercarle da sé. La sensazione iniziale è di essere soli.

La definizione di burnout prevede quattro fasi.2
La prima è un senso di potenza derivato dal desiderio di fare e dall’impegno profuso.
Subentra la stagnazione quando ci si scontra con le difficoltà della situazione.
È seguita dalla frustrazione e da una profonda sensazione di impotenza
La quarta fase è il distacco, che si porta dietro sentimenti di intolleranza e indifferenza, sensi di colpa, cinismo e sensazione di fallimento.

Sul limite della terza ho chiesto aiuto. Il reparto oncologico che ha in cura mio padre offre un servizio di supporto psicologico gratuito sia ai pazienti che ai familiari. Sulle prime non pensavo di averne bisogno, ero convinta di poter attingere alle mie sole risorse, e poi dove potevo mai trovare il tempo per occuparmi di me con tutto quello che mi gravava sulle spalle? Mi sbagliavo, pure sul tempo. Si trova per tutto, anche per l’impensabile. Soprattutto non c’è aiuto che si possa dare ad alcuno se non si è in grado di aiutare se stessi, e lasciarsi aiutare.

Come faceva la mia insegnante a sopportare tanto ed essere comunque sorridente in classe? Io spesso mi sono sentita mancare: la terra sotto i piedi, il coraggio, la determinazione, la voglia, me stessa. Ho ripescato una foto di classe. Sorrideva pure lì. Mi sembra curva sotto un peso che non si vede ma si intuisce. Forse lo scorgo perché adesso lo riconosco. Non ho più saputo cosa ne sia stato di lei né del nipote. Non posso più chiederle niente. Le risposte arrivano nella nostra vita sempre disallineate : quando potevo avere una risposta non avevo ancora formulato la domanda.

L’ospedale ha definito mio padre “malato terminale”. Quando mi sento schiacciata da questa sentenza inappellabile mi risuona nella testa La cura di Battiato:

E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te3

So di non poter fare questa promessa e sto provando a farci pace. Ho ripensato di recente alla mia insegnante guardando un film di Bong Joon-ho, regista del più noto Parasite del 2019. Si intitola Madre4, è del 2009 ma in Italia è arrivato nel 2021. Racconta la storia di una madre che lotta con ferocia per salvare il figlio. Nella scena di apertura c’è solo lei, che non ha nome ed è chiamata solo madre. La interpreta Kim Hye-ja che avanza a fatica tra l’erba alta in uno spazio immenso, sola e smarrita sotto un cielo plumbeo, circondata da montagne. Poi comincia a danzare. Lo spazio è vasto e aperto solo in apparenza, a me è sembrato una prigione.

Ho iniziato a guardare il film senza saperne nulla e ho scoperto presto che la sua prigione è il figlio. Ha un disturbo mentale e quando viene arrestato lei fa della sua sopravvivenza ragione di vita, missione e condanna insieme. La sua danza è uno straziante lamento. Non dice una parola, spesso non guarda neanche in camera. Ma so come si sente. Sperduta e sola in un vasto campo riarso, si arrende a danzare una musica che non può cambiare. C’è un tamburo che batte e impone il suo ritmo. A un certo punto sembra che si lasci andare alla musica, nasconde lo sguardo, accenna persino un sorriso. Poi scopre gli occhi, li riapre sulla realtà, il sorriso sparisce. Ora è la bocca che nasconde con la mano. Infine si volta, continua a danzare dandoci le spalle, rinuncia all’orizzonte.

Quanto il mondo si contrae dentro una stanza e si riduce a una persona su un letto, l’orizzonte si fa stretto e il resto diventa opaco. In alcuni momenti ho avvertito un abisso tra il dentro e il fuori. Ma anche tra le mie risorse che si assottigliavano e quello che la situazione richiedeva: presenza, attenzione, perenne allerta. La cura può essere logorante ma non sono io a portare il peso più grande.

Nona Fernández nel memoir Voyager5 racconta una visita neurologica a cui accompagna la madre: “Usciamo dallo studio del neurologo e guardo mia madre con altri occhi. Ora so che sulle spalle porta il peso del cosmo intero. Le racconto cosa ho visto sul monitor assieme al dottore. Le parlo della somiglianza del suo cervello col firmamento. Dell’attività elettrica dei suoi neuroni, della luce del suo ricordo, della costellazione che si è accesa mentre lei lo rievocava, del riflesso luminoso del suo passato. Le domando qual è la scena felice che ho visto luccicare sul monitor, lei sorride e risponde di aver ricordato il momento della mia nascita.

Da quando ha scoperto di avere un tumore al quarto stadio mio padre pensa continuamente a quando eravamo piccoli. Lui e io. Mi racconta pezzi della sua infanzia e li mescola a frammenti della mia, dimentica di avermi già raccontato un episodio che lo riguarda e la volta dopo ne divento io la protagonista. Non sono sicura che tutto quello che racconta sia ricordo autentico o solo una narrazione che costruisce per colmare i vuoti di memoria che gli stanno svuotando il cuore. È così che mi ha detto di sentirsi, col cuore vuoto. Il mio è colmo di paura.

In certi momenti, al buio, quando ho più paura, cerco di convincermi che sto vegliando il delirio di una sconosciuta” scrive Julián Herbert in Ballata per mia madre.6 Chi è sua madre, si chiede l’autore mentre siede accanto al letto e si interroga sul suo rapporto con lei, pieno di rabbia ma anche di dolcezza, contraddittorio com’è ogni cuore, com’è la vita stessa. Chi è mio padre, mi domando anch’io mentre lo guardo dormire e mi sembra già morto. Una volta mi sono sorpresa a desiderare che fosse già accaduto, poi ho pianto per ore. Volevo che fosse oltre il dolore, trarre fuori anche me stessa dal pantano della sofferenza, ma non sapevo perdonarmi un desiderio tanto atroce. Un momento dopo già speravo di avere più tempo da passare con lui. I desideri si contraddicono quando ci si prende cura di qualcuno sulla soglia tra l’ora e il mai più.

Ci siamo detti abbastanza? Ho mai capito chi fosse, oltre a essere mio padre? Aggiungo lo sforzo di comprensione alla fatica della cura quotidiana. Non ero pronta a fargli da genitore, lo sto imparando mio malgrado. Sono sua figlia e mi è difficile accettare che sia debole, spezzato, che non sia lui a proteggere me da paura e dolore.

Non c’è altro da fare se non provare quel che c’è da provare” scrive Marco Peano in L’invenzione della madre.7 Mattia, il protagonista del romanzo, sa che non potrà salvare sua madre dalla malattia e decide di non sprecare un solo istante. Ridisegna la sua vita, le dà la forma di lei. I suoi giorni diventano attesa ma anche memoria, un viaggio da fermo, un esercizio d’addio.

Si può imparare a dire addio? Anche a volerci provare non se ne ha il tempo, risucchiato dalle incombenze pratiche: punture, colloqui con l’oncologa, rimedi per gli effetti collaterali della chemioterapia, cosa gli do da mangiare, che mi invento oggi per distrarlo, cosa farmi raccontare perché pensi di avere ancora un posto a questo mondo, nella mia vita, nella sua? E poi la domanda che se ne sta acquattata in fondo alle altre: sto facendo abbastanza? Qualche mese fa la mia risposta sarebbe stata no. Ero in un gorgo da cui non vedevo uscita se non la fine. Adesso è sì. La sola uscita possibile è ancora quella di prima, ma io ho attuato un cambio di prospettiva radicale. Mi ha aiutato a crederci la psicologa che ci segue e pure uscire da quella stanza e tornare nel mondo, a viverlo.

Quando morirà sprofonderò nella colpa che mi vado costruendo giorno per giorno. Sarà pronta per il suo funerale.” È Donatella Di Pietrantonio in Mia madre è un fiume.8 Pure io indosso ancora quella colpa quando mi sento troppo stanca per offrirgli un sorriso oppure ho modi spicci perché non vedo l’ora di fare ciò che devo e scappare via per qualche ora. Per concedermi aria e spazio, ricaricarmi, coltivare la vita fuori da quella stanza. Non posso metterla in attesa, tanto meno spegnerla. Ora lo so. È giusto così. Quando rientro ho qualcosa di nuovo da dirgli. Gli piace ascoltarmi mentre gli racconto per quanti chilometri ho corso la domenica, se è stato pubblicato un mio pezzo che gli avevo letto, un’avventura con le sue nipoti, quell’escursione che volevamo fare insieme.

La preoccupazione è ancora lì, bene incistata. È paura che accada qualcosa mentre non ci sono e terrore che accada invece davanti a me. È timore di non reagire abbastanza in fretta nell’emergenza. È non sapere come sarà dopo che lui avrà oltrepassato quella soglia. Ma ho cominciato a credere che il coraggio bisogna fabbricarselo, non esiste già da qualche parte, da tirare fuori. Il mio lo sto costruendo un giorno per volta, uno spavento dietro l’altro. È impastato con la fatica della cura ma pure con la vita, quella che c’è stata, che c’è ancora e che anche dopo, in qualche modo, continuerà.

Questo articolo è il racconto di un’esperienza personale. Se hai dubbi sull’argomento, consulta un professionista per informazioni, una diagnosi o un percorso terapeutico.

1 Per l’inserimento del burnout nell’ICD dell’OMS https://www.who.int/news/item/28-05-2019-burn-out-an-occupational-phenomenon-international-classification-of-diseases
2 https://www.centromoses.it/benessere-sul-lavoro/articoli/burn-out-lavorativo
3 Franco Battiato, La cura, in L’imboscata, PolyGram, 1996
4 Bong Joon-ho, Madre (Madeo), Corea del Sud, 2009
5 Nona Fernandez, Voyager, traduzione Carlo Alberto Montalto, gran vía, 2021, p. 18
6 Julián Herbert, Ballata per mia madre, traduzione Maria Cristina Secci, gran vía, 2014
7 Marco Peano, L’invenzione della madre, Minimum Fax, 2015, p. 188
8 Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, Einaudi, 2022, p. 68

Autore

Sara Mostaccio
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Sara Mostaccio è nata sotto l’Etna e per lavoro e per passione scrive, legge e viaggia. È traduttrice e giornalista, scrive guide turistiche e cura Io Viaggio in Poltrona, un sito-mappa sulla letteratura di viaggio e la newsletter omonima. Un frammento del suo cuore è greco e la meta prediletta quando viaggia - non in poltrona - è la Grecia. La racconta anche nel podcast Filakia - Cartoline da Atene e nella newsletter Kalò Dromo che segue la sua lunga strada (di corsa) verso la maratona di Atene.